mercoledì 9 luglio 2025

Un bambino (mi ricordo 34)

 


Mi ricordo di un bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba. Indossa degli occhiali con la montatura di celluloide, su una delle lenti è stato incollato un cerotto traforato che serve a stimolare l’occhio pigro. Il bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba si chiama Davide; è il fratello di un mio compagno di classe delle elementari di nome Federico. Ora frequentiamo entrambi la prima media, ma in istituti diversi – Federico va alla Torelli con la sua bicicletta Saltafoss dorata, io alla Sassi con un’Olympia color ciliegia –, e però giochiamo a pallacanestro assieme e così continuiamo a frequentarci. “C’è Federico?” chiede Davide al citofono; che era lui l'abbiamo capito senza bisogno di presentazione, non c’erano molti altri bambini di cinque anni che citofonavano nei pomeriggi invernali, quando già alle quattro del pomeriggio il sole dilegua dietro al Pizzo dei Tre Signori. “Federico… No, non è qui. Ma tu sali" risponde mia madre, trovando forse strano che Davide girasse da solo in città, e poi con quella temperatura. Entrato in casa viene fatto accomodare su una sedia in cucina, ha le mani intirizzite e i piedi non raggiungono le piastrelle in graniglia. “Vuoi qualcosa di caldo da bere?”, ma poi ci ripenso e gli mostro una bottiglia conica di Fanta. “Oppure da leggere” aggiungo, “un albo di Topolino, Asterix... in soffitta dovrei ancora avere i fumetti di Nonna Abelarda?” “No, aspetto Federico.” Abbiamo provato a spiegargli che non era certo, diciamo pure poco probabile, che Federico arrivasse, anche se eravamo rimasti amici e giocavamo a pallacanestro assieme nella Sondrio Sportiva. “Aspetto Federico”, non dice altro. Un mantra ripetuto guardando dritto avanti, in direzione del frigorifero, lo fissa con il suo occhio pigro e azzurrissimo, la cocciuta fede di Cristoforo Colombo nello scrutare l'orizzonte con un lungo cannocchiale. Prima o poi quel frigorifero si sarebbe aperto e sarebbe uscito Federico. Chissà come è andata a finire, magari un successivo trillo di citofono, sono Federico, mio fratello è lì?; chissà dove cavolo si trovavano i genitori – a cui comunque Davide sembrava poco interessato –; e insomma chissà se qualcuno è venuto a riprendere quel minuscolo pacco postale... Ma evidentemente le cose in qualche modo si sistemarono, e ogni tanto mi capita ancora di incrociare Davide quando viene da queste parti, mentre Federico è morto a ventun anni in un incidente stradale. Stava rientrando con la Fiesta rossa del padre da una discoteca di nome King, era una di quelle notti già fresche in cui l’estate si contrae, i gatti cominciano a cercare la via del fienile e fanno sogni algebrici gli studenti rimandati in matematica. Il mese precedente tutta Italia parlava della Valtellina per via dell’alluvione, un evento che per la prima volta ci aveva fatto sentire al centro di qualcosa, riconosciuti e perfino amati come parte di un tutto fangoso; un'ebbrezza che sembrava riflettersi nei giovani sulla pista a riquadri luminosi del King, l’unico problema si presentava con It’s a Sin dei Pet Shop Boys: non sapendo bene in che modo andasse ballata, alcuni scuotevano il corpo come se fossero traversati da scariche elettriche micidiali. Adesso l’occhio azzurro di Davide deve essersi dato una mossa, ha smesso di essere pigro e non ha più cerotti a coprire una lente degli occhiali; è un architetto di cinquantatré anni, separato, con due figli; si è fatto crescere la barba alla John Lennon anche se ha perso qualche capello, ma nel complesso si mantiene bene. Incredibile come la voce sia rimasta identica a quella di Federico, l’unica traccia viva che conservo del mio compagno di scuola. 

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