Mi ricordo che quando l'estate raggiungeva il suo culmine si andava nel granoturco per giocare a nascondino. La nonna non voleva – si rovina il fogliame diceva, ma più che altro temeva che le fronde affilate ci graffiassero gli occhi – mentre il nonno rideva e lasciava fare. Un gioco insensato a ben vedere: bastava allontanarsi di qualche passo dal campo e, dal movimento delle cime, era possibile individuare la posizione dell'altro. Anche perché eravamo solamente in due, io e Stefano, il figlio dei vicini di fattoria. Ma il numero per noi non rappresentava un problema, ci lanciavamo a capofitto tra i fusti e, a quel punto, non era più chiaro chi fosse il cacciatore e chi la preda, vagavamo in un labirinto verde con l'eccitazione e il timore di essere scoperti. Quando accadeva, al sussulto iniziale accompagnato dalle grida ECCOTI VISTO TANA!, sopravveniva un po' di delusione, e in fila indiana prendevamo la direzione del sole, unico riferimento nella fitta omogeneità del ventre vegetale che altrimenti ci avrebbe digerito; l'unica variabile cromatica era costituita dagli stimmi delle pannocchie, infilati in tasca sarebbero serviti per farci baffi e pizzetto da Buffalo Bill. Va aggiunto che Stefano arrivava solo a pomeriggio inoltrato, si presentava a bordo di una Graziella piena di adesivi all'ora in cui il nonno afferrava i secchielli di latta per andare a mungere le mucche, e così il sole ci indicava il ponente dove si trovava il letamaio, poi veniva una roggia e quindi il prato già falciato un paio di volte, dove ci accucciavamo a pensare quale avrebbe potuto essere il nuovo sfogo di energie, stare seduti ci era già venuto a noia. Di solito si trattava della ricerca dei giornaletti porno abbandonati nella boschina, altrimenti detta camporella, a poche centinaia di metri di distanza. In fondo una nuova quest: corpi che si incorporano, ma inanimati, spalmati sulla carta impastata da pioggia, terra e umori organici sconosciuti, e corpi vivi – i nostri – che non sanno cosa fare uno dell'altro. È chiaro che mancava una donna. Una bambina meglio, poi ragazza, signorina, mamma e così via. Questa è la vita ti dicono, ma lo realizzi solamente in seguito. All'inizio lo capisci soltanto. Quando al sapere si accompagna il sentire, è perché è già stato mietuto il granoturco, e il gioco perde un po' di interesse. Così si aspetta in silenzio la sera per coricarsi, mentre con polpastrelli duri e avvizziti la nonna carezza le sfere ambra del rosario.
mercoledì 30 luglio 2025
domenica 27 luglio 2025
Waiting for the Miracle (mi ricordo 37)
Mi ricordo di un pappagallo a cui si doveva fare pronunciare la parola Portobello. Chi ci fosse riuscito avrebbe vinto un mucchio di soldi, c'era da scommetterci, lo assicurava un presentatore televisivo dall'aspetto un po' dimesso, ma che trasmetteva fiducia. Non si capisce perché ci misero tanto tempo per credergli, si trattava di una brutta storia – sul fatto che Portobello, così si chiamava il pappagallo, potesse dire il suo nome come un cristiano, sì; sul fatto che il presentatore non spacciasse cocaina, no... Mah.
Era infatti la prima eventualità a essere incredibile, da non credere proprio e cambiare canale sul nuovo televisore Grundig, finalmente a colori. Aspettarsi da un pappagallo e nemmeno di specie cinerina, la più loquace, che a comando articolasse un termine di quattro sillabe con la tremenda accoppiata di erre con ti, come mirto, carte, Bertè, nel senso di Loredana con le sue minigonne mozzafiato. Tutto ciò nel tempo di un minuto e sotto i riflettori di uno studio televisivo e, se ancora non bastasse, incalzati da uno sconosciuto: ma dai... qualsiasi ornitologo avrebbe potuto spiegare che si trattava di velleità.
Eppure, dopo cinque anni di tentativi miseramente falliti ci riuscì l'attrice
Paola Borboni, era il 1 gennaio del 1982. Non ci avevo mai creduto fino in
fondo nemmeno quando facevo il chierichetto – tutti quegli effetti speciali di
Gesù, Lazzaro che si alza dalla tomba alla maniera del peggiore film splatter – ma con
Portobello che a Portobello dice Portobello, non esistevano più dubbi: i
miracoli esistono.
Da qui l'abitudine di guardare il cielo al risveglio, a cui sussurro
Portobello. Finora non mi ha ancora risposto, ma sono convinto che, prima o
poi, udirò una voce profonda, da anziano con all'attivo un po' troppe Nazionali
senza filtro. La voce ci mette un po' a precisarsi, è il confuso balbettio del paziente che sta uscendo dall'anestesia; ma in seguito comincia ad articolare: Po... po... porbelo. Ho capito bene?! Questa volta lo scandisce chiaro e forte: Por-to-bel-lo, e poi ancora dopo una pausa, Portobello, Portobello, Portobello... a quel punto ci avrà preso gusto e sarà difficile fermarla, come avvenne con
Paola Borboni. E io e la voce saremo una bellissima unica cosa.
