Dicono: la società occidentale è sempre più frantumata per gruppi eterogenei, vengono condivise le strade con cui raggiungere in auto il posto di lavoro – quale lavoro? – ma non l’immaginario, che finisce così col polverizzarsi in una moltitudine di miti e riti messi in atto da comunità non locali, trovando provvisoria aggregazione sul web. Mentre il vicino di casa si trasforma in un perfetto sconosciuto
È possibile.
I social e i canali su YouTube stanno progressivamente
scalzando gli infiniti Bar Sport degli anni passati, dove si conversava
sorseggiando un bianco corretto (è lo stesso dello Spritz, ma costava un
quinto) e giocando a boccette, mentre dal jukebox uscivano canzoni sempre
uguali, ogni estate aveva le sue. Quindi gli oratori, le associazioni
cattoliche, i boy scout, la sezione locale del PCI – luoghi fisici dove, come
si dice, si faceva mondo: un unico mondo che conteneva corpi diversi.
Anche il virtuale, mezzo secolo fa, possedeva qualcosa
di omogeneo e uniformante, con l’unica rete televisiva pubblica a cui seguì, il
4 novembre del 1961, RAI 2, e il 15 dicembre 1979 RAI 3, dopo la diffusa
fioritura delle emittenti radiofoniche private; per Canale 5 bisognerà
attendere l’anno successivo.
A me questa però appare una descrizione oggettiva del
fenomeno, non la sua verifica vissuta. Per quella ci vorrebbe qualcosa come un
collaudo. Mi presto a fare da cavia: nel 1975 compivo nove anni, e i personaggi
che occupavano il chiacchiericcio mondano (solo molti anni dopo si sarebbe chiamato gossip) avevano nomi come Gianni Agnelli, Marina Ripa di
Meana, Marta Marzotto, Franco Califano, Adriano Panatta, Eleonora Vallone,
Helmut Berger o Gigi Rizzi. Di quest’ultimo mi era arrivata voce che se la facesse
con Brigitte Bardot, ma di tutti gli altri non avevo idea di cosa combinassero
in serate partite dai dehors di via Veneto.
Quando, una volta ogni due mesi, andavo dal
parrucchiere Gino, non sfogliavo le pagine di Novella 2000, su cui avrei potuto
avere ogni dettaglio riguardo gli amori stagionali dei vip. Mi gettavo piuttosto su Diabolik
o Lando o il Guerin Sportivo, e così tuttora continuo a ignorare il palmares
sentimentale di Califano. Mentre so tutto di Chiara Ferragni e Fedez – lei è
uscita a cena con Tony Effe la settimana scorsa, in una story su Instagram
indossano la stessa maglietta, particolare che ha fatto pensare a un loro
flirt; intanto lui, Federico Lucia in arte Fedez, amoreggia con Garance Authié,
modella spagnola ventenne nonché studentessa Economia alla IE University di
Madrid.
Mi frega qualcosa di tutto ciò?
No, nulla, come non mi fregava nulla di Marta
Marzotto. Ma se allora il mio disinteresse orientava il mio sapere, oggi non
posso esimermi dall’essere persona informata sui fatti, come recita la formula
giudiziaria sulla base della quale vengono convocati i testimoni nei processi –
ecco: sono mio malgrado chiamato a testimoniare su vite, poche e sempre quelle,
nella migliore delle ipotesi irrilevanti, in un processo farsa che già ne
rappresenta l’assoluzione.
Le notifiche dello smartphone mi aggiornano con la
cadenza del respiro affannato di chi ha appena fatto cinque piani di scale,
sono costretto a vedere tutto, sapere tutto del pettegolezzo di oggi che riceve
la staffetta dal pettegolezzo di ieri, ho gli spilloni conficcati nelle
palpebre alla maniera del capo-drugo Alex in Arancia meccanica, non può
fare a meno di sorbirsi i ripugnanti filmati con cui cercano di rieducarlo.
Dopo le novità sulle direttrici divaricanti dell’ex coppia d'Italia, posso già
prefigurarmi i commenti cinici di Selvaggia Lucarelli, le t-shirt nere di Vannacci, la
voce cacofonica di Parenzo, il dilagare dell'ego di Sgarbi e Morgan, il computo
degli yacht di Bandecchi, la campagna acquisti del Frosinone e, ciliegina sulla
torta, le sontuose mammelle di Arisa, non c’è giorno in cui non mi compaia una
sua foto smutandata su qualsiasi device tecnologico, impossibile sfuggirle.
Ne deduco che la narrazione dei sociologi di una pluralità di mondi simbolici nei quali saremmo ora collocati – il pronome noi è limitato a insiemi minori, non più contenuti in un insieme maggiore a fare da cornice – è vera solamente a metà. Nel cuore
di tenebra del nostro tempo avanza l’omologazione culturale profetizzata da
Pasolini, procede a vele spiegate – una metafora anacronistica per gente
anacronistica come me, a cui vengono imposti continui update al più
degradato immaginario pop.
Ho qualche anno più di te e mi ricordo che quando mio nonno, contadino, incontrava un suo amico (contadino pure lui), si fermava a parlare piacevolmente delle sue esperienze di vita e di lavoro: ciò che diceva l’uno rappresentava quasi sempre una novità, un arricchimento per l’altro e viceversa. Alla base di chi parlava e di chi ascoltava, c’era sempre una diversa concezione della vita - non veicolata dai programmi televisivi - una differente coscienza delle cose che succedevano e quindi il confronto accresceva e migliorava sia l’uno che l’altro. Quel modo variegato di pensare e di parlare non esiste più; il mondo fornito dai media è identico, così come sempre più identiche sono le parole ed i messaggi messi a disposizione per descriverlo. Chi parla, non fa che ripetere le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque, perché ci si abbevera alle stesse fonti di informazione. Sono sicuro che se la buonanima di mio nonno incontrasse, oggi, quel suo amico contadino, non parlerebbe né di semina né di potatura, non si consiglierebbe con lui su come ottenere un buon vino, ma la sua attenzione sarebbe rivolta a Fedez e a Morgan e a Ferragni, a Sgarbi capra…capra e ad Amadeus che lascia la Rai, alle farneticazioni di Salvini e agli obbrobri di Vannacci e a tutte le altre notizie che plasmano le coscienze. In questa omologazione del pensiero nessuno si salva, nemmeno il sottoscritto che non ha cellulari, non sta sui social, guarda poca televisione e detesta i video su You Tube.
RispondiEliminaGrazie per il tuo bel commento. Anche io avevo un nonno così: solo che parlava (e ci capiva) di mucche, con la potatura era un pasticcione.
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