martedì 19 novembre 2024

Mi ricordo 23

 


Mi ricordo di una Citroen Dyane con le sue sospensioni di panna montata che ammortizzavano ogni buca, ma bisogna arrivarci per gradi. La mamma e il papà erano entrambi maestri elementari, li immagino adocchiarsi – prima e più sfacciato il maschio, quindi la ragazza ne ricambia maliziosa lo sguardo – nei corridoi a volta dell’Istituto Magistrale di Sondrio, la vecchia sede sprovvista dei mosaici astratti di Emilio Tadini. Siamo nella prima metà degli anni Cinquanta, le gonne scampanate e i maglioncini a vi dai colori discreti, grigio o beige perlopiù, i più vezzosi indossano cappotti con gli alamari al posto dei bottoni. Lui proveniva da Milano dove era stato in classe con un jazzista poi divenuto famoso, quando venne in tournée a Sondrio lo accompagnai al concerto, al termine ci fece una dedica sulla copertina dell'ultimo disco: "Al mio compagno... come ti chiami già? Ah, sì, Francesco, al mio compagno Francesco e a suo figlio Guido." Una dedica che papà si rigirava tra le mani, ma non ascoltava mai il disco; gli era sufficiente parlarne con quella punta di orgoglio di chi ha sfiorato il mantello di un santo, e, per metonimia, ne riflette la virtù. Al contrario, svicolava sul proprio rendimento scolastico, non si capisce se e quante volte fosse stato bocciato. Poi si era messo di buzzo buono e iscritto al concorso per diventare direttore didattico, era già sposato e con un figlio che sarebbe rimasto unico; quale surrogato di un fratellino mi era stato donato il Big Jim. In televisione davano lo sceneggiato su Sandokan con Philippe Leroy e Kabir Bedi e, soprattutto, Carole André, di cui mi innamorai immediatamente. Credo abbia contribuito il realismo dello schermo a colori dell'apparecchio Grundig: TEDESCO aveva sottolineato il venditore con il tono di papà quando parlava del compagno jazzista; finalmente l’agognata televisione a colori, nel condominio già la possedeva solo la famiglia Ciccozzi. Con le gemelle Kessler, in bianco e nero, non era scoccata la stessa scintilla, eppure anche loro erano tedesche. Visto l'immediato successo della serie, la Panini realizzò l’album delle figurine che io cercavo di completare, ma procedevo a rilento dividendo le mancette dei nonni con le figurine dei calciatori. Quando il papà era tornato da Roma dove aveva dato l’esame di Stato ("È andato tutto bene!" gridava al telefono alla mamma per sovrastare il trambusto della stazione Termini, poi erano finiti e gettoni e non avevo fatto a tempo a salutarlo) trovai una cinquantina di pacchetti sparsi sulle piastrelle in graniglia del nostro appartamento: metà appartenevano a Sandokan, l'altra metà ai calciatori. Io le raccoglievo a carponi, e a ogni nuovo ritrovamento seguivo la pista come un cercatore del Klondike; dopo anni di vane ricerche aveva finalmente trovato il filone giusto. La mamma invece continuava a insegnare, terminata la stagione delle supplenze in paesini abbarbicati sulle vette, aveva trovato anche lei il filone giusto, la cornucopia del ruolo fisso. Le fu assegnata la sede di Buglio in Monte, 577 metri di altitudine, sul versante retico, in auto quaranta minuti di viaggio con la sua Fiat 500 Super; rispetto al modello standard aveva solo i parafanghi più ampi, cromati. Ma altre volte veniva una sua collega a prenderla, la Titta, ed eccoci finalmente arrivati alla sua Dyane dalla carrozzeria dorata, ricordava i carri di carnevale da cui lanciano i coriandoli e fanno le scoregge sedendosi su un cuscino gonfiabile. Condividevano il viaggio così da risparmiare sulla benzina e fare qualche pettegolezzo lungo la strada, anche il termos con il caffè veniva preparato a turno. Un giorno le accompagnai, non ricordo se fu con la 500 o la Dyane della Titta, solo che era in programma una gita a un vecchio mulino del luogo, mia madre voleva assolutamente che lo vedessi. Un autentico spirito da maestra presente tanto alla cattedra quanto nelle faccende private, persino adesso che ha ottantasette anni pedagogizza le amiche con cui si ritrova tutte le mattine al bar Meetic; loro annuiscono anche quando le pile dell'Amplifon sono scariche, avendo forse intuito che basta poco per farla contenta. Gli alunni della mamma avevano la mia età, si trattava di una quarta elementare, mentre quelli della Titta frequentavano la quinta, ma legai con i maschi di entrambe le scolaresche quasi subito, dopo una prima naturale diffidenza nei miei confronti; ero pur sempre il signorino venuto dalla città, il figlio della maestra. Non ci fu invece verso di approcciare le bambine, anche se ce n’era una che mi piaceva molto; aveva una treccia che raccoglieva i lunghi capelli allo stesso modo di Carole André, sigillata da un fiocco in tinta con la Dyane della Titta. Durante il tragitto a piedi dalla scuola al mulino mi ero preparato qualche frase da rivolgerle: Ciao, preferisci Sandokan o Zorro? Ce l’hai la Barbie? Io ho il Big Jim che sferra un colpo di karate se pigio con un dito sulla schiena. Vuoi sposarmi? Ma alla fine non le dissi nulla, e poi a chi, confondo il suo viso con i lineamenti generici e minuti dell'infanzia, non so quale nome avesse (Roberta e Patrizia andavano sempre per la maggiore, ma iniziavano a comparire le prime Deborah), men che meno se i suoi occhi fossero azzurri come quelli di Carole André, o magari portava gli occhiali con una pecetta a coprire una lente, serviva a stimolare l’occhio pigro di cui si era verificata un'epidemia tra i bambini degli anni Settanta, ogni classe prevedeva come minimo un Moshe Dayan. Mi limitai a camminare per tutto il tempo alle sue spalle, lo sguardo fisso alla lunga treccia che oscillava a ogni passo, partivo dalla testa e poi scendevo giù, sempre più giù seguendo i fili dei capelli che si intrecciavano, confondevano restituendomi un leggero capogiro, fino allo strangolamento del fiocco del colore scintillante dell’oro.