(Dopo avere letto il testo, si consiglia l'ascolto di questa canzone.)
giovedì 24 luglio 2025
Oplà (mi ricordo 36)
Mi ricordo che bisognava risalire una scaletta ripidissima, e prima di imboccare una seconda scala più ampia e meno scoscesa e con i gradini ricoperti da moquette, a un livello intermedio, dunque, tra il ventre del traghetto dove avevamo lasciato la 125 Rally di papà – Avanti, avanti ancora un po’… ferma! strillava un uomo con una balena azzurra stampata sulla t-shirt – e il salone passeggeri con le poltroncine amaranto e un piccolo bar (quando il mare era mosso però restava chiuso), a quel punto si apriva un vano della dimensione di due cabine del telefono, con all’interno una panca di legno e sbarre di metallo a sigillarne lo spazio. Lì venivano fatti sedere i detenuti diretti a Porto Azzurro.
Io e mia cugina Alessandra, durante la navigazione da Piombino a Portoferraio, fingevamo di andare in bagno per scendere a guardare quei volti temuti, fuori dalla gabbia sostavano due carabinieri sempre in piedi. Ma subito scappavamo spaventati, come se avessimo visto il diavolo. Non ci era del tutto chiara la differenza tra un carcere normale e un penitenziario, ma avevamo inteso che c'entrava in qualche modo la morte: quegli uomini avevano certamente intrallazzato con la morte (sparando, strozzando, accoltellando), e ciò bastava per trasformare il nostro viaggio con in valigia le biglie da far rotolare sulla spiaggia, ogni biglia di plastica conteneva la foto di un famoso ciclista, tutti volevano Gimondi ma Eddy Merckx era nettamente più forte, lo trasformava in un film del terrore.
Quando si iniziavano a intravedere le rocce di Capo Vita e l’Isola dei Topi, il
traghetto rallentava fino a fermarsi – Dove sono i freni delle barche? chiedevo
allo zio, che non mi ricordo cosa rispondesse – e un’altra imbarcazione ma più
piccola, molto più piccola, era simile ai barconi dei pescatori, accostava. Da
una porticina laterale i carcerati venivano fatti montare su quella, ad
attenderli nuove guardie con una divisa grigia che sembrava da postino.
Incollati alle battagliole del ponte di coperta osservavamo frementi l’operazione, di solito i carcerati erano al massimo due. I
carabinieri li tenevano per mano come faceva il nonno Pinin quando ci portava
alle giostre, mentre con l’altra mano si protendevano verso i
postini, prima uno e poi il complice, pensavamo, di qualche malefatta. Eppure quel gesto possedeva un'intimità che
strideva con tutte le cose brutte che la tivù diceva sui banditi: più che diavoli, sembravano ora dei poveri diavoli.
Ma a un certo punto, oplà, con un saltello ecco il primo detenuto superare il pericoloso corridoio aperto tra le due imbarcazioni, e così il carabiniere che gli teneva la mano lo lasciava andare, facendo sospettare che la separazione gli dispiacesse almeno un po'. Quando anche il secondo aveva completato il trasbordo, i pistoni del motore diesel aumentavano il loro ritmo, e il barcone si avviava borbottando in direzione della fortezza di Porto Azzurro. Il traghetto aspettava che fosse a sufficiente distanza, poi ripartivamo anche noi.
Non ne ho mai riparlato con Alessandra, ma vorrei chiederle se anche lei ogni tanto ci ripensa. A me è venuto un dubbio. E se ciò che spiavamo con morbosa apprensione c'entrasse davvero qualcosa con la morte, una morte senza diavoli e carabinieri e postini... Semplicemente, morire è lasciare un’imbarcazione grande per salire su una piccola, tanto piccola da apparire invisibile nel vasto mare, lasciare una mano e afferrare una mano che ci attende amichevole, per condurci a una nuova prigione. Ma poi non farà lo scherzetto di ritrarla, facendoci cascare nell’acqua gelida?
domenica 20 luglio 2025
Milano, o sulla differenza tra progressismo e sviluppismo
Non so se Sala abbia responsabilità penali nell'inchiesta milanese sul mattone, ma se mi dovessi affidare al naso direi di no. La responsabilità politica era però manifesta da anni, e coincide con l'equivoco inaugurato in Italia da Berlusconi: quello che la politica, appunto, sia un equivalente dei processi produttivi, e dunque l'abilità nel gestire un'azienda possa essere traslata alla cosa pubblica.
