Un ragazzo che ha probabilmente assunto una o più
sostanze stupefacenti. Aggiungiamo, in fiducia, dell'alcol, e senza dubbio
psicofarmaci. Mi chiede di prendergli un caffè dal distributore automatico
dell'ospedale, dove ero sceso per recuperare una bottiglietta d'acqua. Lui ha
qualche difficoltà con l'interfaccia tecnologica.
"Va bene" rispondo senza esitazione, poco
importa che glielo debba anche offrire; in fin dei conti è la prima persona a
rivolgermi la parola da due ore. "Quanto zucchero vuoi?"
"Tanto, tutto quello che sì può!"
La voce è strascicata, sembra borbottare qualcosa
anche mentre infilo le monetine, comprendo solo la frase "ziocane ho il
diabete nel sangue."
"Dovresti berlo senza zucchero",
e mi fermo a guardarlo prima di premere il selettore. Ha un livido che gli
scende dalla fronte sulla guancia sinistra.
"Senza zucchero?!"
"Sì, per il diabete: non va bene lo
zucchero."
"Davvero...?"
Annuisco con l'aria severa dei medici.
"Non lo sapevo. Cazzo, sei forte, quante cose
sai!"
Continuo ad annuire, ma questa volta la mia espressione deve somigliare a chi ascolta il numero che gli mancava per completare la cartella alla tombolata di Natale.
"Sicuro che paghi tu?"
"Massì, dai, vedrai che è buono anche amaro. Tocca solo farci la bocca."
È una tentazione a cui difficilmente resisto, specie con le donne: dare suggerimenti, spiegare. Poi ho scoperto che si chiama mansplaining e ora cerco di farlo meno.
"Ok ok, un caffè senza zucchero allora" mi dice con il tono di una donna a cui il mansplaining non dà fastidio, una di quelle che ti fanno scegliere il vino a ristorante.
Sorrido soddisfatto.
"E già che ci sei prendimi un Mars, e pure quel croccantino, là in alto, vicino alle Chipster, con una Red Bull bella gelata. Grazie."
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