Mi ricordo 22

 

Mi ricordo lo sforzo nello staccare una figurina, accadeva quando veniva incollata al posto sbagliato sull'albo dei calciatori, la frittata ormai era fatta. Non so se qualcuno ci abbia mai provato, è difficilissimo! Ieri sera ho visto per la prima volta Il castello errante di Howl. Lo spirito della protagonista, Sophie, transita tra i vari involucri che di norma si succedono in una vita – bambina, adolescente, giovane donna, matura, anziana, vecchia – qui scombinati rispetto all'ordine cronologico consueto. Penso a come sarebbe stata l'estate del 1982 con il mio corpo attuale. Avevo allora sedici anni e trovato lavoro come aiuto bagnino sulla spiaggia di Lacona, Isola d'Elba. Quando Altobelli segnò il terzo gol, nella finale dei campionati mondiali di Spagna, mi infilai nella Cinquecento color pomodoro di un certo Stefano, lui guidava e io stavo seduto sul tetto a sventolare la bandiera italiana, le gambe a penzoloni dentro il foro del tettuccio. Stefano intanto suonava il clacson, ammesso che così possa essere chiamato il vagito della sua Cinquecento, non il suono pieno che proveniva dalle altre automobili incrociate dopo avere scavallato Colle Reciso, nella zona industriale di Porto Ferraio si raggrumavano in chiassosi vortici attorno a un nulla tangibile, lo stesso movimento che fa il torero prima di conficcare l'estoque tra le scapole dell'animale stremato, io sempre a sventolare il tricolore. Continuo a pensare al corpo che mi fa ora da inattendibile specchio, quasi un intruso (smagrito, pallido, i capelli diradati), con in mano quella bandiera, e dietro si profila la copia in scala diminuita appartenente al Circo Americano. Mio nonno mi ci aveva portato nella primavera del primo anno di scuola, quando puntuali arrivano le giostre insieme alle rondini; i cartelloni sgargianti del circo, a coprire il volto di politici democristiani col broncio, comparivano invece senza preavviso, alternandosi con quelli in cui si prometteva la visione di enormi cetacei imbalsamati, oppure acrobazie nella guida della motrice degli autorimorchi; ma niente foto con il leoncino in braccio aveva infine sentenziato il nonno, si prendono i pidocchi; un cinquantottenne che sventola la bandierina in plastica del Circo Americano, che strana sensazione... Ma di nuovo eccomi catapultato negli anni Ottanta, basta girare in blocco le pagine dell'albo. A furia di stare in spiaggia ed entrare in acqua per noleggiare i pedalò, mi venne un ciuffo biondo che possedeva qualcosa di artificioso, sembravano i colpi di sole sulla folta chioma di John Taylor, il bassista dei Duran Duran. Avrei potuto capitalizzare il nuovo aspetto con le ragazze, ne osservavo i capezzoli con un desiderio misto a timore, la moda del topless aveva reso manifesto ciò che fino a poco prima era consegnato all'immaginazione, oppure ricavato dai film con Anna Maria Rizzoli e dai fumetti di Lando. La parte superiore del bikini pendeva inerme dalle stecche dell'ombrellone, non veniva occultata nella borsa da spiaggia assieme alla Settimana Enigmistica, un pacchetto di Muratti Ambassador, i tamburelli e la crema solare e la custodia dei Ray-Ban, il walkman azzurro della Sony aveva preso il posto delle biglie con l'effige dei ciclisti, poi alla ragazza veniva voglia di un Calippo e il costume era già lì, pronto per essere indossato. Chissà perché, all'interno del bar dell'Hotel Lacona (ma in fondo qualsiasi altro interno non faceva differenza), i capezzoli continuavano a essere dei minacciosi pungiglioni pronti a iniettare il loro veleno, mentre sulla battigia diventavano biberon. Collegavano il fuori col dentro le note delle canzoni che si irradiavano dal juke-box,  Celeste NostalgiaJust an IllusionTanz bambolinaBravi Ragazzi, ma erano queste eccezioni rispetto ad Eye in the Sky, la vera colonna sonora dell'estate dell''82. Le sue basi elettroniche carezzavano la parata di bottiglie dei liquori, scavallavano il frigorifero dei gelati con la scritta Eldorado, uscivano dai due ingressi spalancati per monopolizzare lo spazio sonoro, mescolandosi alla risacca del mare dove si spegnevano provvisoriamente, fino a quando un nuovo turista non infilava cinquanta lire: clic, il 45 giri viene agguantato delicatamente dal braccio meccanico per essere posato sul piatto, I'm the eye in the sky, looking at you, I can read your mind, I'm the maker of rules, dealing with fools, I can cheat you blind, and I don't need to see anymore to know that I can read your mind, I can read your mind, I can read your mind... Non so se fu per via della frezza bionda, ma alla fine anche io limonai con una mia coetanea tedesca; più che i suoi capezzoli puntati su di me come l'indice dello zio Sam (I want you!), fu il piacere maschile di poterlo raccontare al rientro a Sondrio: Allora come sono le tedesche? mi avrebbero chiesto gli amici di fronte ai videogiochi del Bar Paninoteca Number One, a cui io avrei replicato con un'alzata di spalle molto blasé, tacendo sul fatto che la prima volta che due lingue si toccano scorre una corrente elettrica micidiale, simile a quella degli esperimenti con gli arti guizzanti delle rane. Morire è come staccare una figurina.

Mi ricordo 21

 


Mi ricordo di una prostituta greca, sostava su una Ford Fiesta nera nel minimo piazzare di fronte all’ingresso dei vivai Riva, a Cascina Costone. Il motore rimaneva acceso, credo lo facesse per mantenere in funzione il riscaldamento, in estate tornava in Grecia dove ancora viveva la famiglia.