Non è così per molte ragioni, tra le quali una che venne introdotta da Pasolini in un articolo del 1973; ma il Corriere della Sera non pubblicò quel testo, che trovò spazio sugli Scritti corsari solo due anni dopo. Progresso e sviluppo, scriveva il poeta di Casarsa, sono termini alternativi e potenzialmente antitetici. Il progresso non è un concetto indipendente come lo sviluppo – data una condizione di partenza, senza variarne la natura può essere sviluppata fino ai suoi limiti fisiologici – ma presuppone una cornice di senso discrezionale, un mutare qualitativo oltre che quantitativo. In parole semplici: ci si deve prima accordare su quale sia il verso in cui progredire, non esiste progresso in sé, la tautologia non si applica a questa nozione.
La politica ha dunque quale suo specifico oggetto il
progresso, non lo sviluppo, e prevede due momenti da porre in rigorosa
sequenza: la determinazione collettiva di tale verso, quindi la sua
applicazione. Essere efficienti concerne il solo secondo punto, ed è certamente
un merito. Ma a patto che vi sia stato accordo e trasparenza nella prima fase,
ossia e di nuovo la selezione politica degli obiettivi. Viceversa il progresso può tradursi in regresso.
A volte la dialettica democratica
rappresenta una zavorra per l'efficienza: si vorrebbe fare di più, rimboccarsi le maniche e darci dentro per realizzare ciò che ci appare scontato (case sempre più alte e rilucenti di specchi, ad esempio), ma che a ben vedere scontato non è. Bisogna negoziare le scelte, chiarire la ricaduta sociale e
ambientale, precisare i valori della comunità di riferimento ancora prima di
corrispondervi, infine dare spazio ai dubbi di un'inevitabile frangia di scettici o comuni guastafeste, altrimenti detti minoranza. E così
un buon politico deve sapere anche premere sul freno, non solo sull'acceleratore.
Quale sarà l'esito dell'inchiesta – ovviamente,
auguriamo a Sala di uscirne indenne –, non possiamo evitare di registrare che
il suo piede era pesante, come viene detto dei piloti automobilistici che molto pigiano sull'acceleratore. Una disposizione affrettata alla guida sufficiente a ridimensionarne la figura: da politico progressista, ad amministratore sviluppista.
Se avesse avuto maggiore consuetudine con il freno avrebbe con probabilità fatto di meno, quando in quel fare sono incluse anche opere di obiettivo interesse pubblico; e ciò glielo riconosciamo volentieri, come si dice: chi non fa, non sbaglia. Ma se non altro adesso conosceremo la direzione verso cui stava correndo Milano, che somiglia sempre più a un vecchio film di Andrej Končalovskij, A trenta secondi dalla fine. Dove un treno senza più guida procede a tutta forza in un nulla alaskano di conifere e neve.
sabato 19 luglio 2025
Beatrice
Beatrice. Non so chi
fosse, nemmeno in una città piccola come questa l'avevo mai incontrata; ma poi
ho guardato meglio e ho visto che viveva a Ponte, un paese a una decina di
chilometri da Sondrio noto per le sue belle mele rosse. Portando il cane a fare pipì ai giardinetti
di via Parolo, ho dato la solita scorsa al tabellone di metallo su cui vengono
affissi i manifesti funebri. Da ragazzo li ignoravo sentendomi a mia volta
ignorato. Morire, mi dicevo, è una cosa da vecchi, ci penserò quando avrò un
orologio a cipolla e centrini all'uncinetto sul comò.
Nessun cognome, adesso è una cosa che si usa, il
solo nome di battesimo produce maggiore intimità, specie se ti chiami Beatrice,
come Beatrice Portinari. I commentari danteschi riportano che è morta a Firenze
l'8 giugno del 1290, l'unico dubbio è se allora fosse nel ventiquattresimo o venticinquesimo anno della sua breve vita.
La ragazza della foto sembra avere più o meno la
stessa età, almeno al tempo dello scatto. Sorride, un filo di trucco o forse
niente, quello che si dice un viso acqua e sapone. È leggermente incongruo con il
minimo tatuaggio amatoriale sull'avambraccio destro, una stella a cinque punte.
Il cagnetto bianco che abbraccia dovrebbe essere di razza maltese. Reclina il capo fino a toccarne il pelo, l'animale le si affida fiducioso, una struttura a piramide dell'immagine che ricalca i dipinti rinascimentali della Madonna con bambino. E
poi la frase virgolettata, "Il tuo sorriso era luce per chi ti amava, e
ora illumina il cielo che ti custodisce."
Ho fatto una ricerca su internet, ma non viene
riferita a nessuno in particolare: è semplicemente una frase di circostanza,
probabilmente un'idea dell'agente delle pompe funebri. Sono rimasto colpito più
da quello che sta sotto: "Con infinito amore, il tuo papà."
Sul fatto che non siano menzionati fratelli, beh,
potrebbe essere figlia unica, ma perché l'infinito amore è solo quello del tuo
papà, e non anche della tua mamma?
