giovedì 30 maggio 2024

Il mondo di Cicci

Quando i telefonini cominciarono a incorporare una fotocamera, a nessuno venne in mente di rivolgere l’obiettivo verso di sé – i selfie arrivarono molto dopo. Erano piuttosto un surrogato dello sguardo, erano fotografia, e cioè porzioni di mondo eternate in uno scatto. Non ci volle molto a capire – e non solo per l’iniziale scarsa qualità delle immagini – che altre funzioni si spalancavano, a suggerirle era la continua disponibilità dell’apparecchio dentro le tasche. Dalle foto di tramonti si passò agli animali domestici (gattini, cuccioli di Labrador, figli con medesima funzione ornamentale di un pony); quindi calciatori famosi incrociati a fare shopping nelle vie del centro; infine belle ragazze che venivano fotografate da dietro, così da non risultare molesti. E poi, il culo, è pur sempre il culo. Ci si scambiava quelle immagini un po’ goliardiche tra maschi, non credo ci fosse sessismo, piuttosto un semplice tributo alla bellezza, tanto più stordente quando in forma di epifania: non stava lì ad aspettarti da secoli come la Cappella Sistina, incrociavi una bella ragazza e una volta superato il punto di massima prossimità ti giravi e... clic. Da alcuni anni però non ricevo più foto di belle ragazze, né le spedisco. Nel mio giro di conoscenze si è passati alle foto dei manifesti funebri, con cui comunicare, senza ridondanza di parole, che una persona conosciuta è morta. Oggi è stato il turno di Sergio, detto Cicci. Era mio amico, ma in un'accezione un po' generica, estesa: restituisce il sentimento, meno la consuetudine di frequentazione. Nei tardi anni Settanta bazzicava la compagnia del muretto di via Parolo, dove tuttora vivo. Guardavo a quei ragazzi un poco più grandi di me con ammirazione e invidia – si accompagnavano già con le ragazze, possedevano motorini scattanti che erano in grado di impennare – e in particolare a Cicci. Aveva occhi azzurri, capelli biondi a caschetto, nell'insieme la sua figura possedeva qualcosa di angelico; ma quando giocava a pallone si trasformava in un vero diavolo, impossibile da marcare per i difensori. A ogni gol segnato risuonava la saracinesca dei garage, utilizzata come porta, e dopo pochi secondi il signor Pittino usciva in terrazza berciando; il rumore interrompeva la sua pennichella che durava fino alle sei del pomeriggio. Ricordo Cicci al tramonto con un maglioncino Benetton annodato in vita, un maglioncino di cotone giallo, come i capelli, e quell’associazione si è fissata nella memoria. Dovevano essere i giorni in cui si conclude l'anno scolastico e si riempiono i gavettoni alla fontanella del Centro Sportivo. Andò via da Sondrio prestissimo, con la famiglia: i due genitori, entrambi bidelli a Ragioneria, e la sorella Lara, trasferendosi a Dongo dove erano riusciti a ottenere un albergo in gestione. Quando passavo di lì mi fermavo sempre a bere qualcosa, e parlavamo con quell’intimità da rimpatriata che in effetti non avevamo mai avuto prima. L’espressione da lui utilizzata con maggior frequenza era ai nostri tempi: ai nostri tempi si faceva questo, ai nostri tempi si faceva quest’altro… e nel dirlo mi sembrava che i suoi occhi azzurri si inumidissero. Ai nostri tempi eravamo più felici, concludeva con una solennità che trovavo un po’ buffa. Ma è solo guardando la foto del manifesto funebre che realizzo ciò che intendeva. Il senso più vero e profondo non sta nel complemento, ma nella premessa: i tempi che ci troviamo a vivere non sono i nostri tempi, avevi ragione Cicci. Noi siamo nel mondo ma non siamo del mondo, sta scritto nel Vangelo di Giovanni. L’evangelista, ricercando il colpo aforistico a effetto, finisce però col peccare di approssimazione. Noi non siamo di Netflix, di Facebook, di Instagram; noi