Non so se Sala abbia responsabilità penali nell'inchiesta milanese sul mattone, ma se mi dovessi affidare al naso direi di no. La responsabilità politica era però manifesta da anni, e coincide con l'equivoco inaugurato in Italia da Berlusconi: quello che la politica, appunto, sia un equivalente dei processi produttivi, e dunque l'abilità nel gestire un'azienda possa essere traslata alla cosa pubblica.
Non è così per molte ragioni, tra le quali una che venne introdotta da Pasolini nel 1973, ma il Corriere della Sera non pubblicò quel testo che trovò spazio solo sugli Scritti corsari due anni dopo. Progresso e sviluppo, scriveva il poeta di Casarsa, sono termini alternativi e potenzialmente antitetici. Il progresso non è un concetto indipendente come lo sviluppo – data una condizione di partenza, senza variarne la natura può essere sviluppata fino ai suoi limiti fisiologici – ma presuppone una cornice di senso discrezionale, un mutare qualitativo oltre che quantitativo. In parole semplici: ci si deve prima accordare su quale sia il verso in cui progredire, non esiste progresso in sé, la tautologia non si applica a questa nozione.
La politica ha dunque quale suo specifico oggetto il
progresso, non lo sviluppo, e prevede due momenti da porre in rigorosa
sequenza: la determinazione collettiva di tale verso, quindi la sua
applicazione. Essere efficienti concerne il solo secondo punto, ed è certamente
un merito. Ma a patto che vi sia stato accordo e trasparenza nella prima fase,
ossia e di nuovo la selezione politica degli obiettivi. Viceversa il progresso può tradursi in regresso.
A volte la dialettica democratica
rappresenta una zavorra per l'efficienza: si vorrebbe fare di più, rimboccarsi le maniche e darci dentro per realizzare ciò che appare scontato (case sempre più alte e rilucenti di specchi, ad esempio), ma che a ben vedere scontato non è. Bisogna negoziare le scelte, chiarire la ricaduta sociale e
ambientale, precisare i valori della comunità di riferimento ancora prima di
corrispondervi, infine dare spazio ai dubbi di un'inevitabile frangia di scettici o comuni guastafeste, altrimenti detti minoranza. E così
un buon politico deve sapere anche premere sul freno, non solo sull'acceleratore.
Quale sarà l'esito dell'inchiesta – ovviamente,
auguriamo a Sala di uscirne indenne –, non possiamo evitare di registrare che
il suo piede era pesante, come viene detto dei piloti automobilistici che molto pigiano sull'acceleratore. Una disposizione affrettata alla guida sufficiente a ridimensionarne la figura: da politico progressista, ad amministratore sviluppista.
Se avesse avuto maggiore consuetudine con il freno, avrebbe con probabilità fatto di meno, quando in quel fare sono incluse anche opere di obiettivo interesse pubblico; e ciò glielo riconosciamo volentieri, come si dice: chi non fa, non sbaglia. Ma se non altro adesso conosceremo la direzione verso cui stava correndo Milano, che somiglia sempre più a un vecchio film di Andrej Končalovskij, A trenta secondi dalla fine. Dove un treno senza più guida procede a tutta forza in un nulla alaskano di conifere e neve.
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