Come tutte le ragazze distribuite tra Lentate al Seveso e Lurago d’Erba, passando per Arosio, Carugo e Inverigo, all’inizio stava fuori dall’auto, camminando avanti e indietro sul ciglio della strada provinciale 41: l’andatura resa pencolante dai tacchi a spillo, una minigonna rossa a dar risalto alle gambe lunghe, e comunque proporzionate alla statura superiore alla media. Ma lo vedevi che tremava dal freddo, moldave e rumene lo sopportano meglio.

Racimolato il suo giro di clienti, cominciò così ad attenderli in auto, un piccolo colpetto con gli abbaglianti e lei scendeva, si andava a scopare dietro ai capannoni della zona industriale preceduti dall'insegna del Bennet; la luce rossa spicca sull'enorme parallelepipedo, orientando come un faro gli automobilisti nel nulla delle sere invernali. Arrivato a quel punto, introducevo nell’autoradio il cd con la colonna sonora di Drive, nel film Ryan Gosling indossa un giubbetto di raso bianco con uno scorpione bianco stampato sul retro. Era il segno sonoro che iniziava la stagione della caccia.

Nel mio caso, la prima volta non andò troppo bene, ci fu un lieve attrito. Lei mi porse il preservativo (una marca mai sentita nominare, probabilmente acquistato su internet o in qualche discount a prezzo stracciato), ma io pretesi di indossare il mio. Era una cosa che facevo spesso, l'ipocondria mi portava a considerare quali probabili, addirittura imminenti, remote ipotesi di rottura, dopo la morte di Freddy Mercury scorgevo agguati virali ovunque.

Per fortuna esistono modelli della consistenza di un gommone, pare vadano per la maggiore nei partouze, mi vergognavo un po’ quando andavo ad acquistarli in farmacia, temendo di essere identificato come omosessuale. Ma se alle altre la cosa non procurava alcun fastidio – in fondo era per loro un risparmio – la mancanza di fiducia verso il suo preservativo l’aveva infastidita. Fece comunque tutto quel che c’era da fare, lo fece con meccanica silenziosa professionalità, poi rimise gli slip e calò il sipario della minigonna rossa, e con un ciao distratto tornò caracollando alla sua Fiesta, dove l’avevo riaccompagnata. Proprio non riusciva a prendere confidenza con i tacchi a spillo.

A parte il saluto, mi disse solo che si chiamava Anna ed era di Atene – il luogo di provenienza e il nome li chiedo sempre –, e forse per quest’unica ragione ritornai la settimana successiva: mi piaceva l’idea di fare sesso con una concittadina di Pericle, Socrate e Platone, non una provinciale come Aristotele. Incrociando le dita accettai di farmi infilare il suo anonimo preservativo, e dopo avere scopato il ciao ci vediamo fu accompagnato da un sorriso. “Ciao Anna, a presto!” risposi io.

Mantenni naturalmente la parola, dopo tre giorni ero già lì. Fu la volta dell’avventura. Mentre eravamo intenti in ciò che si fa e di norma non si racconta, spuntarono da dietro i fari di un'automobile con a bordo tre persone, una di loro impugnava una pila che puntava nella nostra direzione. “Scappa, scappa: sono la ronda padana!” strillò Anna. Completamente nudo dal busto in giù, misi in moto. Il sedile era ancora reclinato e non era facile guidare a questo modo, a piedi nudi poi, ma dopo un breve inseguimento – l’adrenalina della fuga aveva mantenuto salda l’erezione – riuscii a seminare la ronda padana. “Bravo!” mi disse Anna, e questa volta il tono della voce sembrava convinto.

Ci furono in seguito altri incontri, su cui si proiettava l’imprinting di quella fuga: “Ti ricordi?”, e ridevamo. Una solida complicità si era stabilita tra noi, come nei reduci di tutte le guerre. Nel caso fosse occupata, attendevo che si liberasse al Garden Caffè di Lurago d’Erba, dove facevano ottimi cocktail e mi ero fatto degli amici; con uno, Gigio, andammo a vedere una partita di basket a Cantù, della cui squadra era tifoso sfegatato. Per giustificare la mia continua presenza avevo raccontato di avere la fidanzata a Erba. Particolare non poi così lontano dalla realtà, nella mia percezione almeno.

Se il tempo dedicato al sesso era sempre quello, roba da una manciata di minuti e via, come si dice una sveltina, crebbe progressivamente il tempo della parola, rigorosamente successivo. Venni così a sapere che aveva lasciato la Grecia a causa della crisi economica del 2009. Un lavoro le era rimasto, ad altri era andata peggio, faceva la segretaria da un commercialista, credo avesse studiato ragioneria o qualcosa del genere. Ma il clima opprimente e ciò che si raccontava dell’Italia la indussero a partire, prima non si era mai prostituita. Con i soldi messi da parte, oltre all’acquisto della Fiesta, intendeva tornare in Grecia e prendersi una villetta vicino al mare, farsi una famiglia, avere dei figli e naturalmente un marito. Quieta vita piccolo borghese, insomma. Ma non priva di una sua bellezza in cui percepivo odore di gelsomino.

Il padre era morto fulminato da una lampadina e della mamma, mia coetanea, non amava parlare, e io non chiedevo. Insisteva nel raccontarmi dell’unica sorella, di un paio di anni più giovane – doveva dunque avere ventiquattro anni, già che Anna ne aveva al tempo ventisei. Appena discussa la tesi di laurea in Psicologia, la sorella intendeva sposarsi con il suo fidanzato, e questa cosa ad Anna proprio non andava giù. “Stanno assieme da soli due anni” mi disse risistemandosi il reggiseno di pizzo bianco, “meglio che aspettino ancora un po’.” E dopo una pausa in cui si attendeva forse che io dicessi qualcosa, aveva aggiunto: “L’amore è una cosa importante.”

