Mi ricordo la mia cagna Baruzza, un bobtail che aveva imparato ad andare in motorino; d'accordo, guidavo io, ma prima delle curve disponeva il corpo peloso alla piega, come fanno i piloti della Moto GP. Era un pomeriggio di fine novembre dal cielo terso e la portai a fare una passeggiata nel bosco dei Bordighi – niente motorino oggi? sembrava dirmi con i suoi occhi castani –, dove da piccolo andavo alla ricerca di fragole selvatiche e trovavo preservati afflosciati accanto al sambuco, pagine strappate dai giornaletti porno, siringhe; ma a cercare bene, qualche fragola la si trovava comunque. Nel frattempo, mio nonno, con cui ci eravamo precedentemente accordati, sopprimeva nella fontana gelata quattro dei suoi sette cuccioli. Una notte in cui era in calore era riuscita a sfuggire dalla clausura imposta, e aveva combinato la frittata; chissà quale cagnetto randagio era il padre, quando la riacciuffai il giorno dopo gliene ronzavano attorno una decina. Non possiamo tenerli tutti, aveva sentenziato la mamma. Non sono nemmeno di razza. Non possiamo tenerli tutti, avevo convenuto io. Il guaio è che nessuno di noi possedeva il coraggio per farlo. L’unico coraggioso in famiglia era il nonno Francesco, detto Cechin, e a lui fu appaltato il lavoro sporco. Al ritorno, Baruzza corse subito al pagliericcio nella stalla, dove aveva lasciato al caldo i suoi cuccioli: le palpebre ancora sigillate, pura vita che si dibatte per tentativi dentro un'ipotesi di mondo; cercò qualche minuto i quattro mancanti, ma se ne fece presto una ragione. Non so dove il nonno abbia poi gettato i cadaveri, il pelo a chiazze bianche e nere diventato una spugna fradicia e immota, non ho mai voluto indagare. Nell'accennare alla cosa diceva soltanto: "L'è mestè ch’i me ruga", sono mestieri che mi danno fastidio, e scuoteva la testa. Quanto a me, negli anni – ne sono passati più di trenta – il senso di colpa non si è mai attenuato, ma si è trasformato in colpa senza senso. Karma. Vergogna per la propria oscena nudità. Dove non è l’esposizione dei genitali a turbare la vista, i cazzi e le fiche che, nel bosco dei Bordighi, intravedevo sulle pagine incrostate dalla pioggia di Caballero e Le Ore Mese, ma la coscienza di appartenere a una specie proterva, che va alla ricerca di fragoline e poi scrive nel suo testo più sacro: “il timore e terrore in voi sia in tutti gli animali della terra e in tutti gli uccelli del cielo; tutto ciò che striscia al suolo e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere” (Genesi, 9-2).
(Ps – Nella fotografia, Pietro, il figlio di mio
cugino, Baruzza e io. Mia madre ha voluto incorniciare l’immagine da tenere nel
salotto buono, che però resta chiuso tutto l’inverno per risparmiare sul
riscaldamento. Credo che in termini tecnici si chiami rimosso.)
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