Ceccherini che commenta la notte degli Oscar con la frase “tanto vincono sempre gli ebrei” commette nella migliore delle ipotesi una gaffe, e nella peggiore dice una scemenza colossale. Poi però prova a spiegarsi, aggiungendo che con le sue parole si riferiva al contenuto – tutti quei film nei quali gli ebrei e, in particolare, la Shoah sono assunti quale oggetto – e non a una presunta lobby ebraica che da sempre si spartisce i premi.
Al riguardo, una mia amica insinua sorniona: pensa
cosa sarebbe successo se avesse detto tanto vincono sempre i film sullo
schiavismo… È vero, sarebbe successo un casino. Ma i film sullo schiavismo,
come i film sugli ebrei, non sono lo schiavismo, e piuttosto opere di finzione
che muovono a partire da tale premessa storica; da onorare sempre e comunque,
aggiungo a scanso equivoci: ma che possono produrre opere mediocri.
Se Ceccherini fosse stato più chiaro e meno impulsivo
si poteva anche concedergli delle ragioni, e non solo accettarne le scuse. Ci
sono infatti dei contenuti (e la Shoah e lo schiavismo sono tra questi, ma anche, attenzione, l'immigrazione clandestina con le numerose sofferenze connesse, che è il tema del film di Garrone cosceneggiato da Ceccherini) la cui
enormità drammatica produce un pregiudizio virtuoso, mettendo
in secondo piano la forma attraverso cui vengono restituiti dal
racconto cinematografico.
Non è certamente il caso della Zona di interesse,
e al Dolby Theatre di Los Angeles ieri non è stata premiata la Shoah ma una sua
specifica restituzione prospettica (la prospettiva è ovviamente quella di
Jonathan Glazer) che pare possedere i caratteri autentici dell'arte – ma possiamo dire lo
stesso della Vita è bella di Benigni, che pure vinse l’Oscar a partire
dal medesimo tema?
A Ceccherini, da toscano come Benigni, la coincidenza
probabilmente non sfugge, e con parole sbagliatissime prova a dirlo. Una volta
chiarite le sue intenzioni si potrebbe anche chiudere la polemica. E semmai
provare a comprendere ciò a cui rimanda, chiedendoci se, nel sistema delle
premiazioni, non sia tutt’ora presente un’ipoteca dell'estetica marxista, per cui i contenuti
prevalgono sulla forma.
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