Io cercavo di rassicurarla: “Ma certo che l’amore è una cosa importante, ma due anni… non sono pochi.” Intanto il piazzale dei vivai Riva si era riempito delle auto degli altri clienti, spazientiti per l’attesa. “Va be’, dai, adesso devi andare”, e la salutai con un bacino sulla guancia. Mentre raggiungeva la Passat di un tipo azzimato che aveva tutti i tratti del rappresentante di commercio, di nuovo comparve l’odore di gelsomino.

Una notte di luna piena mi accorsi di un particolare che prima non avevo mai notato. Accanto alle grandi labbra aveva un grosso neo, un’escrescenza carnosa da cui spuntavano dei peli spessi e neri, come la lunga capigliatura. Tutto il resto era ovviamente depilato, e complice la carnagione chiarissima – all’inizio la cosa mi appariva incongrua, solo in seguito compresi che stavo facendo dei raffronti con Irene Papas, splendida Penelope nello sceneggiato sull’Odissea – quel neo spiccava ancora di più.

Non so se fu di nuovo a causa della mia ipocondria, ma l’idea di sbattere la pelvi contro un grumo peloso mi procurava imbarazzo, e nell’incontro che seguì le chiesi di fare solamente sesso orale. Come la prima volta con il preservativo, Anna si accorse che qualcosa era cambiato, e anche il suo atteggiamento mutò di conseguenza: fine dei discorsi sulla sorella, sull’amore, sulla crisi economica e i sogni di riscatto. Fine di tutto, gelsomino compreso.

Tornai da lei altre due o tre volte, in cui mi accolse con freddezza. Poi smisi di deviare verso Cascina Costone quando tornavo in auto da Milano. Agli amici del Bar Garden, dove mi ero fermato dopo più di anno per un Daiquiri, spiegai che non mi ero più fatto vedere perché avevo rotto con la mia fidanzata di Erba. “Con le donne è sempre così”, rispose Gigio dandomi una pacca sulla spalla. E dopo avere dato una sorsata alla sua Ceres che beveva sempre dalla bottiglia, aggiunse: "Meglio il basket. La prossima settimana il Cantù gioca contro il Varese, ho i biglietti, ci vieni?" Chiaro segnale che le Ceres successive avrei dovuto pagarle io.

venerdì 15 novembre 2024

Decadenza

Sui social, confesso, vengo puntualmente calamitato da quei post che mio nonno avrebbe chiamato birichini. A pubblicarli sono giovani donne, basta una propria fotografia in pose che ne esaltino la bellezza, lasciando magari trapelare qualche dettaglio intimo: la linea di discrimine del seno, o abiti succinti a mostrare le gambe e quasi – ma non più di quasi – le mutande. Il pieno di like è assicurato.

Solo che io scorro sveltamente le immagini (si tratta perlopiù di selfie) e indugio sui commenti, come si può intuire sono in prevalenza maschili. La frase che più ricorre è sei sempre la mia preferita, a cui segue un cuoricino, di più, due cuoricini, tre cuoricini e altri amorevoli emoticon. Provo così a pensare a qualcuno che scrivesse invece: Sei la solita mignotta...

Ovviamente verrebbe bannato, lo farei immediatamente anch'io. Eppure i due commenti hanno identico contenuto, mignotta deriva dal francese mignot, con significato di favorita. Un esempio analogo lo possiamo fare con un politico, mettiamo Salvini. Nel talk show televisivo di turno qualcuno gli dà del leader alla guida di un team emotivamente coinvolto, e quello gongola soddisfatto. Oppure potrebbe dire che Salvini è un capoccia sostenuto da un manipolo di esaltati. La sostanza semantica è la medesima, ma cambia, come nel primo caso, la connotazione di valore, che discende unicamente da consuetudini d'uso.

Da ciò ricavo il sospetto che le lingue storiche, da denotative, tendono col tempo a diventare connotative, dunque sempre più discrezionali. E questa non è una buona notizia, ma chiaro segnale di decadenza della società che quella lingua riflette.

mercoledì 13 novembre 2024

Mi ricordo 20

 

Mi ricordo della risposta, ma prima c'è sempre una domanda. A pronunciarla fu la maestra Maccarone: "Corrado, cosa c'è nel deserto?"

Eravamo in terza o quarta elementare, nell’intervallo le femmine giocavano a elastico e, se ti andava bene, riuscivi a intravedere le mutande, mentre i maschi vantavano le virtù dei padri per metonimia, enumerando con enfasi i pregi delle loro auto; quale parametro definitivo si diceva la macchina del mio papà va a cento all’ora. Se aggiungo che Corrado di cognome fa Lapsus non ci crede più nessuno, ma a volte la realtà ci regala degli indizi.

"Nel deserto, giù in terra, dai... proprio come al mare, sulla spiaggia" lo incalzava la maestra Maccarone, con i compagni che provavano a suggerire sottovoce – la sabbia la sabbia –, e puntando l'indice alla bocca ripetevano nel linguaggio dei pesci rossi: "S-a-b-b-i-a."

Ma lui aveva occhi solo per le mani della maestra Maccarone, sapendo che svitare il thermos del caffè non era l'unico utilizzo. Di famiglia povera e collocazione alpina (era l'unico a non parlare della macchina del suo papà), Lapsus non era mai stato al mare, probabilmente neppure aveva visto una clessidra, o una draga immergersi nel fondo scuro dell'Adda, e continuava a fare scena muta.

La maestra Maccarone era quel genere di maestre di una volta, e il metodo Montessori, pensava, andava integrato con il metodo Muhammad Ali. "Corrado, non farmi arrabbiare, pazienza se sbagli, ma cribbio dì qualcosa, se non vuoi che ti arrivi questa in faccia", e spalancò la mano come nel simbolo della carta al gioco della morra cinese.