Forse è morta a sua volta, l'uomo è vedovo, cosa
che rende il commiato ancora più straziante. O magari sono separati, e in un
rapporto così logoro da non volere accostare il proprio nome alla madre della
figlia; nemmeno in un momento in cui il cratere della scomparsa, di norma,
rende le beghe di superficie tanto piccole. Ma in tal caso sarebbe una vicenda
ancora più dolorosa, ci sto pensando da tutto il giorno.
Da qualche anno va così, mi commuovono i manifesti
funebri degli sconosciuti. Da buon ipocondriaco, formulo ipotesi sulla causa del
decesso, che si allargano e trasformano in narrazioni ipotetiche di un'intera esistenza – in fondo, è il principio della fiction biografica. Se qualcuno avesse
ancora dei dubbi sul perché la letteratura di pura finzione sta perdendo colpi,
si guardi bene la foto di Beatrice, ci costruisca attorno una storia.
Una storia che includa la maglietta grigia, i lunghi capelli castani, il cagnetto maltese – adesso chi lo terrà? Lo immagino fermo davanti alla porta di casa ad aspettare la padroncina, come in quel film con Richard Gere – e soprattutto il suo papà. Possiede la stessa funzione narrativa di Dante nella Commedia: colui a cui viene consegnato il ricordo di una gioia solo sfiorata, è troppo grande per una vita, e così, nella morte, diventa il dolore e la richiesta di senso di tutti. Eh già, perché anch'io da oggi mi sento privato di un bene, e non attenua ma scava nella ferita il fatto che non sapessi di possederlo. Beatrice.
venerdì 18 luglio 2025
Tanti like, poco io
Pensavo a questa cosa: al bambino, al cane, a chiunque venga detto bravo fa sempre piacere, e chi frequenta i social non fa eccezione: i like sono un premio come il biscottino al cane di cui sopra, mai sputare nel piatto in cui ci si sbrana.
Però, pensavo sempre, c'è un'altra variabile da tenere in conto, che introduce Lacan con la consueta tortuosa lucidità. Ciò che ci fa davvero piacere, semplifico, è l'approvazione di chi anche noi approviamo, la stima di chi stimiamo.
Mescolando gli orientamenti psicoanalitici potremmo dire che questa approvazione ci definisce, ci individualizza – la medaglia è al valore di ciò che si precisa nel mio gesto, e quel qualcosa sono proprio io, l'altro mi fa da specchio. E così diventa un bravo Guido, brava Cinzia, bravo Ermenegildo!
Mi chiedo dunque quale possa essere il piacere nell'ottenere centinaia di like attraverso l'immagine di un gattino, o, nel caso di una giovane donna, nel mostrarsi con la camicetta un po' più sbottonata del solito – tu sei il tuo gattino, oppure coincidi con il seno che si intravede con finta sbadataggine? Oh cacchio, mi è scappato un bottone...
Io penso di sì. Penso che i social, per molte persone, arriverei ad azzardare la maggioranza, si siano trasformati in una diluizione dell'identità personale, al punto da evocare un tutto indistinto e così solo quantificabile. Titolava un suo libro con grande preveggenza Guénon: Il regno della quantità e i segni dei tempi.
mercoledì 16 luglio 2025
Esame orale sì, esame orale no, proviamo a fare un po’ di chiarezza
Sugli studenti che si rifiutano di sostenere l’orale all’esame di maturità perché, a loro dire, non sono stati ascoltati a sufficienza dai professori – ascoltati come esseri umani e non come semplici computatori di dati, abomasi da cui la notte rifluiscono le conoscenze brucate di giorno –, sulla questione ho più dubbi che certezze. Mi sembra cioè un problema complesso e sfumato.
Ma dovendo trovare una soluzione, io la vedo così:
se parliamo di scuola dell’obbligo e, in parte, anche di liceo, trovo che gli
studenti recalcitranti abbiano dalla loro molte ragioni, se non una medaglia
d'oro nella corsa alla Verità che mi sembra impossibile assegnare. L’educazione
primaria serve infatti a trasmettere un’appartenenza, prima ancora che a
ingozzare gli studenti di nozioni. E l’appartenenza è per sua natura
dialettica: le generazioni precedenti trasferiscono alle successive il
testimone di ciò che hanno selezionato come valido (nel senso proprio del
valore, che si pone a garante dello scambio: l'Iliade, la Divina Commedia, la
tavola periodica degli elementi etc.), e quest’ultime replicano con le loro
richieste di senso, l’idea di mondo che si vanno facendo.
Non è un pensiero utopistico o fricchettone,
prevengo le obiezioni. Molto concretamente un giovane potrebbe chiedere al
professore: Ok, Lei mi parla di Omero, Dante, Mendeleev, ma poi io le racconto
dei miei problemi con le ragazze o con i ragazzi o con entrambi, e vediamo
assieme se i suoi amici possono aiutarmi, e nel caso in che modo – Alain de
Botton andava in questa direzione quando ha scritto Come Proust può cambiarvi la vita, oppure Robin Williams nell’Attimo fuggente.
