Da un paio d’anni, come molti, ho cominciato a
pronunciare il termine geopolitica. La ragione è tristemente nota e coincide
con l’invasione russa dell’Ucraina, a cui sono seguite le tensioni nell’Oceano
Indiano per Taiwan, l’attentato di Hamas del 7 ottobre e la spropositata
reazione israeliana. Ai droni che volano nei nostri cieli corrispondono così
nuovi vocaboli, ci frullano in bocca per imitazione dei commentatori televisivi, era già avvenuto durante la pandemia. Allora si parlava di immunità di gregge,
spillover, proteina Spike, oggi di zone cuscinetto e choke points nella navigazione mercantile.
Di certo un segnale, perlopiù brutto, quando i linguaggi settoriali diventano di uso comune, travisati nel quotidiano chiacchiericcio. È quanto pensavo ieri sera assistendo alle prime due puntate di Supersex, la serie su Netflix ispirata alla vita di Rocco Siffredi. Gli attori sono tutti bravi e in particolare Alessandro Borghi (perfetta la sua replica della risata equina del pornodivo), scaltra e veloce la regia che scongiura sbadigli o la tentazione di controllare le mail sullo smartphone, sostenuta da una sceneggiatura sempre all’altezza. Eppure, mentre si passava da una gangbang a una doppia penetrazione, continuava a venirmi in mente quel termine: geopolitica.
Come se esistesse anche una geopolitica dell’immaginario – a differenza della pseudoscienza a cui si richiama non deriva da luoghi fisici, ma da luoghi altrettanto comuni che sono quelli del linguaggio. La lingua somiglia alle formine con cui da piccoli ricompattavamo la spiaggia di Rimini in figure. Di tutto ciò la biografia di Rocco Siffredi è stemma plastico: per quanto ben allestita, ciò che trasmette la fiction è la natura elementare del protagonista, vuoti slogan le frasi da lui pronunciate, stelline di sabbia che si disfano alla prima onda. Una personalità dalle reazioni sempre prevedibili, pavloviane, e ciò in buona e cattiva sorte, secondo la formula matrimoniale. Quando sono proprio le difficoltà a consentirgli di riconoscere la sua vocazione – "Tieni dinamite tra le gambe!" lo sprona il fratello –, ed è fuori dubbio che scopare a quel modo lì rappresenta un talento. Insomma, tutto in Rocco Tano, in arte Siffredi come il personaggio interpretato da Alain Delon in Borsalino, è porno. Ma che cos’è il porno?
Potremmo guardare al porno come a un altro codice
settoriale. Possiede infatti una funzione tecnica limitata nel tempo e nello
spazio: serve a offrire lo stimolo masturbatorio ai maschi tra i tredici anni
e l’andropausa, e nostalgia in chi l'ha superata. Non sono richieste altre qualità, sarebbero addirittura d’intralcio, inutili complicazioni, una volta create le condizioni fisiologiche necessarie a quell'antico gesto della mano. Nessuna simbolica dunque, nessuna profondità, prospettiva
umana; e non per difetto, ma per statuto operativo. Come è avvenuto per la geopolitica
e la virologia, il porno ha però finito con lo smarginare i suoi confini,
caratterizzando con la meccanica stimolo-risposta-eiaculazione ampi aspetti
della vita associata; per dirla col tono pomposo dei filosofi: si è fatto
mondo. Un esempio? I social network.
Con il porno i social condividono l'iconicità, la rivelazione più che l'ammiccamento, la coazione a ripetersi in assenza di complessità, di psicologia se non nella sua degradata forma
behaviorista. Il legante è costituito dal ritmo monotono e martellante, la cui singola unità fonetica, il post, oscilla tra il tempo minimo di un pompino e quello massimo di una copula, da concludersi con una sborrata rigorosamente in faccia, nei social surrogata in forma di like. Dopo avere consegnato il proprio segno/seme di gradimento che su Facebook ha la forma di un pollice alzato, evidente simbolo fallico, non sono
perciò contemplate soste meditative, elaborazione critica del messaggio, orecchiette a cui tornare sulla pagina del libro, come dopo il latte versato durante una sega si spegne subito il televisore. La presenza di eccezioni non contraddice l'assunto base: il linguaggio si fa
specchio dell’universale, non del particolare.
In un occidente psichico sempre più a forma e misura
del porno, Rocco Siffredi, campione di medietà e di affabile banalità (di nuovo
quella risata equina che fa capolino come memento mori), diviene così
l’erede di Alberto Sordi in Un eroe dei nostri tempi di Dino Risi, e
bene ha fatto Netflix a renderlo protagonista di una serie tivù. Che in effetti
non parla della sua vita, ma della nostra.
Nessun commento:
Posta un commento