Così Lapsus, per timore forse di fare la fine del sasso, senza che nessuna forbice venisse in suo soccorso, dischiuse finalmente le labbra. E disse: "Le piastrelle."

Mi ricordo 19

Mi ricordo del busto esile e ritto di Giovanni, spunta appena dallo schienale della sedia, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano il loro posto e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni o della gonna e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto che ricorda i giudizi scolastici, un voto in pagella tra gli altri. Promosso! La maestra Maccarone, alito di caffè, ha sempre avuto uno spiccato senso del teatro, eredità forse della sua regione di provenienza.

Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il proscenio, e da ciò intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi nell'aula, sempre più intenso e penetrante. Farsi la cacca addosso è una brutta grana, anche se frequenti la seconda elementare.

Dall’altro versante della rappresentazione, la gioia feroce di essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli, le braccia alzate del pugile proclamato vincitore. Rido insieme agli altri, puzzone, puzzone smerdolone diciamo rivolti al colpevole, finalmente smascherato. La legge del branco non è meno implacabile per i cuccioli. Intanto, gli occhietti azzurri di Giovanni cominciano a inumidirsi, la massiccia montatura in celluloide degli occhiali è l’unico argine a sua difesa. E così continua a rimanere immobile, più simile alla fotografia che non al teatro o al cinematografo, in effetti. È un totem.

Una lava marroncina intacca la fissità dello scatto, la vediamo tutti e le risate si fanno ancora più forti, cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia, si diffonde sulle piastrelle sintetiche del pavimento. E insieme a quella cominciano a sgorgare dalle palpebre i primi goccioloni.

Ora il totem si è trasformato in vulcano, ma senza sonoro. Questo è Giovanni. Il suo talento è il disegno, è l'unico della classe che sa già disegnare un cavallo, all'intervallo mangia il panino col salame preparato dalla mamma, parla poco, sorride molto. Un vulcano da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

martedì 12 novembre 2024

Illusioni perdute

 

Non ho mai amato particolarmente la musica degli Wham, ma rivedendo il video di Last Christmas ho avuto un brivido. Certo, è tutto costruito attorno a una colossale bugia – non la simulazione eterosessuale di George Michael, intendo, qui abbracciato a una bella ragazza bruna, ma che la vita sia semplice e spensierata, amichevole come un'allegra combriccola giovanile sulle piste da sci, poi tutti in baita a festeggiare il Natale (Goffredo Fofi aggiungerebbe: chi glieli ha dati i soldi per lo skipass? e per lo champagne?) Eppure, negli anni Ottanta e in particolare nella leggerissima musica di questo video altrettanto leggero, si è riusciti nella difficile impresa di coniugare bugia con fantasia, la cui sintesi è quanto di più vicino al significato che Leopardi assegnava al termine illusione. E come abbiamo imparato malvolentieri sui banchi di scuola, mentre George Michael e le sue canzoncine disimpegnate ci chiamavano oltre i finestroni su via Mazzini, senza illusione la vita diventa davvero poca cosa. Diventa la disillusa vita che stiamo ora vivendo.

( https://youtu.be/E8gmARGvPlI?si=njv4aUGSSHeODkZE )

giovedì 7 novembre 2024

Acqua e acqua alla spina

Le recenti elezioni americane ricordano l'episodio di una commedia degli anni Settanta, altrimenti poco memorabile; e difatti ho scordato il titolo. Protagonista è Renato Pozzetto, dopo avere parcheggiato il suo motocarro entra in una trattoria chiamata Semivuota – oltre a lui, è presente un solo cliente – e chiede cosa è possibile avere per pranzo. "Minestrone" è la risposta dell’anziana e burbera proprietaria. "E poi?" "Minestrone, non hai sentito? Ma allora sei proprio un cretino."

Se non altro, sulle bevande si offrono due possibilità: acqua e acqua alla spina. Pozzetto opta per acqua alla spina, e gli viene servito un bicchiere di acqua del rubinetto in cui è immersa una spina elettrica.

L'episodio poi continua sugli stessi toni, umorismo surreale della prima maniera, quando Renato era ancora in coppia con Cochi e al Derby si rideva di gusto. Tutto ciò cosa c'entra con le elezioni americane? A me sembra che il menu politico, per entrambi i candidati, Trump e Harris, fosse minestrone. Nient'altro che minestrone. A cucinarlo sono la Costituzione, il Congresso, le lobby finanziarie e i contropoteri di bilanciamento politico particolarmente saldi nel Paese (il cosiddetto Deep State), ma soprattutto le strutture economiche sottostanti, altrimenti chiamate capitalismo.

Nemmeno il presidente degli Stati Uniti, insomma, può inventarsi un nuovo mondo, può quel che può e non è moltissimo. Ha però un piccolo margine di scelta rispetto alle bevande: ha la facoltà di scegliere tra acqua e acqua alla spina. Nella circostanza, quel minimo margine coincide con le politiche ambientali; a ben vedere, una delle poche variabili reali entro un impianto economicista. Ma sarà più chiaro con un esempio.

Se io impongo al mercato la produzione di soli veicoli elettrici e/o a idrogeno entro l'anno X (facciamo, come era stato inizialmente ipotizzato dalla Harris, il 2035), non procuro un danno all’industria automobilistica, offrendo ai gruppi in cui si concentrata condizioni paritarie per competere. Semplicemente, andrebbero a sostituire i profitti delle auto con motori a combustione con quelli derivati dalle auto dotate dei nuovi propulsori. L'economia di mercato funziona come gli sport: a calcio non si può toccare la palla con le mani, a basket l’opposto, ma una volta che tutti si uniformano alle regole il gioco può prendere avvio, e il mercato procede senza troppi scossoni.