Ma quando l'insegnamento sia volto a tradursi in
pratiche professionali, allo scambio vitale tra esseri umani – è il principio
stesso di ogni civiltà – deve subentrare una diversa concezione
dell’insegnamento basata sul merito; un concetto controverso non a caso
attribuito alla cultura conservatrice, già che presuppone un’asimmetria costitutiva tra soggetti e fondazione stabile dei saperi, al punto da essere quantificata in
voto. Da una prospettiva filosofica sono io il primo a riconoscere che questa
pedagogia corrisponda a una colata di cemento sulla mobilità del pensiero, in
cui la domanda, socraticamente, deve prevalere sulla risposta. Peccato
che non sempre si possa fare filosofia, e con un esempio sarà forse più chiaro.
Se per disgrazia doveste finire al pronto
soccorso: preferireste trovare un medico sensibile, lambiccato, desideroso di
confrontarsi sui propri problemi esistenziali – ma che non sa dove si trovi il fegato –, o un medico che ha superato
l’esame di anatomia con un voto possibilmente alto?
PS - l'ottimo sarebbero ovviamente le due qualità,
e sono io il primo ad auspicare, a Medicina, degli insegnamenti su come
relazionarsi con i pazienti: in modo non autoritario e infondendo loro fiducia, che
sono parte integrante della cura. Ma rimane il fatto che il fegato sta a destra, e la milza a sinistra.
venerdì 11 luglio 2025
Wanda, un'iniziazione mancata (mi ricordo 35)
Mi ricordo la sensazione dell'aria quasi fresca dei primi giorni di settembre. Entrava dai finestrini completamente aperti della BMW 318 bianca – allora è vero che Topolone possedeva una BMW, non era una delle sue solite sparate –, ma prima di raggiungerci faceva dei piccoli mulinelli, si mescolava alla voce di Baglioni che fuoriusciva dalle casse incastonate nelle portiere, e solo alla fine sbatteva sulle facce abbronzate, molto abbronzate.
D'altronde avevamo passato più di tre mesi sulla spiaggia di Lacona: lui,
Stefano, detto Topolone, come insegnante di wind surf, io come aiuto bagnino; per essere
onesti, il mio ruolo si limitava ad affittare i pedalò e a pulire con una
spugna i piattelli degli ombrelloni. Va da sé che le ragazze più belle fossero
tutte per Topolone (a ogni nuova conquista veniva a raccontarci di avere guzzato con una topolona, da qui il soprannome), anche se devo dire che io ero nettamente più carino. Ma,
oltre allo status inferiore, avevo una brutta grana: ero ancora vergine.
"Sei ancora vergine... Dio bon, chè a gh'è da fèr!" aveva
sbottato Topolone quando glielo avevo confessato, per quanto a sedici anni a
me non sembrava tanto strano. I miei amici, almeno, erano nella mia stessa
condizione, tranne uno che si era messo con una ragazza più grande; avevano
affittato una cantina, per arredarla era bastato un materasso a terra su cui facevano le cose. Noi ci
arrangiavamo con i giornaletti di Ilona Staller.
Tutti argomenti che Topolone non voleva nemmeno stare a sentire, chè a gh'è da
fèr continuava a ripetere, chè a gh'è da fèr. Quindi aveva concluso
con tono perentorio: "A-gh pèins mé."
Ma facciamo un passo indietro. Avevamo lasciato l'Isola d'Elba la mattina
con un traghetto della Navarma, il viaggio in autostrada a bordo della
Cinquecento color pomodoro di Topolone; il tettuccio era rotto e quando, a Barberino del Mugello, ha cominciato a piovischiare, dovevo tenerlo chiuso con una mano. La BMW l’aveva
lasciata a Cento, dove viveva assieme ai genitori. Il programma prevedeva che
avrei dormito a casa loro e la mattina successiva sarei ripartito in treno verso Sondrio, con una breve digressione milanese per il concerto della PFM.
L’estate appena trascorsa verrà ricordata per le prodezze di Paolo Rossi, ma, nella stessa squadra che allo stadio Bernabéu vinse il campionato mondiale di calcio, c’era anche un giocatore diciottenne con dei grandi baffi neri, forse per l’aspetto precocemente adulto veniva chiamato Zio. Topolone era l’esatto opposto di quel giocatore, eterno nipote in tutto aveva l'espressione di Gatto Silvestro nell'avvicinarsi alla gabbietta di Titti. Chè a gh'è da fèr, e terminati i tortellini preparati dalla madre eravamo montati sulla BMW alla volta di Bologna.
Ma perché proprio Bologna?
