Mi ricordo di un furgone che vendeva baguette con saucisson sec in una piazzola sulla Avenue du Maréchal-Juin, tra Cannes e Cap d’Antibes. Non so per quale ragione non ci fossero anche la zia e i miei cugini, Paolo e Alessandra; probabilmente erano rimasti in campeggio, mentre Antonio (che aveva appena due anni) si era fermato a Rapallo assieme ai nonni. Sull'auto eravamo solamente io e lo zio.
Nel vedere il furgone mise la freccia, accostò la Fiat 125 con impianto a GPL, e ci
dirigemmo entrambi verso il bancone; sporgeva di un paio di spanne ed era in legno tinteggiato, verde come il resto del veicolo. Suppongo che lo zio avesse bisogno di
un’indicazione stradale, avevamo da poco pranzato, ma visto il trascorrere dei minuti ci scappò forse un
pastis: “Vuoi qualcosa anche tu?” “Mmm… no, niente.”
Da grandi si finge di sapere sempre cosa si vuole,
mentre da piccoli si accoglie l’indeterminatezza del desiderio con pragmatismo,
le mani vagano prensili e si aggrappano alla prima cosa che trovano, per farne
esperienza ed eventualmente scartarla. Si trattava, nella circostanza, dell’asta
centrale di metallo che sosteneva il tendalino cerato; prima la sfiorai, poi iniziai a
giocarci con maggiore convinzione: mi appendevo, facevo mezzo giro sollevando i
piedi da terra, opplà, come fanno le ragazze mezze nude nei locali frequentati dagli
agricoltori del Midwest.
Intanto, i due uomini continuavano a parlare; non che
il francese dello zio fosse granché, ma si vede che voleva fare pratica. Lui
parlava, e beveva il suo pastis, e parlava ancora, mentre io roteavo appeso al
paletto del tendalino, che come prevedibile a un certo punto venne giù. L’uomo
del furgone guardò allora lo zio, lo zio guardò me e io guardai a terra, dove il tendalino amaranto si era convertito in tappeto pieno di grinze.
Era uno di quei momenti di sospensione che si vedono
nei film di Sergio Leone, avrebbe potuto durare, o essere durato, anche più di
mezz’ora, mentre da una radiolina a transistor provenivano le note di una
canzone francese; a posteriori, mi verrebbe da scommettere su Une belle
histoire di Michel Fugain, che in quell'agosto del 1972 era in testa alle
classifiche, e vent’anni dopo fu rifatta da Califano con il titolo Un'estate fa.
E poi, ecco, con la stessa inattesa subitaneità del crollo, lo zio mi diede
una sberla.
Una sberla, dallo zio?!
Fosse stata la zia tutto normale, sempre meglio dei
manrovesci della mamma, o dei calci in culo di papà, ma una sberla dallo zio
non era concepibile. Nemmeno ai miei cugini, pensavamo non ne fosse capace,
come certi cani da caccia che non fanno la ferma. Il cacciatore alla fine se ne
fa una ragione: "È fatto così" ti dice alzando le spalle, "non
gli viene proprio." E invece lo zio era capace di dare le sberle, ma tu
guarda…
L’uomo del furgone convertì il suo sguardo severo in
soddisfazione – era ciò che attendeva, a parziale risarcimento del casino
combinato – mentre lo zio si tolse gli occhiali, se li pulì, poi li rimise…
Adesso era lui a non sapere dove mettere gli occhi e le mani.
Durante il viaggio di ritorno al campeggio continuava
a farmi domande, hai fame Guido?, hai sete?, mi fermo a prenderti un gelato?,
mentre io non la smettevo di singhiozzare. Un bello stronzo pure io, a
fargliela pesare così. Avrei dovuto capire che ci sono cose che si fanno
semplicemente perché vanno fatte, il mondo se le aspetta, e noi siamo nel mondo
ma non siamo del mondo.
Ho sempre pensato che lo zio fosse l’incarnazione di questo passo evangelico, e anche nel darmi uno schiaffo il suo spirito era rimasto ad aleggiare altrove. Un luogo solo apparentemente concreto, del mondo conservava l'involucro composto da tornei di boccette, Sambuche Molinari con la mosca, macchine fotografiche Nikon, viaggi da ripercorrere di notte sull’atlante, discese sugli sci. Un mondo buono, un’belle histoire. Dove le sberle ai bambini sono lo scotto da pagare per far parte del gioco.
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