L’elezione di Kamala Harris, che in campagna elettorale aveva riveduto e corretto al ribasso molte delle sue iniziali posizioni ecologiste, avrebbe comunque rappresentato la speranza di un cambiamento per l'ambiente, piccolo ma significativo. Mentre, con Trump, abbiamo la certezza di una sensibilità da betoniera per il cemento, e stiamo parlando di una delle nazioni più impattanti sul sistema mondo: nessuna speranza di contenere gli effetti nefasti dell'antropocene per i prossimi quattro anni, quando gli anni per un mutamento che ci renda compatibili al pianeta sono sempre meno; e lasciando provvisoriamente da parte tutto il resto, che pure inquieta nei suoi programmi.

Anche solo per tale ragione, sbaglia chi dice che tanto non sarebbe cambiato nulla. Acqua e acqua alla spina differiscono di poco. Ma differiscono.

venerdì 1 novembre 2024

Mi ricordo 18

Mi ricordo di una grande gondola nera su cui è posata una piccola bara bianca, le acque appena increspate la fanno oscillare alla maniera di una culla. Noi siamo stipati su un vaporetto che ricorda quelle barzellette sugli stereotipi nazionali. I giapponesi mitragliano con le loro Nikon gabbiani opachi abbarbicati sulle bricolle, gli americani indossano camicie a fiori e si ingozzano di Pocket Coffee, soprattutto le donne che hanno dita gonfie macchiate dal cioccolato, i francesi trovano sempre un motivo per alzare le spalle ed emettere una piccola scoreggina con le labbra, tutto è così dolcemente prevedibile, compreso ciò che ci attende su un’isola poco più estesa di uno scoglio. Qui soffiamo il vetro dice un uomo con un accento che fa un po’ ridere, possiamo ricavare qualsiasi forma aggiunge orgoglioso. Anche la forma di un bel cazzo? sussurra Mascarini. Per fortuna il professore di applicazioni tecniche non ha sentito, e nemmeno l’uomo con l’accento che fa un po’ ridere, il suono della voce ha raggiunto solo Tavelli, Orvieto e me, facendoci sghignazzare come quattro moschettieri in lotta contro la congiura dei noiosi. D’altronde è l’unica cosa che sappiamo disegnare sui banchi: cazzi, cazzi in ogni stile e dimensione, a volte aggiungiamo un fumetto senza inserire alcun testo, la bocca da cui esce è la fenditura del glande; dovrebbe rappresentare il fiotto del seme a fecondare mattinate che non passano mai, con l’unico miraggio della gita scolastica di fine corso. E finalmente eccoci arrivati, dopo cinque ore di pullman che sono riuscite a farmi odiare le canzoni di Lucio Battisti. Se ribalti la boccetta colma d’acqua cade la neve sul ponte di Rialto, sono i souvenir acquistati per ricompensare i nonni della loro busta, va' va', non spenderli tutti in sala giochi; ma Mascarini è riuscito a trafugare anche una bottiglia di Amaretto di Saronno, me la porge intimando: Bevi! Serve a trovare il coraggio per raggiungere la camera delle ragazze, Tavelli e Orvieto si trovavano già lì. È dalla prima media che mi prefiguro il momento, sono trascorsi tre anni in un fatidico soffio, la vita media di un criceto; passare la vita a sgambettare dentro una ruota che fa della finzione il suo movimento, non deve essere tanto meglio del disegnare cazzi su banchi di fòrmica verdina... Troppi pensieri, meglio attenersi a un copione provato mille volte nella palestra della mente, come fanno gli sciatori una volta varcato il cancelletto di partenza; tolgo le scarpe da basket e mi infilo vestito nel letto dell’Acquistapace, riproduzione in scala anagrafica ridotta di Maria Giovanna Elmi, la fatina bionda che negli anni Settanta annunciava i programmi su Rai1; nel letto accanto sento Tavelli sbaciucchiarsi con qualcuna, probabilmente si tratta di Beltrama, la ripetente, a Orvieto e Mascarini deve essere andata meno bene. Sono però troppo ubriaco per tentare un approccio, riesco chiederle soltanto: L'hai vista anche tu, oggi pomeriggio, una bara bianca ma piccola, probabilmente si trattava della bara di un bambino, stava su una gondola appena fuori da Canal Grande... o mi sono immaginato tutto, l'ho sognata? Non so cosa mi abbia risposto la fatina bionda della terza effe, il passaggio dalla Fanta all’Amaretto di Saronno è stato troppo brusco, il resto l’ha fatto la voce nascosta nella buca del suggeritore, ognuno ha il suo suggeritore e più passa il tempo e più si inventa le battute. E così continuo a ricordare, o a sognare, che forse è lo stesso, un'enorme gondola nera. Non ha mai smesso di ingoiare una minuscola bara bianca, specie durante le notti in cui ho la febbre e mi rigiro nel letto sudato e al buio e a tentoni cerco la Tachipirina sul comò.

giovedì 31 ottobre 2024

Mi ricordo 17

Mi ricordo di Maria Assunta, abitava sopra l’edicola delle due zitelle. Al ritorno da scuola, mio padre, sotto braccio la cartelletta che conteneva i temi degli alunni, si fermava a ritirare la sua copia del Corriere della Sera, mentre io ci andavo di sabato per acquistare le figurine dei calciatori. Cinque pacchetti.

Numero dispari e squilibrato, nessuna scaramanzia cabalistica o conta delle dita di una mano, piuttosto soglia delle mancette carpite alla nonna per accompagnarla in chiesa, dove al posto del Credo di Nicea recitavo sottovoce la formazione dell’Inter di Eugenio Bersellini.

Ormai non dovevo nemmeno più chiedere, come chi, intercettando lo sguardo del cameriere a cui inviare un cenno d’intesa, ottiene quale risposta un Bitter Campari; e così a me cinque pacchetti di figurine Panini, consegnate dalle mani talcate di una delle due zitelle. Sulla busta tricolore un uomo in braghette bianche e blusa rossa colpisce al volo il pallone in sforbiciata.

Le aprivo davanti al bar dei genitori di Claudio, a pochi metri dall’uscita dall’edicola, nella speranza di trovare la figurina di Pizzaballa, portiere di Verona, Milan e infine Atalanta, con cui avrei concluso l’albo.