Fu la prima cosa che gli chiesi. La risposta non mi fu del tutto chiara, con il dialetto emiliano vado un po' a intuito, e tra le cose intuite la presenza di una di quelle anziane prostitute definite nave scuola, batteva per strada nella periferia di Bologna. “Tótt ché a-gh sàn pasè” aveva aggiunto Topolone con un mezzo ghigno, come se già pregustasse il piumaggio biondo di Titti.
Ma perché proprio lei? lo incalzavo. In fondo stiamo parlando del lavoro più vecchio del mondo, oltre che tra i più diffusi. Un po' riluttante, voleva farmi una sorpresa, mi rivelò così la ragione della sua fama, per cui arrivavano fin dal Veneto. Dopo essere salita in auto, Wanda, non ricordo il nome ma chiamiamola a questo modo, Wanda si toglieva la dentiera e la poggiava sul cruscotto. Reso il cavo orale più accogliente e meno minaccioso, lo utilizzava per fare ciò che si fa in queste circostanze.
Non so se fosse compresa anche la presenza di Topolone quale pubblico, ero
già talmente spaventato che non ho osato chiedere, ma è improbabile che avrebbe
ceduto l'auto a un sedicenne, perdipiù vergine. Senza aggiungere altro
cominciammo a cercare Wanda.
Per quasi due ore girammo per i luoghi che lui conosceva bene. Rotonde, slarghi, cavalcavia di cemento armato, nei viali semideserti gatti randagi facevano shopping tra i bidoni dell'immondizia, mentre cani a guardia dei magazzini abbaiavano in lontananza. Le insegne illuminate dei distributori di benzina sembravano uscite da un dipinto di Edward Hopper. Di tanto in tanto qualche nero (a Sondrio erano ancora una rarità) traversava la strada dinoccolato, e sparuti gruppi di ragazzi si saldavano attorno a un grumo pulsante di nulla, o forse stavano solo smazzando il fumo. Ma di Wanda nessuna traccia.
Iniziava a farsi sentire la stanchezza del viaggio dall’Isola d’Elba, io avevo il braccio anchilosato per via del tettuccio. Ci
fermammo a un chiosco e ordinammo due piadine e tre lattine di Peroni. Perché
tre? “Sà mo mai ch'a la catén la fémma”, aveva risposto Topolone non ancora
rassegnato. "Vôt brîsa dèrgh da bèver?" Ma poi eravamo montati sulla
BMW e tornati a Cento. Avrai, avrai, avrai, le parole di Baglioni
suonavano ora come una burla.
Ogni tanto mi capita ancora di pensarci, tipo quei film in cui vengono
messi in scena dei futuri ipotetici. Intendo: nel cono di luce di un lampione,
ecco, all'improvviso compare Wanda. È proprio come me l’ero immaginata, non
troppo alta, rotondetta, seno tra il grande e l’enorme. Nei capelli vaporosi tinti di
rosso si intravede la ricrescita bianca, il ginocchio destro è sbucciato come
accade ai bambini quando cascano dalla bicicletta. Fingiamo di non accorgerci
di niente e la facciamo montare sui sedili posteriori, dove la raggiungo.
Non servono tanti convenevoli, sa benissimo perché Topolone le ha portato il
suo giovane amico, e così si leva in slow motion la dentiera e mi sorride
dischiudendo un cratere di mucose. Poi però sembra indugiare, deve avere
intuito il mio terrore. “Dâi, putlèn” mi sussurra all'orecchio, “làset andèr…” quasi quasi le do retta. Ma con uno scatto inatteso cala in picchiata, e come
una lumaca mi ritiro nel guscio, la natura reagisce al pericolo sempre
nello stesso modo: fuga o attacco. Nelle condizioni attuali non passerei il
casting per uno di quei giornaletti con Ilona Staller, non ho nemmeno la scusa
che fa freddo.
Mi scuoto dalla fantasticheria, ma non so se rallegrarmi oppure essere
dispiaciuto per il diverso corso delle cose; la prima vera volta è stata con
una ragazza di cui ero innamorato perso, non con una prostituta sdentata di quaranta, facciamo pure cinquanta anni più vecchia di me. Il mulino bianco ha trionfato.
Da dove allora questo sentimento di malinconia? È come se un dio dispettoso
avesse infranto il neon del lampione di Wanda, un colpo di fionda ben assestato
a cui è seguito il buio, l'ombra ha risucchiato un pezzo di mondo che è rimasto
potenziale. Non importa se sarebbe stata festa o, è più verosimile, squallore. Era la mia vita, che cavolo! E per averla indietro la posso solo
raccontare.
giovedì 10 luglio 2025
Cristoforo Colombo telefonava in auto, o sui limiti dell’immaginazione
Quando acquistai il primo telefono portatile la cosa che mi sorprendeva ed eccitava di più era la possibilità di telefonare in auto. Ripensandoci, era molto più sorprendente poterlo fare sulla ruota del Prater, oppure nella gabbia dei leoni del circo Medrano, o ancora facendo sci d’acqua nel golfo del Tigullio… Eppure, il primo pensiero era andato all’auto: che figata, adesso posso telefonare in auto!
