giovedì 31 ottobre 2024

Mi ricordo 17

Mi ricordo di Maria Assunta, abitava sopra l’edicola delle due zitelle. Al ritorno da scuola, mio padre, sotto braccio la cartelletta che conteneva i temi degli alunni, si fermava a ritirare la sua copia del Corriere della Sera, mentre io ci andavo di sabato per acquistare le figurine dei calciatori. Cinque pacchetti.

Numero dispari e squilibrato, nessuna scaramanzia cabalistica o conta delle dita di una mano, piuttosto soglia delle mancette settimanali carpite alla nonna per accompagnarla in chiesa, dove al posto del Credo di Nicea recitavo sottovoce la formazione dell’Inter di Eugenio Bersellini.

Ormai non dovevo nemmeno più chiedere, come chi, intercettando lo sguardo del cameriere a cui inviare un cenno d’intesa, ottiene quale risposta un Bitter Campari; e così a me cinque pacchetti di figurine Panini, consegnate dalle mani talcate di una delle due zitelle. Sulla busta tricolore un uomo in braghette bianche e blusa rossa colpisce al volo il pallone in sforbiciata.

Le aprivo davanti al bar dei genitori di Claudio, a pochi metri dall’uscita dall’edicola, nella speranza di trovare la figurina di Pizzaballa, portiere di Verona, Milan e infine Atalanta, con cui avrei concluso l’albo.

Maria Assunta aveva due anni più di me e uno più di Claudio. La carnagione chiara. I capelli neri.

Dietro all'edicola c’era un piccolo giardino, al centro svettava un pino che raggiungeva il quinto piano del condominio accanto, dove abitava Claudio a un paio di rampe di scale dal suo bar. Il pino era stato colpito in due diverse occasioni da un fulmine, ma era sempre sopravvissuto.

Quando si intravedeva il lampo immediatamente seguito dal tuono, dalle abitazioni che danno sul cortile (la casetta anni Venti di Maria Assunta, il mio palazzo, completato alla fine degli anni Cinquanta, e quello più recente di Claudio) le persone si affacciavano alle finestre o uscivano in terrazza, guardandosi con un’apprensione complice.

Forse accadeva qualcosa di simile durante la guerra, i bombardieri americani sganciavano le bombe sulla ferrovia e i bambini salutavano i piloti saltellando tra i filari delle vigne, in un attivarsi del corpo che era allo stesso tempo festa e paura, meraviglia. Tanti anni dopo ho scoperto che la filosofia proviene dallo stesso miscuglio.

Claudio aveva una bicicletta simile alle moto di Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider. Era molto scomoda ma molto bella, sosteneva di averla vinta con i buoni del frappè.

Di solito prima si sperimenta una cosa e poi si impara la parola corrispondente, ma, con il frappè, per me è stato diverso. La mamma diceva che potevo fare merenda anche a casa e quelli al bar sono soldi buttati via.

Non ho trattenuto un’immagine precisa della mia bicicletta, solo il colore verde smunto. Tutta la memoria va alla bicicletta di Claudio: il manubrio alto e la posizione avanzata dei pedali, la ruota anteriore più piccola, lunga la sella. E poi era gialla come tutte le cose veloci.

Una sfera di gomma scura azionava la trombetta cromata. Il signor Pittino però non voleva che la suonassimo, quando faceva caldo – ma quando faceva freddo in cortile non si andava – imponeva un silenzio assoluto a tutela del suo riposino pomeridiano, che durava dalle 13.30 alle 18.

A volte io e Claudio ci scambiavamo le biciclette o giocavamo a tappi, fino a quando vedevano Maria Assunta comparire in giardino. Si sedeva su una poltrona di vimini posata accanto al grande pino, le fronde facevano ombra, offrivano un po’ di frescura; ma più che altro credo si mettesse lì per evitare ogni contatto con i raggi del sole.