non siamo nemmeno del pandoro Balocco e delle risse di Fedez all’uscita da una discoteca, dove il buttafuori albanese ci avrebbe esclusi nella selezione all’ingresso; perfino del cambiamento climatico, gli oceani di plastica e i tonni al mercurio; e poi guerre, guerre a tutte le latitudini e profughi su barconi malmessi, a ben vedere segnano poco vite sempre più distratte. Ma c’è stato un mondo a cui non solo siamo appartenuti, ma abbiamo fatto nostro fin dentro la carne. È stato quando leccavamo piano, nei dilatati pomeriggi estivi, il ghiacciolo Draculino, lo acquistavano al bar della Pelosa così chiamata per la scarsa confidenza con la ceretta. Oppure il mondo delle sigarette Kim fatte girare come uno spinello, si andava a fumarle nella fossa di cemento accanto alla piscina, dove il Paga mostrava il cazzo alla conquista di turno, mentre noi, da sopra, li spiavamo e ci sembrava che ogni volta lui l’avesse più grosso. Il mondo delle cattedrali di Lego innalzate nella vetrina della Piccola città a pochi giorni dal Natale, l'unico giorno in cui Amanzio, titolare dell'omonimo bar, offriva aperitivi a oltranza. Ci presentavamo così ubriachi al rituale pranzo coi nonni, che avevano già preparato la busta con le banconote: se era raffigurato Gian Lorenzo Bernini tutto bene, con Alessandro Volta era il segno di una pagella da rimediare. Lo stesso mondo in cui Miguel Bosè – bello come le ragazze belle, tocca ammetterlo – cantava canzoni come equazioni semplificate dell'Universo; un cosmo ordinato e amichevole che non possedeva barriere sonore, e se l'artefice continuava a celarsi lo facevano anche misteriose mani che imboccavano i juke box, da cui sgorgava un rosario di canzoni sempre uguali: Super Superman, don't you understand we love you... tu, tabadan tabadan, c'è la luna e ci sei tu... Liù, ti stendevi su di noi... quella tua maglietta fina... I was born, born, born... born to be alive... Un culto laico a cui era dolce arrendersi, e comunque non si poteva sfuggire: veniva ribadito dalle radioline a transistor portate anche allo stadio, oppure appese allo specchietto retrovisore delle auto perché era quello il mondo delle auto, di tutte le auto ma in particolare delle Alfa Romeo, quando se ne incontrava una si sbirciava dal finestrino per guardare il tachimetro, la cifra più alta doveva corrispondere alla velocità massima a cui sarebbe potuta arrivare. Noi siamo stati di questo mondo qui, e, nonostante gli infiniti travestimenti, continuiamo a farne parte. Tra un’ora avrò l’ennesima visita medica, un neurologo molto più giovane di me (sulle braccia coperte dal camice si intravedono svariati tatuaggi) cercherà di capire la ragione per cui non riesco più a camminare; la biopsia ossea ha dato esito negativo, ora probabilmente richiederà un prelievo di liquor dal midollo spinale. Ma se anche, come spero, il peggio verrà scongiurato, il verdetto clinico mi restituirà a un presente frantumato in tante piccole scorie, a un altro mondo – che non è il mio. Dove tra qualche mese o giorno riceverò la foto di un nuovo manifesto funebre: Oh, hai visto chi è morto oggi… minchia, era ancora giovane! E via così di morte in morte, in attesa del nostro nome sul manifesto funebre, con sentite condoglianze dell’Amministratore e cordoglio dei condomini tutti, che dalla settimana successiva cominceranno a disputarsi il posto auto. Ciao Cicci, è stato bello avere condiviso lo stesso lento scorrere dei minuti, le ore scandite da una campanella fatta trillare dai tuoi genitori, la prateria che sembrava infinita dei giorni, e invece era solo un giardinetto poco più grande di quello dietro al muretto di via Parolo. Se lassù fa freddo, indossa il maglioncino giallo.

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