Stefano Brugnolo li chiama critici teppisti. Da qualche settimana, sulla sua pagina Facebook, lo studioso di letteratura ha iniziato un’ironica (ma non per questo meno argomentata) battaglia contro tale tipologia di recensori, facendone risalire l’intuizione a Javier Cercas.
Lo scrittore spagnolo utilizza l’espressione crítico
matón, ossia prepotente, con la stessa radice di matar: il gesto del
torero quando infila lo stocco alla base del morillo, e il grosso animale si
accascia esanime al suolo – capitolazione che il critico teppista si prefigura
mentalmente nell’autore che di volta in volta cerca di abbattere, nel tripudio
plaudente dei social.
È infatti sui social che il critico teppista ha
ottenuto pieno riconoscimento. Non mancano però precedenti anche lontani nel
tempo – Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva
“matarono” con piglio teppistico La storia di Elsa Morane. Ritroviamo
una disposizione teppistica anche in alcune stroncature di Renato Barilli,
Alberto Asor Rosa, Goffredo Fofi, Giovanni Raboni, Alfonso Berardinelli e, più
tardi, Roberto Cotroneo, che da quando è passato dall’altra parte della barricata
pare essersi ammansito, forse per la quantità di stroncature ricevute a sua
volta.
I critici teppisti che ora spopolano prendono i nomi
di Matteo Marchesini, Davide Brullo, Massimiliano Parente; è sempre Stefano
Brugnolo a segnalarceli. Ma con toni meno sistematicamente accaniti ritroviamo la
disposizione teppistica un po’ ovunque; ad esempio in Claudio Giunta, che
sintetizza Primo Levi come “dolciastro e artefatto”. E se Giunta scrive che
Levi è dolciastro e artefatto – assumo che si riferisca ai suoi libri, non alla
persona – è perché lui pensa che davvero sia dolciastro e artefatto. Pur avendo
una diversa opinione, mi pare dunque legittimo esprimere il proprio pensiero
senza remore, anche perché Primo Levi è morto l’11 aprile del 1987.
Ma come comportarsi nel caso di scrittori viventi?
A me pare che qui si tocchi il vulnus della funzione
critica. Io me la figuro come intimamente e irrimediabilmente tragica, nel
senso antico della tragedia greca: un dover essere che si contrappone a un non
poter essere, in una doppia lealtà alle leggi della polis e a quelle del cuore.
Le leggi della polis, nella circostanza, consisterebbero nel dirottare il
potenziale lettore da quei testi che nulla aggiungerebbero in termini di
piacere e conoscenza, e che per convenzione chiamiamo brutti. In fondo siamo tutti
grati all’amico che, incrociato mentre esce dalla sala cinematografica dove
stiamo per entrare allo spettacolo successivo, ci avverte premuroso: “Lascia
perdere: è una cagata pazzesca che nemmeno La corazzata Potëmkin”, e da quel
momento la serata prende una direzione diversa.
Ma come non pensare anche all’autore: è un essere
umano come noi, a volte capriccioso, egocentrico, perfino strafottente; non per
questo è meno sensibile e vulnerabile. In un’intervista recente Baricco
confessa di avere sofferto per come veniva trattato dai critici ai suoi primi
romanzi: poche righe per liquidare lo sforzo di mesi di lavoro, non di rado con
toni di sarcasmo che esorbitano il testo e infangano la persona. Una sofferenza
che ho ritrovato anche in Marco Lodoli, il quale una volta mi confessò: “Fa’
che incroci una volta Cotroneo (del cui teppismo critico abbiamo già detto)
traversare la strada fuori dalla strisce, e lo spiano con l’auto come un
gattaccio randagio!”