Indossava abiti a fiori e sandali ricamati sulle fettuccine di pellame. Il parroco, a dottrina, chiamava quello stile hippy, e quando pronunciava il termine si avvertiva una punta di sarcasmo. Sotto i fiori stampati sul tessuto di cotone leggero si intravedevano gambe bianchissime.

Dopo aver scalciato lontano i sandali, strofinava i piedi su fili d’erba misti a terriccio. Un movimento che ricordava i gatti quando sono contenti o ricoprono con la sabbietta le feci.

Tra il cortile che univa i nostri palazzi e il giardino di Maria Assunta era presente un contrafforte di cemento. Partiva basso, un muretto al culmine della rampa d’accesso ai box, e poi arrivava a circa tre metri, sormontato da una rete di metallo arrugginita non più alta di un pony.

Dopo avere lasciato le biciclette appoggiate alla parete, io e Claudio lo percorrevamo poggiando solo la punta dei piedi, il petto rasente i fori della rete dove inserire le dita, cinque centimetri di larghezza era tutto lo spazio di cui disponevamo. Arrivati di fronte al pino scavalcavamo, se l’avessimo fatto prima saremmo finiti nell’orto di non so chi.

Mi piace credere che a Maria Assunta facesse piacere che rischiassimo l’osso del collo per andare a trovarla, se non altro non appariva seccata. In genere teneva tra le mani un libro o un fotoromanzo, al nostro arrivo lo lanciava vicino ai sandali, e ci sorrideva. Poi parlava di cose un po’ da grandi, e noi rispondevamo con cose da piccoli.

Una volta ci ha offerto dell’acqua fresca, l’ha versata da una caraffa di terracotta in bicchieri di plastica trasparente, dove ha aggiunto lo sciroppo di orzata. I due liquidi sembravano da principio recalcitranti a unirsi, ma una volta acquisita confidenza, piano piano, si fondevano in una sostanza del colore delle sue gambe.

Nel giardino c’erano anche delle piantine di basilico, contendevano l’odore di quei pomeriggi assolati a tre cespugli di rose rosse e un pruno defilato, su cui il cocker del Rag. Castoldi (sulla cassetta delle lettere stava scritto così, non so se avesse anche un nome di battesimo) andava a pisciare. Guai a mangiare le prugne perché le due zitelle si arrabbiavano, dicevano che l’albero era il loro.

A ottobre Maria Assunta smetteva di scendere in giardino, e anche io e Claudio smettevamo di arrampicarci per andarla a trovare. Aspettavamo la fine di aprile dell’anno dopo. Potevamo guardare la tivù, se avevamo finito di fare i compiti, alle 16.40 in punto, iniziavano le schermaglie tra Zorro e il sergente Garcia.

Era il 1976, Peppino Di Capri aveva vinto il festival di Sanremo con Non lo faccio più, consegnandomi una diffidenza mai più svanita per giudici e giurie, quando era tanto più bella Sambariò di Drupi, classificata solo sesta. Poi fu il turno del 1977. Ma nel 1978 cambiava tutto.

Maria Assunta non si vedeva più in giardino. Nemmeno a maggio, a giugno. Le due zitelle, vedendomi smarrito nell’acquisto delle figurine, un sabato mi hanno rivelato che era andata ad abitare altrove. Quella ladra, hanno aggiunto. Ci mangiava sempre le prugne.

In autunno sono riprese le lezioni alle scuole medie F. Sassi di Sondrio, e mi sono accorto di una compagna di classe. Si chiamava Simona. Anche l’anno precedente eravamo andati a scuola assieme, nella sezione F, ma adesso era diverso... Prima non me ne accorgevo.

Rimaneva il problema di dare un nome a quella sensazione, più che nella testa stava dentro la pancia.

In fondo provavo qualcosa di simile mentre mi arrampicavo per raggiungere Maria Assunta. Al suo apparire tra il basilico e le rose, sormontata dal pino e con la complicità del pruno, si faceva ancora più forte, quasi un crampo.

