venerdì 4 ottobre 2024

Mi ricordo 7

Mi ricordo di due pullman e un autorimorchio. Il primo pullman prendeva avvio da piazzale Valgoi, puntuale all'1.15 tutti i mercoledì a partire da dicembre fino ai primi di marzo. Una mezz'ora di viaggio scarsa, in cui si approfittava per mangiare il panino con la frittata preparato dalla mamma, e si scendeva a Caspoggio, dove si tenevano i corsi di sci organizzati dalla società sportiva Bruno Credaro. Essendo piazzale Valgoi a poche decine di metri da casa mia, ero l'unico bambino che, con passo strascicato da yeti, raggiungevo il pullman direttamente con gli scarponi di plastica sagomata ai piedi, tutti gli altri indossavano i Moon Boot da sostituire durante il viaggio, mentre i genitori li accompagnavano portando in spalla gli sci. Nel mio caso facevo tutto da solo, cosa che mi dava l'illusione di avere già agganciato lo skilift che mi avrebbe condotto alla vetta dell'età adulta, senza pensare che sarebbe poi cominciata una lenta implacabile discesa. Ad attenderci alla seggiovia un maestro di sci dal volto arso dal sole unito al riflesso della neve, su cui spiccavano denti bianchissimi; se si toglieva gli occhiali a specchio con un galletto impresso sulla montatura in corrispondenza del sesto chakra, anche l'incarnato attorno agli occhi rivelava un'inatteso candore, ricordando i seni delle attrici famose che posavano su Playboy.

Il secondo pullman si presentava una sola volta per ogni anno scolastico delle elementari, in genere in autunno quando i piccoli erano ancora all'abecedario – A come albero, B come banana, C come cane etc. –, parcheggiava di fronte alle scuole intitolate a Ezio Vanoni, e una per volta le classi lo raggiungevano accompagnate dalla maestra e dal bidello dal singolare odore di castagne arrosto, per poi frazionarsi ulteriormente in unità di alunni che salivano con un po' di apprensione il predellino, si toglievano maglia camicia canottiera e anche la blusa (quella dei maschi era nera, bianca a grembiulino per le femmine, a cui le più vezzose aggiungevano un fiocco rosa), quindi poggiavano sempre più intimoriti il petto gracile a uno schermo simile a quello della tivù in bianco e nero. Solo che dall'altra parte, invece di Zorro, c'era un medico taciturno assistito da un'infermiera che cercava di sdrammatizzare con una battuta, e al posto della zeta sul pancione del sergente Garcia veniva proiettato lo spettacolo pulsante del nostro dentro; credo si chiamasse fluoroscopio, una sorta di radiografia in versione live che emetteva una quantità di raggi X pari all'atollo di Mururoa. Ma poco male, in fondo si trattava di un compito scolastico tra gli altri, e immaginavamo che avremmo ottenuto anche questa volta un punteggio in scala da uno a dieci. Come a Miss Italia danno il voto alle gambe a noi l'avrebbero dato ai polmoni.

L'autorimorchio aveva un cassone lunghissimo, come minimo ventidue metri, la misura dichiarata di Goliath, a cui era stato aggiunto sul manifesto giallo "la balena più grande del mondo." Arrivò a Sondrio nella primavera dei primi anni Settanta, rimanendo una decina di giorni ai piedi del monumento in bronzo di Garibaldi, quando la piazza a lui dedicata non era ancora pedonale. Fu il nonno Pinin a insistere per andarla a vedere, forse in conseguenza del fatto che Goliath  così stava scritto all'interno del dépliant  era stata abbattuta al largo di Trondheim, in Norvegia, il 6 giugno del 1954, paese nel quale il fratello del nonno era stato console, e da cui a Natale provenivano i maglioni inviati dai cugini norvegesi di papà. Non ci volle però molto per capire che il cetaceo era di Goliath una semplice ricostruzione, dell'originale aveva mantenuto solo la fitta schiera dei fanoni giallastri, oltre a un vago sentore di pasta d'acciughe, la tristezza nello sguardo vitreo di chi eccede la misura assegnata dai mediocri, pagandone lo scotto secondo il terribile monito del katà métron. Ma allora queste parole difficili non le conoscevo ancora, e fu tristezza e basta.

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