venerdì 7 ottobre 2022

Blonde

Alla fine l'ho visto anch'io, Blonde, il film. Prima considerazione. Non capisco questa disputa: è Marylin, no non è Marylin, è solo un personaggio a lei ispirato come invita a fare anche Joyce Carol Oates, autrice del romanzo da cui ha attinto l'intensa pellicola di Andrew Dominik.

Ora, nel film, nel romanzo non lo so, Marylin si chiama Marylin, e prima ancora è Norma Jean e così tutti i personaggi di contorno, nominati senza pseudonimi ma in corrispondenza con la biografia dell'attrice scomparsa.

Questo però non fa ancora da garanzia biografica, e in fondo il concetto stesso di biografia è più narrativo di quanto appare: chiediamo conto di una persona che conosciamo ad altri comuni conoscenti, e avremo risposte molto meno omogenee di quanto potremmo attenderci, anche all'interno della stessa famiglia. Un esito che fece affermare a Nietzsche che "non esistono fatti ma solo interpretazioni".

Se prendiamo sul serio la citazione, fin troppo in voga, del filosofo, dobbiamo concludere che non ci sono nemmeno persone ma solo personaggi. E quello di Blonde è il personaggio Marylin Monroe, proprio lei, non altri, nell'interpretazione di Dominik.

Vediamo allora, senza tanti fumosi distinguo tra vita e opera, cosa viene colto nell'interpretazione cinematografica più vista su Netflix. Norma Jean è una bambina che si sente rifiutata e, per tutta la vita, ricerca disperatamente l'amore che le è mancato, prima di ogni altri da un padre assente e da una madre fuori di testa. La strategia di surroga che trova è quella di essere totalmente amabile, conformandosi agli stereotipi del femminile  anche sessuali   in un luogo e un tempo definiti: L'America ipocritamente puritana degli anni Cinquanta e Sessanta, che fa con la destra ciò che nega con la sinistra.

Tra la ferita infantile che ancora sanguina e la donna frivola e compiacente del personaggio inventato, nella vita non meno che sullo schermo, rimane però uno scollamento che la conduce a esiti autodistruttivi, anche nei confronti della maternità in cui viene replicato il copione familiare. I bambini sono un intralcio, sembra avere interiorizzato il Super-io di Marylin. Ma i bambini sono tutto grida l'inconscio bambino di Norma. Da qui la nevrosi.

Il compromesso tra le due voci che la abitano sembra essere il potere. Quel potere, maschile, prima subito e poi agito attraverso il corpo, con cui scopre essere a sua volta potere. La sequenza della gonna sollevata dallo sbuffo che proviene dalla grata della metropolitana lo mostra meglio di ogni parola. Questo è cinema, cinema in stato di grazia.

Una grazia che dopo le prime felici sequenze sfuma nell'abuso dei mezzi espressivi, impegnati a ribadire l'interpretazione già accennata. Poco interessata alle sfumature che emergono da altre testimonianze sull'attrice  ad esempio le lettere, o il diario personale da cui è stato ricavato un bel documentario nel 2012, Love Marylin  la messa in scena appare comunque sincera e appassionata. Anche i toni stilistici e raffinati del melodramma gli sono congeniali.

Scelta già chiara dalle prime sequenze: quando Norma Jean viene condotta all'orfanotrofio, una regia reticente avrebbe potuto semplicemente fare uno zoom avanti fino a inquadrare solamente gli occhi, a cogliere tutto il suo dolore e senso di tradimento. Invece vengono messi in bocca alla bambina dei dialoghi che più teatrali e, appunto, melodrammatici non potrebbero essere, con lei che strilla "Non sono orfana, io ho un padre: HO UN PADRE!"

Il melodramma è però un genere e non uno stigma, e Douglas Sirk e Almodovar hanno saputo ricavarne dei capolavori assoluti. Ciò che allontana Blonde da quegli esiti è l'assenza di una sceneggiatura all'altezza; la definirei minimalista, per quanto il termine sembra in conflitto con la stilizzazione melodrammatica.

Non si tratta infatti di minimalismo cinematografico (che so, una pellicola di Jim Jarmusch) e piuttosto musicale, ricordando una composizione di Terry Riley o Philip Glass: lo stesso nucleo tematico viene ripetuto con lievi e quasi impercettibili variazioni.

Se all'ascolto ciò procura un piacevole stato di ipnotica sospensione, l'assenza di uno sviluppo narrativo, poco importa che sia nell'azione o nell'approfondimento psicologico dei personaggi, però non regge alla visione, traducendosi in torpore, noia, fastidio. Al punto che dopo la prima mezz'ora a uno viene da sbottare: ok, me l'hai già detto che Norma Jean era triste e sola, e questo rende triste anche me. Ma adesso dimmi qualcos'altro!

Cosa che non avviene, e per due ore e mezza viene detta, ripetuta, ribadita e incorniciata un'unica frase musicale, fino a renderla esausta e vanificare l'empatia iniziale. Peccato, perché questa bambina santa e troia mi è cara come pochi altri.

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