Mi ricordo di Maria Assunta, abitava sopra l’edicola delle due zitelle. Al ritorno da scuola, mio padre, sotto braccio la cartelletta che conteneva i temi degli alunni, si fermava a ritirare la sua copia del Corriere della Sera, mentre io ci andavo di sabato per acquistare le figurine dei calciatori. Cinque pacchetti.
Numero dispari e squilibrato,
nessuna scaramanzia cabalistica o conta delle dita di una mano, piuttosto
soglia delle mancette settimanali carpite alla nonna per accompagnarla in
chiesa, dove al posto del Credo di Nicea recitavo sottovoce la formazione
dell’Inter di Eugenio Bersellini.
Ormai non dovevo nemmeno più
chiedere, come chi, intercettando lo sguardo del cameriere a cui inviare un
cenno d’intesa, ottiene quale risposta un Bitter Campari; e così a me cinque
pacchetti di figurine Panini, consegnate dalle mani talcate di una delle due
zitelle. Sulla busta tricolore un uomo in braghette bianche e blusa rossa
colpisce al volo il pallone in sforbiciata.
Le aprivo davanti al bar dei
genitori di Claudio, a pochi metri dall’uscita dall’edicola, nella speranza di
trovare la figurina di Pizzaballa, portiere di Verona, Milan e infine Atalanta,
con cui avrei concluso l’albo.
Maria Assunta aveva due anni
più di me e uno più di Claudio. La carnagione chiara. I capelli neri.
Dietro all'edicola c’era un
piccolo giardino, al centro svettava un pino che raggiungeva il quinto piano
del condominio accanto, dove abitava Claudio a un paio di rampe di scale dal
suo bar. Il pino era stato colpito in due diverse occasioni da un fulmine, ma
era sempre sopravvissuto.
Quando si intravedeva il
lampo immediatamente seguito dal tuono, dalle abitazioni che danno sul cortile
(la casetta anni Venti di Maria Assunta, il mio palazzo, completato alla fine
degli anni Cinquanta, e quello più recente di Claudio) le persone si affacciavano
alle finestre o uscivano in terrazza, guardandosi con un’apprensione complice.
Forse accadeva qualcosa di
simile durante la guerra, i bombardieri americani sganciavano le bombe sulla
ferrovia e i bambini salutavano i piloti saltellando tra i filari delle vigne,
in un attivarsi del corpo che era allo stesso tempo festa e paura, meraviglia.
Tanti anni dopo ho scoperto che la filosofia proviene dallo stesso miscuglio.
Claudio aveva una bicicletta
simile alle moto di Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider. Era
molto scomoda ma molto bella, sosteneva di averla vinta con i buoni del frappè.
Di solito prima si sperimenta
una cosa e poi si impara la parola corrispondente, ma, con il frappè, per me è
stato diverso. La mamma diceva che potevo fare merenda anche a casa e quelli al
bar sono soldi buttati via.
Non ho trattenuto un’immagine
precisa della mia bicicletta, solo il colore verde smunto. Tutta la memoria va
alla bicicletta di Claudio: il manubrio alto e la posizione avanzata dei
pedali, la ruota anteriore più piccola, lunga la sella. E poi era gialla come
tutte le cose veloci.
Una sfera di gomma scura
azionava la trombetta cromata. Il signor Pittino però non voleva che la
suonassimo, quando faceva caldo – ma quando faceva freddo in cortile non si
andava – imponeva un silenzio assoluto a tutela del suo riposino pomeridiano,
che durava dalle 13.30 alle 18.
A volte io e Claudio ci
scambiavamo le biciclette o giocavamo a tappi, fino a quando vedevano Maria
Assunta comparire in giardino. Si sedeva su una poltrona di vimini posata
accanto al grande pino, le fronde facevano ombra, offrivano un po’ di frescura;
ma più che altro credo si mettesse lì per evitare ogni contatto con i raggi del
sole.
