La prima immagine che si presenta alla mente è quella del tiro alla fune. Solo in seguito riesco a collocare al suo interno, con funzione di paonazzi contendenti, le discussioni intorno al tema dellə Schwa, che negli ultimi giorni si sono riaccese grazie all'ultimo libro di Vera Gheno (Grammamanti, Einaudi, 2024). Confesso di conoscere il suo pensiero solo per sommi capi, ma, ai fini del poco che ho da aggiungere al riguardo, è sufficiente quel vecchio attrezzo retorico costituito dalla metafora, con cui provare ad accostare la questione da un margine figurale.
L'impressione è che tutte le lingue vengano contese e definite da due forze contrapposte, come avviene appunto nel tiro alla fune. Da un capo afferrano la iuta intrecciata le mani senza calli degli intellettuali (scrittori, poeti, linguisti) e dall'altro i comuni parlanti, possiamo anche chiamarlo popolo. A volte, non spesso, sono i primi a vincere, ottenendo quale posta l'accoglienza dei modelli linguistici da loro finemente elaborati; è successo con l'italiano e in seguito con l'ebraico, una lingua morta già ai tempi di Gesù – voi resuscitate i corpi, sembrano dire ai cristiani con ripicca, e noi le lingue. Ma è più frequente il caso di idiomi diffusi e addirittura presi a modello di bellezza, ad esempio la versione ionica del greco antico, la lingua di Omero, costretti a cedere a linguaggi che si affermano per ragioni politico-militari, o a una maggiore semplicità d'uso; per l'attico, furono le conquiste di Alessandro Magno a renderlo la Koinè parlata sulle sponde del Mediterraneo, mentre il latino viaggiò sulle ali dell'aquila imperiale.
Se ne ricava che la sfida di Michela Murgia, Vera
Gheno, Alice Orrù e di chiunque creda che la lingua debba riflettere una rinnovata
sensibilità morale sul tema del genere, oltre le rivendicazioni di minoranze sessuali prima
ancora che economiche, è del tutto legittima. Bisogna vedere se la forza con
cui tirano la corda dalla loro parte saprà prevalere non solo sulle
consuetudini d'uso, ma su ideologie di segno contrario che ugualmente trovano
riflesso nei discorsi al Bar Piero, tra i banchi degli istituti professionali,
sotto ai caschi dei parrucchieri (e delle parrucchiere) e insomma in
quell'ovunque in cui è contemplata la Bible Belt statunitense, con i suoi
suprematisti bianchi che votano per Trump.
Per quel che mi riguarda prometto, da buon italiano,
di salire sul carro del vincitori, ma sono troppo vecchio e acciaccato per
cimentarmi in un agone di polvere, sudore e dizionari. Vera Gheno possiede delle ottime ragioni teoriche, unite a una dose di ideologia che fa tutt'uno con l'impeto emotivo funzionale a qualsiasi competizione, tra cui il tiro alla fune. Ma se fossi un bookmaker
londinese scommetterei sulla pigrizia: una forza debole tanto più incisiva
nella storia vissuta, non meno che in quella scritta e parlata.
Mi piace però concludere ricordando quanto pensava
Wittgestein al riguardo. "The borders of your language are the borders of
your world", recitava con aria sempre un po' imbronciata. E dunque
se il mondo, ossia i suoi rapporti di forza e le credenze derivate, danno forma
alle parole, ci sta pure il caso contrario: nuove parole o un diverso utilizzo
delle stesse (Liberté, Égalité, Fraternité, mettiamo) possono cambiare il
mondo. Buona fortuna ai corpi e ai discorsi trainanti, che il tiro alla fune abbia inizio!
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