A decenni di distanza credo di averne compreso la ragione: i film americani, nei film americani la gente telefonava in auto – lo fa, ad esempio, Humphrey Bogart in Sabrina, una pellicola del 1954 –, ed ora la mia vita poteva trasformarsi in un film americano. La fantasia si disorienta se non si assegna dei limiti, per questo i poeti hanno inventato la metrica. E a Cristoforo Colombo dovettero spiegarlo più volte: “Guarda che sei arrivato in America, non in India.” “America... Belin, cöse l'è sta Mèrica?!"
Ma l’America era troppo grande, troppo nuova e
grande perfino per l’immaginazione, che ha bisogno del trampolino del noto ber
spiccare il suo balzo. Come a dire che anche Cristoforo Colombo telefonava in
auto.
Felicità, un dubbio eudemonico
Per essere felici sostiene Charlie Brown, lo confida alla sua amica Piperita Patty in una striscia dei Peanuts, bisogna avere due cose: un lago è un’auto convertibile. Quando c’è il sole abbassi la capotta e ti fai un giro con la tua auto convertibile, l'autoradio a palla, un cappellino da baseball e gli occhiali da sole enormi. E quando piove? Beh, quando piove si riempie il lago.
Mi capita spesso di pensare a questa semplice strategia, non fa una piega, al punto che ho cominciato a comporre delle varianti. L’ultima che mi è venuta vede la felicità come risultato del possesso di un monolocale a Gaza e di un materassino gonfiabile. Quando cala la notte ti rincucci nel tuo monolocale a Gaza, e quando, all’alba, l’esercito israeliano comincia a bombardare, gonfi il materassino e vai al mare.
Ma che succede se invece bombardano la sera?
mercoledì 9 luglio 2025
Un bambino (mi ricordo 34)
Mi ricordo di un bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba. Indossa degli occhiali con la montatura di celluloide, su una delle lenti è stato incollato un cerotto traforato che serve a stimolare l’occhio pigro. Il bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba si chiama Davide; è il fratello di un mio compagno di classe delle elementari di nome Federico. Ora frequentiamo entrambi la prima media, ma in istituti diversi – Federico va alla Torelli con la sua bicicletta Saltafoss dorata, io alla Sassi con un’Olympia color ciliegia –, e però giochiamo a pallacanestro assieme e così continuiamo a frequentarci. “C’è Federico?” chiede Davide al citofono; che era lui l'abbiamo capito senza bisogno di presentazione, non c’erano molti altri bambini di cinque anni che citofonavano nei pomeriggi invernali, quando già alle quattro del pomeriggio il sole dilegua dietro al Pizzo dei Tre Signori. “Federico… No, non è qui. Ma tu sali" risponde mia madre, trovando forse strano che Davide girasse da solo in città, e poi con quella temperatura. Entrato in casa viene fatto accomodare su una sedia in cucina, ha le mani intirizzite e i piedi non raggiungono le piastrelle in graniglia. “Vuoi qualcosa di caldo da bere?”, ma poi ci ripenso e gli mostro una bottiglia conica di Fanta. “Oppure da leggere” aggiungo, “un albo di Topolino, Asterix... in soffitta dovrei ancora avere i fumetti di Nonna Abelarda?” “No, aspetto Federico.” Abbiamo provato a spiegargli che non era certo, diciamo pure poco probabile, che Federico arrivasse, anche se eravamo rimasti amici e giocavamo a pallacanestro assieme nella Sondrio Sportiva. “Aspetto Federico”, non dice altro. Un mantra ripetuto guardando dritto avanti, in direzione del frigorifero, lo fissa con il suo occhio pigro e azzurrissimo, la cocciuta fede di Cristoforo Colombo nello scrutare l'orizzonte con un lungo cannocchiale. Prima o poi quel frigorifero si sarebbe aperto e sarebbe uscito Federico. Chissà come è andata a finire, magari un successivo trillo di citofono, sono Federico, mio fratello è lì?; chissà dove cavolo si trovavano i genitori – a cui comunque Davide sembrava poco interessato –; e insomma chissà se qualcuno è venuto a riprendere quel minuscolo pacco postale... Ma evidentemente le cose in qualche modo si sistemarono, e ogni tanto mi capita ancora di incrociare Davide quando viene da queste parti, mentre Federico è morto a ventun anni in un incidente stradale. Stava rientrando con la Fiesta rossa del padre da una discoteca di nome King, era una di quelle notti già fresche in cui l’estate si contrae, i gatti cominciano a cercare la via del fienile e fanno sogni algebrici gli studenti rimandati in matematica. Il mese precedente tutta Italia parlava della Valtellina per via dell’alluvione, un evento che per la prima volta ci aveva fatto sentire al centro di qualcosa, riconosciuti e perfino amati come parte di un tutto fangoso; un'ebbrezza che sembrava riflettersi nei giovani sulla pista a riquadri luminosi del King, l’unico problema si presentava con It’s a Sin dei Pet Shop Boys: non sapendo bene in che modo andasse ballata, alcuni scuotevano il corpo come se fossero traversati da scariche elettriche micidiali. Adesso l’occhio azzurro di Davide deve essersi dato una mossa, ha smesso di essere pigro e non ha più cerotti a coprire una lente degli occhiali; è un architetto di cinquantatré anni, separato, con due figli; si è fatto crescere la barba alla John Lennon anche se ha perso qualche capello, ma nel complesso si mantiene bene. Incredibile come la voce sia rimasta identica a quella di Federico, l’unica traccia viva che conservo del mio compagno di scuola.