Indossava abiti a fiori e
sandali ricamati sulle fettuccine di pellame. Il parroco, a dottrina, chiamava
quello stile hippy, e quando pronunciava il termine si avvertiva una punta di
sarcasmo. Sotto i fiori stampati sul tessuto di cotone leggero si intravedevano
gambe bianchissime.
Dopo aver scalciato lontano i
sandali, strofinava i piedi su fili d’erba misti a terriccio. Un movimento che
ricordava i gatti quando sono contenti o ricoprono con la sabbietta le feci.
Tra il cortile che univa i
nostri palazzi e il giardino di Maria Assunta era presente un contrafforte di
cemento. Partiva basso, un muretto al culmine della rampa d’accesso ai box, e
poi arrivava a circa tre metri, sormontato da una rete di metallo arrugginita
non più alta di un pony.
Dopo avere lasciato le
biciclette appoggiate alla parete, io e Claudio lo percorrevamo poggiando solo
la punta dei piedi, il petto rasente i fori della rete dove inserire le dita, cinque centimetri di larghezza era tutto lo spazio di cui disponevamo. Arrivati di fronte al
pino scavalcavamo, se l’avessimo fatto prima saremmo finiti nell’orto di non so
chi.
Mi piace credere che a Maria
Assunta facesse piacere che rischiassimo l’osso del collo per andare a
trovarla, se non altro non appariva seccata. In genere teneva tra le mani un
libro o un fotoromanzo, al nostro arrivo lo lanciava vicino ai sandali, e ci sorrideva.
Poi parlava di cose un po’ da grandi, e noi rispondevamo con cose da piccoli.
Una volta ci ha offerto
dell’acqua fresca, l’ha versata da una caraffa di terracotta in bicchieri di
plastica trasparente, dove ha aggiunto lo sciroppo di orzata. I due liquidi
sembravano da principio recalcitranti a unirsi, ma una volta acquisita confidenza,
piano piano, si fondevano in una sostanza del colore delle sue gambe.
Nel giardino c’erano anche
delle piantine di basilico, contendevano l’odore di quei pomeriggi assolati a
tre cespugli di rose rosse e un pruno defilato, su cui il cocker del Rag.
Castoldi (sulla cassetta delle lettere stava scritto così, non so se avesse
anche un nome di battesimo) andava a pisciare. Guai a mangiare le prugne perché
le due zitelle si arrabbiavano, dicevano che l’albero era il loro.
A ottobre Maria Assunta
smetteva di scendere in giardino, e anche io e Claudio smettevamo di
arrampicarci per andarla a trovare. Aspettavamo la fine di aprile dell’anno
dopo. Potevamo guardare la tivù, se avevamo finito di fare i compiti, alle 16.40 in punto, iniziavano le schermaglie tra Zorro e il
sergente Garcia.
Era il 1976, Peppino Di Capri
aveva vinto il festival di Sanremo con Non lo faccio più, consegnandomi
una diffidenza mai più svanita per giudici e giurie, quando era tanto più bella
Sambariò di Drupi, classificata solo sesta. Poi fu il turno del 1977. Ma
nel 1978 cambiava tutto.
Maria Assunta non si vedeva
più in giardino. Nemmeno a maggio, a giugno. Le due zitelle, vedendomi smarrito
nell’acquisto delle figurine, un sabato mi hanno rivelato che era andata ad
abitare altrove. Quella ladra, hanno aggiunto. Ci mangiava sempre le prugne.
In autunno sono riprese le
lezioni alle scuole medie F. Sassi di Sondrio, e mi sono accorto di una
compagna di classe. Si chiamava Simona. Anche l’anno precedente eravamo andati
a scuola assieme, nella sezione F, ma adesso era diverso... Prima non me ne accorgevo.
Rimaneva il problema di dare un
nome a quella sensazione, più che nella testa stava dentro la pancia.
In fondo provavo qualcosa di
simile mentre mi arrampicavo per raggiungere Maria Assunta. Al suo apparire tra
il basilico e le rose, sormontata dal pino e con la complicità del pruno, si
faceva ancora più forte, quasi un crampo.
