Mi ricordo di un bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba. Indossa degli occhiali con la montatura di celluloide, su una delle lenti è stato incollato un cerotto traforato che serve a correggere l’occhio pigro. Il bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba, gli occhiali di celluloide con una lente ricoperta da un cerotto traforato si chiama Davide; è il fratello di un mio compagno di classe delle elementari di nome Federico. Ora frequentiamo entrambi la prima media, ma in istituti diversi – Federico va alla Torelli con la sua bicicletta Saltafoss dorata, io alla Sassi con un’Olympia color ciliegia –, e però giochiamo a pallacanestro assieme e così continuiamo a frequentarci. “C’è Federico?” chiede Davide al citofono; che era lui l'abbiamo compreso senza bisogno di presentazione, non c’erano molti altri bambini di cinque anni che citofonavano. “Federico… No, non è qui. Ma sali" ha risposto mia madre, trovando forse strano che a quell'età Davide girasse da solo in città, per quanto Sondrio sia davvero minuscola. Entrato in casa è stato fatto accomodare su una sedia in cucina, i piedi non raggiungevano le piastrelle in graniglia. “Vuoi qualcosa da bere?”, e nel fargli la domanda gli ho mostrato una bottiglia conica di Fanta. “Oppure da leggere” ho aggiunto, “un albo di Topolino, Asterix... in soffitta dovrei ancora avere i fumetti di Nonna Abelarda?” “No, aspetto Federico.” Abbiamo provato a spiegargli che non era certo, diciamo pure poco probabile, che Federico arrivasse, anche se eravamo rimasti amici e giocavamo a pallacanestro assieme nella Sondrio Sportiva. “Aspetto Federico”, e nel ripetere quest’unica frase come un mantra guardava dritto in avanti con il suo occhio pigro, azzurrissimo, la stessa colorazione dell'iride del fratello, ma la fede era quella cocciuta di Cristoforo Colombo nello scrutare l'orizzonte con il cannocchiale. Non so come sia andata a finire, se Federico fosse poi arrivato per davvero, dove cavolo si trovassero i genitori – a cui comunque Davide sembrava poco interessato, lui voleva solo Federico – e insomma se qualcuno fosse venuto a riprendere quel minuscolo pacco postale. Ma evidentemente le cose in qualche modo si risolsero, e ogni tanto mi capita ancora di incrociare Davide quando viene da queste parti, mentre Federico è morto a ventun anni in un incidente stradale. Stava rientrando con la Fiesta rossa del padre da una discoteca di nome King, era una di quelle notti già fresche in cui l’estate si esaurisce e gli studenti rimandati in matematica fanno sogni algebrici; il mese precedente tutta Italia parlava della Valtellina per via dell’alluvione, un evento che per la prima volta ci aveva fatto sentire al centro di qualcosa, riconosciuti e perfino amati come parte di un tutto fangoso; un'ebbrezza che sembrava riflettersi nei corpi in movimento sulla pista luminosa del King, l’unico problema si presentava con It’s a sin dei Pet Shop Boys: non sapendo bene in che modo andasse ballata, alcuni scuotevano il corpo come se fossero traversati da scariche elettriche micidiali. Adesso l’occhio azzurro di Davide deve essersi dato una mossa, ha smesso di essere pigro e non ha più cerotti a coprire una lente degli occhiali: è un architetto di cinquantatré anni, separato, con due figli; si è fatto crescere la barba alla Beatles anche se ha perso qualche capello, ma nel complesso si mantiene bene. Incredibile come la voce sia rimasta identica a quella di Federico, l’unica traccia viva che conservo del mio compagno di scuola.
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