Sugli studenti che si rifiutano di sostenere l’orale all’esame di maturità perché, a loro dire, non sono stati ascoltati a sufficienza dai professori – ascoltati come esseri umani e non come semplici computatori di dati, abomasi da cui la notte rifluiscono le conoscenze brucate di giorno –, sulla questione ho più dubbi che certezze. Mi sembra cioè un problema complesso e sfumato.
Ma dovendo trovare una soluzione, io la vedo così:
se parliamo di scuola dell’obbligo e, in parte, anche di liceo, trovo che gli
studenti recalcitranti abbiano dalla loro molte ragioni, se non una medaglia
d'oro nella corsa alla Verità che mi sembra impossibile assegnare. L’educazione
primaria serve infatti a trasmettere un’appartenenza, prima ancora che a
ingozzare gli studenti di nozioni. E l’appartenenza è per sua natura
dialettica: le generazioni precedenti trasferiscono alle successive il
testimone di ciò che hanno selezionato come valido (nel senso proprio del
valore, che si pone a garante dello scambio: l'Iliade, la Divina Commedia, la
tavola periodica degli elementi etc.), e quest’ultime replicano con le loro
richieste di senso, l’idea di mondo che si vanno facendo.
Non è un pensiero utopistico o fricchettone,
prevengo le obiezioni. Molto concretamente un giovane potrebbe chiedere al
professore: Ok, Lei mi parla di Omero, Dante, Mendeleev, ma poi io le racconto
dei miei problemi con le ragazze o con i ragazzi o con entrambi, e vediamo
assieme se i suoi amici possono aiutarmi, e nel caso in che modo – Alain de
Botton andava in questa direzione quando ha scritto Come Proust può cambiarvi la vita, oppure Robin Williams nell’Attimo fuggente.
Ma quando l'insegnamento sia volto a tradursi in
pratiche professionali, allo scambio vitale tra esseri umani – è il principio
stesso di ogni civiltà – deve subentrare una diversa concezione
dell’insegnamento basata sul merito; un concetto controverso non a caso
attribuito alla cultura conservatrice, già che presuppone un’asimmetria costitutiva tra soggetti e fondazione stabile dei saperi, al punto da essere quantificata in
voto. Da una prospettiva filosofica sono io il primo a riconoscere che questa
pedagogia corrisponda a una colata di cemento sulla mobilità del pensiero, in
cui la domanda, socraticamente, deve prevalere sulla risposta. Peccato
che non sempre si possa fare filosofia, e con un esempio sarà forse più chiaro.
Se per disgrazia doveste finire al pronto
soccorso: preferireste trovare un medico sensibile, lambiccato, desideroso di
confrontarsi sui propri problemi esistenziali – ma che non sa dove si trovi il fegato –, o un medico che ha superato
l’esame di anatomia con un voto possibilmente alto?
PS - l'ottimo sarebbero ovviamente le due qualità,
e sono io il primo ad auspicare, a Medicina, degli insegnamenti su come
relazionarsi con i pazienti: in modo non autoritario e infondendo loro fiducia, che
sono parte integrante della cura. Ma rimane il fatto che il fegato sta a destra, e la milza a sinistra.
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