Eppure è la cronologia
abituale: inizia la sensazione, a cui segue – può passare molto tempo – una
sequenza ordinata di lettere. Amore, ad esempio, perché di questo si trattava.
Il primo amore, per essere precisi. Mica come il frappè di cui continuavo a conoscere
solamente il nome.
L’unica differenza è che non
dovevo arrampicarmi su nessun contrafforte, fare l’equilibrista, scavalcare,
graffiarmi, stare attento a non cadere. Per poi essere accolto nel giardino
dove Maria Assunta ci attendeva sul suo trono di vimini.
Ritrovavo Simona tutte le
mattine, entrava in classe sempre prima di me e stava già rivolta in direzione
della lavagna. Una concentrazione quasi cocciuta, malgrado i suoi occhi azzurri
da dodici diottrie, già pronta a offrire ai professori la soluzione di problemi
non ancora formulati. C’è chi ci nasce primo della classe. Intanto, io guardavo
lei come si guarda attoniti alla X.
Un giorno sono entrato nel
bar dei genitori di Claudio, avevo messo da parte qualche spicciolo che non
impiegavo più per le figurine; ora dalle zitelle andavo di giovedì per
acquistare i fumetti di Zagor. Ho ordinato un frappè. A che gusto?
Fragola.
È divertente vedere il ghiaccio
sbattere contro le pareti del frullatore, anzi ascoltarlo, ta-ta-ta-ta, prima
di cedere al latte e alla polvere rosa. Se ritagli i buoni che stanno stampati
dietro la busta puoi anche vincere una bicicletta. Quindi l’ho bevuto e ho
pagato e sono uscito. Tutto qui?
Avevo finalmente imparato come
ricomporre i nomi alle cose.
Se dicessi che pochi anni
dopo ho letto il nome Maria Assunta su un manifesto funebre, Maria
Assunta, 1964 – 1988, ti ricordano con affetto i cugini di Voghera, ora sei in
cielo assieme al tuo papà, renderei il finale della storia un po’ patetico.
Peggio se aggiungessi il commento delle due zitelle, mettevano sempre
l’articolo determinativo: “La droga..." bisbiglia la prima. "È
morta" completa la seconda mentre consegna la Gazzetta dello
Sport al Rag. Castoldi, "è morta perché si faceva le punture con
dentro la droga.”
Ma le cose sono andate a
questo modo e non posso farci nulla, solo cercare una nuova storia, ce ne se
sono tante in giro. Questa però è la mia storia e se non la racconto io rimarrà
senza parole, nessuna traccia di un minimo giardino tra via Trento e via
Parolo, a Sondrio. Conteneva due scalatori alla loro prima vetta, due streghe e
naturalmente una principessa, dalle gambe del colore dell’orzata.
Nel frattempo Claudio aveva
cambiato città, non ho più rivisto lui né la sua strana bicicletta. La figurina
di Pizzaballa – ecco perché non la trovavo mai! – pare non fosse stata
stampata. Simona si è laureata in Lettere con il massino dei voti, adesso è
capo redattrice in una rivista dove spiegano i diversi tipi di orgasmo
femminile e come superare la prova costume.
Solo il pino giganteggia
ancora al suo posto, ogni tanto gli danno una sfoltita ai rami laterali, ma il
signor Pittino non si lamenta più per il rumore della sega elettrica. Nel suo
appartamento è subentrato il nuovo inquilino, somiglia un po’ a Dennis Hopper
ma gli manca il chopper e il giaccone con le frange. Ha sostituito la targhetta
Pittino con un cognome pieno di consonanti palatali. Prima le cose e poi le
parole, la regola è rimasta immutata.
In ogni caso, qualcuno che si
lamenta si trova sempre.
Al termine dell'estate
qualche volta ancora mi ricordo di Maria Assunta, succede quando arrivano i primi temporali. Se avverto un fragore più forte, secco,
di quelli che ti fanno esclamare Che botta! mi affaccio alla
finestra per controllare se il fulmine ha colpito la cima della pianta. Ma non
vedo più spuntare altri occhi spalancati, in cui riflettermi e placare il mio spavento.
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