Mi chiedo se esista una differenza tra Raffaele La Capria, che a novant’anni ancora immergeva la penna nel fantasma di limpide giornate di giugno, il sole asciuga giovani corpi distesi sugli scogli in tufo di Marechiaro, tra lui e Francesco Guccini, la voce sempre più flebile mentre canta le osterie di fuori porta e infine i miei coetanei milanesi. Quando li ritrovi dopo trent’anni, forse ne sono trascorsi già quaranta, prima o poi il discorso finisce sui panzerotti di Luini, te li ricordi i panzerotti Luini... ah i panzerotti di Luini! Sì, d'accordo, la forma con cui la memoria trova un surrogato verbale, lo stile. Questo cambia. Ma quanto a sostanza non esistono nostalgie di serie A e di serie B, la nostalgia è sempre un ritorno a una combinazione di spazio e tempo che osservata a posteriori chiamiamo felicità, ma nel suo darsi non chiamavamo affatto, era lì, bastava allungare la mano e prendere. Un ritorno, nostos, impossibile oltre che incomprensibile a chi non abbia condiviso le stesse coordinate, perfino un po' stupido. Lo dico da campione mondiale di nostalgia – dunque molto stupido, pur di invertire la freccia del tempo tornei alla tavola operatoria dove mi hanno cavato le tonsille –, ma questa cosa che alla fine degli anni Ottanta si dovesse terminare la serata grattando alla saracinesca di un fornaio in via Santa Redegonda 16, già allora mi sembrava una stronzata.
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