martedì 1 luglio 2025
Il processo Grillo, o sulle irragionevoli ragioni del pisello
Non entro nel merito del processo al figlio di Beppe
Grillo, Ciro, accusato dello stupro di una studentessa diciannovenne insieme a
tre amici, tutti più o meno della stessa età della vittima oltre che rampolli
della buona borghesia genovese; particolare che non me li rende troppo
simpatici, confesso. La mia antipatia, a pelle, per gli imputati, mi
renderebbe poco attendibile; a ciò si aggiunga la scarsa conoscenza
della vicenda avvenuta nell’estate del 2019, e più in generale del Codice di procedura
penale.
Proviamo allora a guardare alla materia da una
prospettiva diversa. Il procuratore capo del Tribunale di Tempio Pausania, Gregorio
Capasso, ha appena richiesto una pena detentiva di nove anni, che oltre ad
apparire particolarmente consistente solleva una questione filosofica. La ricaviamo
dalle motivazioni: le condizioni (verosimilmente alcoliche) della vittima le
impedivano di esprimere il proprio consenso; detto in altre parole, non era
cosciente di cosa stava facendo. E quattro figli di papà che scopano a turno una ragazza incosciente fanno schifo. Questo possiamo anche dirlo, la condanna estetica non ha bisogno di tre gradi di giudizio.
Però l'accusa rilancia questioni antiche e mai risolte – lo stesso la difesa, beninteso –, e mi chiedo se la specie a cui apparteniamo disponga di
qualcosa come un rilevatore di coscienza… Intendo: come faccio a sapere se
un'altra persona, in quel preciso momento, è davvero cosciente oppure no? A ben vedere,
è lo stesso dubbio etico che si sta dischiudendo con l’intelligenza
artificiale.
Certo, nel caso di una ragazza ubriaca degli
indicatori esistono eccome (andatura pencolante, voce strascicata etc.), ma il
punto esatto di confine è sempre discrezionale; per altro, se è
discrezionale nella vittima deve esserlo anche negli accusati, tanto che nel
diritto ciò rappresenta un’attenuante alla pena, fino al suo completo stralcio
perché non in grado di intendere e di volere.
Ma anche questa formula, che abbiamo sentito centinaia
di volte, sottende una visione fin troppo ottimistica delle competenze
psichiatriche, che dovrebbero dirimere la materia. E ciò perché non esiste una
teoria generale della coscienza – in realtà ne esistono molte, ma in conflitto
tra loro.
L’unico modo per uscirne sarebbe
quello di fare sottoscrivere un’autocertificazione di coscienza; un modulo da compilare prima di ogni
transazione umana, non necessariamente sessuale: “Io, Tal dei Tali, sono
cosciente delle mie azioni, anche tu lo sei e intendi ricambiare il bacio che
sto per darti?” Non vi fa venire in mente qualcosa… Massì, la frase rituale
pronunciata dagli sposi sull’altare. Un modo di procedere nemmeno tanto
estremo, nei college americani già si stanno attrezzando.
Certamente utile nelle controversie giudiziarie, questa eventuale dichiarazione non ci direbbe però ancora nulla sulla natura della coscienza, dal momento che oltre a esistere la menzogna una persona incosciente, per definizione, non è cosciente nemmeno della propria incoscienza, e in tal caso potrebbe sottoscrivere qualsiasi cosa.
Per tornare alla filosofia, ricorda il celebre paradosso di Epimenide, nato a Cnosso nel VI secolo a.C. Il quale affermava: Tutti i cretesi mentono. Ma se mentono, mentirà anche Epimenide, e questa frase è falsa. Allo stesso modo, se le persone incoscienti pensano di essere coscienti, chi ci dice che una persona che si dichiara cosciente non sia invece incosciente?
Si dovrebbe allora concludere, con Pascal, che il cuore possiede delle ragioni che la ragione non conosce. Per non dire il pisello, organo ampiamente mutevole nelle dimensioni quanto nelle intenzioni.