Maria Assunta aveva due anni più di me e uno più di Claudio. La carnagione chiara. I capelli neri.

Dietro all'edicola c’era un piccolo giardino, al centro svettava un pino che raggiungeva il quinto piano del condominio accanto, dove abitava Claudio a un paio di rampe di scale dal suo bar. Il pino era stato colpito in due diverse occasioni da un fulmine, ma era sempre sopravvissuto.

Quando si intravedeva il lampo immediatamente seguito dal tuono, dalle abitazioni che danno sul cortile (la casetta anni Venti di Maria Assunta, il mio palazzo, completato alla fine degli anni Cinquanta, e quello più recente di Claudio) le persone si affacciavano alle finestre o uscivano in terrazza, guardandosi con un’apprensione complice.

Forse accadeva qualcosa di simile durante la guerra, i bombardieri americani sganciavano le bombe sulla ferrovia e i bambini salutavano i piloti saltellando tra i filari delle vigne, in un attivarsi del corpo che era allo stesso tempo festa e paura, meraviglia. Tanti anni dopo ho scoperto che la filosofia proviene dallo stesso miscuglio.

Claudio aveva una bicicletta simile alle moto di Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider. Era molto scomoda ma molto bella, sosteneva di averla vinta con i buoni del frappè.

Di solito prima si sperimenta una cosa e poi si impara la parola corrispondente, ma, con il frappè, per me è stato diverso. La mamma diceva che potevo fare merenda anche a casa e quelli al bar sono soldi buttati via.

Non ho trattenuto un’immagine precisa della mia bicicletta, solo il colore verde smunto. Tutta la memoria va alla bicicletta di Claudio: il manubrio alto e la posizione avanzata dei pedali, la ruota anteriore più piccola, lunga la sella. E poi era gialla come tutte le cose veloci.

Una sfera di gomma scura azionava la trombetta cromata. Il signor Pittino però non voleva che la suonassimo, quando faceva caldo – ma quando faceva freddo in cortile non si andava – imponeva un silenzio assoluto a tutela del suo riposino pomeridiano, che durava dalle 13.30 alle 18.

A volte io e Claudio ci scambiavamo le biciclette o giocavamo a tappi, fino a quando vedevano Maria Assunta comparire in giardino. Si sedeva su una poltrona di vimini posata accanto al grande pino, le fronde facevano ombra, offrivano un po’ di frescura; ma più che altro credo si mettesse lì per evitare ogni contatto con i raggi del sole.

Indossava abiti a fiori e sandali ricamati sulle fettuccine di pellame. Il parroco, a dottrina, chiamava quello stile hippy, e quando pronunciava il termine si avvertiva una punta di sarcasmo. Sotto il tessuto di cotone leggero si intravedevano gambe bianchissime.

Dopo aver scalciato lontano i sandali, strofinava i piedi su fili d’erba misti a terriccio. Un movimento che ricordava i gatti quando sono contenti o ricoprono con la sabbietta le feci.

Tra il cortile che univa i nostri palazzi e il giardino di Maria Assunta era presente un contrafforte di cemento. Partiva basso, un muretto al culmine della rampa d’accesso ai box, e poi arrivava a circa tre metri, sormontato da una rete di metallo arrugginita non più alta di un pony.

Dopo avere lasciato le biciclette appoggiate alla parete, io e Claudio lo percorrevamo poggiando solo la punta dei piedi, il petto rasente i fori della rete dove inserire le dita, cinque centimetri di larghezza era tutto lo spazio di cui disponevamo. Arrivati di fronte al pino scavalcavamo, se l’avessimo fatto prima saremmo finiti nell’orto di non so chi.

Mi piace credere che a Maria Assunta facesse piacere che rischiassimo l’osso del collo per andarla a trovare, se non altro non appariva seccata. In genere teneva tra le mani un libro o un fotoromanzo, al nostro arrivo lo lanciava vicino ai sandali, e ci sorrideva. Poi parlava di cose un po’ da grandi, e noi rispondevamo con cose da piccoli.

Una volta ci ha offerto dell’acqua fresca, l’ha versata da una caraffa di terracotta in bicchieri di plastica trasparente, dove ha aggiunto lo sciroppo di orzata. I due liquidi sembravano recalcitranti a unirsi, ma una volta acquisita confidenza, piano piano, si fondevano in una sostanza del colore delle sue gambe.

Nel giardino c’erano anche delle piantine di basilico, contendevano l’odore di quei pomeriggi assolati a tre cespugli di rose rosse e a un pruno defilato, su cui il cocker del Rag. Castoldi (sulla cassetta delle lettere stava scritto così, non so se avesse anche un nome di battesimo) andava a pisciare. Guai a mangiare le prugne perché le due zitelle si arrabbiavano, dicevano che l’albero era il loro.

Arrivato ottobre Maria Assunta smetteva di scendere in giardino, e anche io e Claudio smettevamo di arrampicarci per andarla a trovare. Toccava aspettare la fine di aprile dell’anno dopo. In compenso potevamo guardare la tivù, sempre che i compiti fossero terminati, alle 16 e 40 in punto iniziavano le schermaglie tra Zorro e il sergente Garcia.

Era il 1976, Peppino Di Capri aveva vinto il festival di Sanremo con Non lo faccio più, consegnandomi una diffidenza mai più svanita per giudici e giurie, quando era tanto più bella Sambariò di Drupi, classificata solo sesta. Recita il ritornello: "E il tuo vestito, buttalo via \ Io la mia noia, la butto via \ Sambari, sambari, sambari, sambariò..."

Poi fu il turno del 1977, di norma l'unico evento pubblico qui è la sfilata dei carri di Carnevale, ma all'improvviso le persone scendevano in piazza, le donne accostavano le mani a mimare una cosa che non capivo tremate, tremate, le streghe son tornate! –, e così nessuno prestò attenzione alla fine di Carosello. Ma fu con il 1978 e l'uscita della Fiat Ritmo che tutto cambiava per davvero.