Eppure è la cronologia abituale: inizia la sensazione, a cui segue – può passare molto tempo – una sequenza ordinata di lettere. Amore, ad esempio, perché di questo si trattava. Il primo amore, per essere precisi. Mica come il frappè di cui continuavo a conoscere solamente il nome.

L’unica differenza è che non dovevo arrampicarmi su nessun contrafforte, fare l’equilibrista, scavalcare, graffiarmi, stare attento a non cadere. Per poi essere accolto nel giardino dove Maria Assunta ci attendeva sul suo trono di vimini.

Ritrovavo Simona tutte le mattine, entrava in classe sempre prima di me e stava già rivolta in direzione della lavagna. Una concentrazione quasi cocciuta, malgrado i suoi occhi azzurri da dodici diottrie, già pronta a offrire ai professori la soluzione di problemi non ancora formulati. C’è chi ci nasce primo della classe. Intanto, io guardavo lei come si guarda attoniti alla X.

Un giorno sono entrato nel bar dei genitori di Claudio, avevo messo da parte qualche spicciolo che non impiegavo più per le figurine; ora dalle zitelle andavo di giovedì per acquistare i fumetti di Zagor. Ho ordinato un frappè. A che gusto? Fragola.

È divertente vedere il ghiaccio sbattere contro le pareti del frullatore, anzi ascoltarlo, ta-ta-ta-ta, prima di cedere al latte e alla polvere rosa. Se ritagli i buoni che stanno stampati dietro la busta puoi anche vincere una bicicletta. Quindi l’ho bevuto e ho pagato e sono uscito. Tutto qui?

Avevo finalmente imparato come ricomporre i nomi alle cose.

Se dicessi che pochi anni dopo ho letto il nome Maria Assunta su un manifesto funebre, Maria Assunta, 1964 – 1988, ti ricordano con affetto i cugini di Voghera, ora sei in cielo assieme al tuo papà, renderei il finale della storia un po’ patetico. Peggio se aggiungessi il commento delle due zitelle, mettevano sempre l’articolo determinativo: “La droga..." bisbiglia la prima. "È morta" completa la seconda mentre consegna la Gazzetta dello Sport al Rag. Castoldi, "è morta perché si faceva le punture con dentro la droga.”

Ma le cose sono andate a questo modo e non posso farci nulla, solo cercare una nuova storia, ce ne se sono tante in giro. Questa però è la mia storia e se non la racconto io rimarrà senza parole, nessuna traccia di un minimo giardino tra via Trento e via Parolo, a Sondrio. Conteneva due scalatori alla loro prima vetta, due streghe e naturalmente una principessa, dalle gambe del colore dell’orzata.

Nel frattempo Claudio aveva cambiato città, non ho più rivisto lui né la sua strana bicicletta. La figurina di Pizzaballa – ecco perché non la trovavo mai! – pare non fosse stata stampata. Simona si è laureata in Lettere con il massino dei voti, adesso è capo redattrice in una rivista dove spiegano i diversi tipi di orgasmo femminile e come superare la prova costume.

Solo il pino giganteggia ancora al suo posto, ogni tanto gli danno una sfoltita ai rami laterali, ma il signor Pittino non si lamenta più per il rumore della sega elettrica. Nel suo appartamento è subentrato il nuovo inquilino, somiglia un po’ a Dennis Hopper ma gli manca il chopper e il giaccone con le frange. Ha sostituito la targhetta Pittino con un cognome pieno di consonanti palatali. Prima le cose e poi le parole, la regola è rimasta immutata.

In ogni caso, qualcuno che si lamenta si trova sempre.

Al termine dell'estate qualche volta ancora mi ricordo di Maria Assunta, succede quando arrivano i primi temporali. Se avverto un fragore più forte, secco, di quelli che ti fanno esclamare Che botta! mi affaccio alla finestra per controllare se il fulmine ha colpito la cima della pianta. Ma non vedo più spuntare altri occhi spalancati, in cui riflettermi e placare il mio spavento.

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