A volte, ma non spesso, mi capita di conoscere qualcuno con cui avverto che potrei avere una grande amicizia, un grande amore oppure un grande conflitto. Lo avverto già da subito: nessuna tonalità intermedia, solo manifestazioni estreme. Potrebbero essere anche le tre cose assieme, o, ma forse è lo stesso, in successione, secondo l'adagio filosofico per cui nella parte riverbera il tutto. Immagino sia una sensazione comune, che però a me turba.
Ripensandoci a posteriori, comprendo che non sono
l'amicizia, l'amore o il conflitto in sé a suscitare il mio turbamento – ho
luna e sole in ariete, in fin dei conti – ma l'aggettivo con cui si
accompagnano: grande, come la domanda che gli adulti pongono ai bambini: cosa
vuoi fare da grande?
Ed era un grande
senza confini, quando il bambino ero io la grandezza mi appariva illimitata,
astratta, consegnandomi a risposte balbettanti, a cui non ho mai creduto per
davvero: l'astronauta, il domatore di leoni, il pilota di Formula 1...
Forse perché mi imponevano di superare un limite di cui già avevo compreso la
confortevolezza, un limite che non è tracciato da nessuna parte ma con il quale, pure, sempre finisco col misurarmi, quando la linea è sbiadita la rinnovo
col pennello intinto nella vernice dell'abitudine. Come in quei film dove
l'ergastolano, una volta spalancato il portone del penitenziario a fine pena,
vorrebbe ritornare in cella.
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