Prendo spunto da Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione, il libro di Francesca Marzia Esposito uscito di recente per Minimum Fax. Ne ho letto, molto bene, ma non l’ho ancora letto, cosa che spero di fare a breve. Le mie sono dunque considerazioni risonanti, ma del tutto autonome dal testo a cui mi aggancio come fosse uno skilift – a lei l’arrancare puntiglioso della salita, a me l’ebrezza slalomante della discesa. Se volete farvi tutto il viaggio: leggete lei, non me.
Esposito parla di corpi, corpi umani se ho ben inteso,
e in particolare di alcune pratiche che hanno fatto del corpo una vera e
propria ossessione, come la danza e il body building. La mia conoscenza è di
superficie per entrambe, ma avverto nei confronti della prima un pregiudizio
favorevole, mentre guardavo al body building con la spocchiosa diffidenza degli
snob.
Ho utilizzato il verbo all’imperfetto perché, da
qualche tempo, ho mutato giudizio. Può sembrare un accostamento stridente, ma a
instillare il dubbio è stato un concetto filosofico elaborato da Jean-Paul
Sartre; di cui si può dire tutto, tranne che possedesse un fisico scultoreo.
Eppure fu lui a elaborare la formula di petit décalage, piccolo scarto,
quello che è alla portata di ciascuno di noi: fare qualcosa (anche piccola,
appunto) di ciò che la vita ha fatto di noi.
Se l’applichiamo al body building, scopriamo un inaspettato e perfetto correlativo. I nostri corpi, rispetto a quelli di altri animali, sono
davvero poca cosa: non abbiamo pelliccia o piumaggio a difenderci dagli agenti
atmosferici, e se proviamo a confrontarci a una tigre realizziamo di essere ciambelle venute senza buco; forse
potremmo giocarcela con un polipo (la cui spiccata intelligenza però suggerisce di evitare sfide a scacchi), o una mosca stercoraria. Perfino i tanto
declamati organi sessuali possiedono nella nostra specie qualcosa di ridicolo:
se cazzo deve essere che sia quello di un mulo, non il vermicello pendulo ed
estroflesso dei maschi sapiens sapiens; e non è che la fica sia venuta tanto
meglio…
Forse è stata proprio l’imperfezione del corpo ad aver
fatto pensare agli gnostici che il dio da cui siamo stati generati non è
onnipotente né tantomeno misericordioso, ma una mezza sega da loro chiamata
demiurgo; un pasticcione, nella migliore delle ipotesi. Bene ci dice Sartre, di
quella cosa imperfetta che sei, che sei stato costretto a essere meglio, non
hai potuto scegliere l’involucro fisico, la famiglia e la società dove emettere
il primo vagito, fanne qualcos’altro, hai un piccolo margine di libertà per
cambiare. Se ci pensiamo, è il proposito di ogni body builder.
I termini con cui possiamo compendiarne l’attività
sono dedizione, sforzo, esercizio, applicazione, costanza, astinenza (da fumo,
alcol, droghe e junk food, se non altro). Curiosamente, gli stessi termini che
troveremmo in un trattato di mistica medievale. Con la differenza che
l’obiettivo non è qui intangibile e rarefatto, ma incarnato in una
superfetazione muscolare che possiede qualcosa di iperbolico. Il risultato
potrà anche apparire discutibile, ma è fuori dubbio il faticoso percorso di
elevazione necessario.
Un body builder mira infatti a una particolare forma dell’oltre – oltre all'umano, oltre alla conformazione naturale di uomini e donne – , che, continuando nel parallelismo con l’antichità, possiamo associare al neologismo dantesco trasumanare. A renderlo praticabile è quel piccolo grado di liberà che Sartre ci ricorda essere in nostro possesso. Non tutto è possibile, ma esiste sempre, anche ad Auschwitz, una possibilità di scelta.
Credo sia stata proprio l’idea di possibile ad
avvicinare Mishima al body building, in una continuità ideologica con la sua
idea di mondo tendente all'estetismo, relazioni umane fortemente individuate, politica e letteratura perfino – per comodità possiamo
chiamare tutto ciò Altro, che nei mistici coincide con Dio. Ecco, se rimane in me una residua diffidenza
nei confronti dei corpi pompati in estenuanti sessioni di allenamento, è proprio la mia
incapacità a scorgere nei culturisti di mia conoscenza (compresa quel po’ di
palestra che ho praticato in gioventù, non sono diverso da ciò che osservo)
uguale disposizione dialettica all’Altro. Piuttosto, circolarità con la
propria immagine vagheggiata, gorgo ombelicale, feticismo del medesimo.
Diciamola più terra terra: narcisismo.
Correggere il pastrocchio realizzato dal demiurgo mi sembra un desiderio ragionevole, profondamente umano. Ma a patto che, alla
maniera degli sport, tutti quei muscoli vengano finalizzati in un’azione dai
tangibili effetti, facendoli reagire con un fuori qui inteso nelle più
ampie determinazioni – anche spaccare la faccia al bullo che opprime il
quartiere è un modo per riportare al mondo la propria metamorfosi fisica. Diversamente, l’utopia muscolare si trasforma in fuga dalla responsabilità, che è
esattamente quanto faceva orrore non solo a Sartre (essere liberi significa
essere responsabili delle proprie azioni), ma perfino a Nietzsche, colui che ha
portato a equivoca oltranza il concetto di Übermensch.
Per concludere e tornare all’intuizione iniziale, ci sono forse due direttrici per realizzare il piccolo scarto, facendo qualcosa di ciò che la vita ha fatto di noi. Una al mondo ritorna, per cambiarlo in forza del cambiamento realizzato a partire dalla materia prima di cui siamo composti, spirito e carne; l’altra da esso definitivamente si allontana, e la reificazione della mistica antica prende così la forma del grottesco. E non sono tanto gli unguenti che rendono il corpo lustro e simile a quello del Big Jim, le pose paonazze come se si fosse intenti sulla tazza del cesso, gli slippini neri con impresso il numero che alle miss viene appuntato sul seno, ma la ricerca spasmodica di un generico altrimenti, che il più delle volte si rivela sbiadita fototessera del conforme.
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