Si potrebbe obiettare che quando si compie un atto
pubblico – e dare alle stampe un romanzo lo è fuori da ogni dubbio, non a caso
viene utilizzato il verbo pubblicare – si dovrebbe essere attrezzati a
incassare ogni reazione. In teoria è giusto, in pratica siamo rimasti gli
scolaretti che consegnavano tremanti il proprio tema alla maestra: il giudizio
negativo ferisce, a qualsiasi età. Perciò Gianni Celati praticava la critica
solo in forma di affezione, e cioè di affetto manifesto verso gli autori da lui
amati. Ma lasciamogli la parola per sentire come lo motiva con la sua lingua
generosa e sorniona:
“Dunque, ci sono questi che scrivono sul giornale che
se la prendono ora con uno ora con l’altro, anch’io ho preso un sacco di
legnate, specie da Goffredo Fofi, ora, spero, si sarà sfogato. Io non capisco
chi scrive contro qualcuno o contro un libro, posso solo intuire che abbia
bisogno di sfogarsi per un qualche suo problema. La critica io la concepisco
come un lavoro di affezione, vale solo se presuppone un rapporto di affetto con
l’autore. Ha un senso se è un proporre ad altre persone la propria "amicizia"
con quell’autore.”
Sulla base del principio invalso delle pari
opportunità, prendiamo ora anche un breve stralcio dalla stroncatura di un
critico teppista. Il più noto e, probabilmente, anche più talentuoso è oggi Matteo
Marchesini. Muovendo da una critica altrettanto teppistica di Raboni, in cui
definiva Thomas Bernhard una "caricatura tirolese di Swann”, Marchesini
non si accontenta, pratica l’arte pokeristica del rilancio:
“…malgrado i suoi enfatici lodatori fingano di
respirare l’aria delle alte vette di spirito e strazio, un’indagine accurata
rivelerebbe probabilmente che ne sfogliano i libri con la soddisfazione di chi
si prende un po’ di riposo: l’autore di Antichi maestri è oggi una lettura
d’evasione."
Ma d’altronde anche Bernhard ci ha lasciati, e dunque,
se di teppismo critico si può parlare, è nei confronti dei gonzi come me che
ancora considerano lo scrittore austriaco un autore immenso – Marchesini mi
chiarisce che ciò che io confondo per immensità è solo kitsch, la finzione
delle alte vette concessa a noi poveri di spirito. Colpito e affondato.
Cosa vuoi infatti ribattere a chi ti rivela così lapidariamente di essere un enfatico
lodatore, che è il modo con cui gli intellettuali ti danno del cretino.
Perciò parlavo della legge del cuore rivendicata da
Antigone: si dovrebbe sempre cercare di non ferire un altro essere umano, di
avere cura non solo delle sue virtù – troppo facile – ma anche delle più
frequenti illusioni; forse ha ragione Marchesini a dire che Bernhard è
sopravvalutato... Cautela che se assunta in forma radicale ci porterebbe a un
discorso critico fondato sulla menzogna, o, nella migliore delle ipotesi,
sull’omissione pietosa. E cioè di nuovo a infrangere le leggi della polis,
facendo torto al lettore.
Una via di uscita dal vincolo tragico per definizione
non c’è. Però si potrebbe magari cercare di evitare i toni offensivi,
argomentando le obiezioni in forma meno contundente e più analitica,
circostanziare e motivare – quale sarebbe ad esempio l’analisi accurata
che dimostrerebbe che Thomas Bernhard è oggi una lettura d’evasione?
Peccato che dagli spalti del Colosseo il pubblico
reclami il sangue, in un’eccitazione collettiva di cui il critico teppista si
fa emblema, capo popolo, e l’autore capro espiatorio. Fermo restando che non
tutti i tori sono dei Bravo, vengono chiamati proprio così i tori utilizzati
per la corrida, bravi come i bravi scrittori. Quando ce ne sono tanti altri che
non hanno ancora ultimato lo svezzamento, scrittori che ricordano vitellini, e
forse avrebbero dovuto pascolare ancora un po’ prima di essere buttati nell’arena.
Se ne ricava che la critica teppistica è forse figlia di un’eccessiva
disinvoltura editoriale.
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