Maria Assunta non si vedeva più in giardino. Nemmeno a maggio, a giugno. Le due zitelle, vedendomi smarrito nell’acquisto delle figurine, un sabato mi hanno rivelato che era andata ad abitare altrove. Quella ladra, hanno aggiunto. Ci mangiava sempre le prugne.

In autunno sono riprese le lezioni alle scuole medie Sassi di Sondrio, e mi sono accorto di una compagna di classe. Si chiamava Simona. Anche l’anno precedente eravamo andati a scuola assieme, nella sezione F, ma adesso era diverso. Prima non me ne accorgevo.

Rimaneva il problema di dare un nome a quella sensazione, più che nella testa stava dentro la pancia.

Provavo qualcosa di simile mentre mi arrampicavo per raggiungere Maria Assunta. Al suo apparire tra il basilico e le rose, sorvegliata dal pino e con la complicità del pruno, si faceva ancora più forte, quasi un crampo.

Eppure è la cronologia abituale: inizia la sensazione, a cui segue – può passare molto tempo – una sequenza ordinata di lettere. Amore, ad esempio, perché di questo si trattava. Il primo amore, per essere precisi. Mica come il frappè di cui continuavo a conoscere solamente il nome.

L’unica differenza è che non dovevo arrampicarmi su nessun contrafforte, fare l’equilibrista, scavalcare, graffiarmi, stare attento a non cadere. Per poi essere accolto nel giardino dove Maria Assunta ci attendeva sul suo trono di vimini.

Ritrovavo Simona tutte le mattine, entrava in classe sempre prima di me e stava già rivolta in direzione della lavagna. Una concentrazione quasi cocciuta, malgrado i suoi occhi azzurri da dodici diottrie, già pronta a offrire ai professori la soluzione di problemi non ancora formulati. C’è chi ci nasce primo della classe. Intanto, io guardavo lei come si guarda attoniti alla X.

Un giorno sono entrato nel bar dei genitori di Claudio, avevo messo da parte qualche spicciolo che non impiegavo più per le figurine; ora dalle zitelle andavo di giovedì per acquistare i fumetti di Zagor. Ho ordinato un frappè. A che gusto? Fragola.

È divertente vedere il ghiaccio sbattere contro le pareti del frullatore, anzi ascoltarlo, ta-ta-ta-ta, prima di cedere al latte e alla polvere rosa. Se ritagli i buoni che stanno stampati dietro la busta, puoi anche vincere una bicicletta. Quindi l’ho bevuto e ho pagato e sono uscito. Tutto qui?

Avevo finalmente imparato come ricomporre i nomi alle cose.

Se dicessi che pochi anni dopo ho letto il nome Maria Assunta su un manifesto funebre, Maria Assunta, 1964 – 1988, ti ricordano con affetto i cugini di Voghera, ora sei in cielo assieme al tuo papà, renderei il finale della storia un po’ patetico. Peggio se aggiungessi il commento delle due zitelle, mettevano sempre l’articolo determinativo: “La droga..." bisbiglia la prima. "È morta" completa la seconda mentre consegna la Gazzetta dello Sport al Rag. Castoldi, "è morta perché si faceva le punture con dentro la droga.”

Ma le cose sono andate a questo modo e non posso farci nulla, solo cercare una nuova storia, ce ne se sono tante in giro. Questa però è la mia storia e se non la racconto io rimarrà senza parole, nessuna traccia di un minimo giardino tra via Trento e via Parolo, a Sondrio. Conteneva due scalatori alla loro prima vetta, due streghe e naturalmente una principessa, dalle gambe del colore dell’orzata.

Nel frattempo Claudio aveva cambiato città, non ho più rivisto lui né la sua strana bicicletta. La figurina di Pizzaballa – ecco perché non la trovavo mai! – pare non fosse stata stampata. Simona si è laureata in Lettere con il massino dei voti, adesso è capo redattrice in una rivista dove spiegano i diversi tipi di orgasmo femminile e come superare la prova costume.

Solo il pino giganteggia ancora al suo posto, ogni tanto gli danno una sfoltita ai rami laterali, ma il signor Pittino non si lamenta più per il rumore della sega elettrica. Nel suo appartamento è subentrato il nuovo inquilino, somiglia un po’ a Dennis Hopper ma gli manca il chopper e il giaccone con le frange. Ha sostituito la targhetta Pittino con un cognome pieno di consonanti palatali. Prima le cose e poi le parole, la regola è rimasta immutata.

In ogni caso, qualcuno che si lamenta si trova sempre.

Al termine dell'estate qualche volta ancora mi ricordo di Maria Assunta, succede quando arrivano i primi temporali. Se avverto un fragore più forte, secco, di quelli che ti fanno esclamare che botta!, mi affaccio per controllare se il fulmine ha colpito la cima della pianta. Ma non vedo più spuntare altri occhi spalancati, in cui riflettermi e placare il mio spavento.

martedì 29 ottobre 2024

Tu dimmi un cuore ce l'hai?

Guardando la serie tv sugli 883, mi ronzava in testa una frase di Joseph Conrad: “Metti a nudo il tuo cuore, e la gente starà ad ascoltarti per quello – solo quello è interessante.”

In effetti, trovo la serie sulla coppia di musicisti pavesi interessante, di più: mi sta piacendo un sacco, complice forse l’abile regia di Sydney Sibilia. Ma poi c’è il cuore. Io, quel cuore lì, l’ho sentito pulsare negli stessi luoghi e tempi delle vicende raccontate; ho un anno in più di Max Pezzali e tra il 1987 e il 1989 mi trovavo a Pavia, dove frequentavo l’università.

In una sequenza del secondo episodio, si vede Mauro Repetto fare il barista al Bar Lux. Ma anche io andavo al Bar Lux! Mi ci portò per la prima volta il mio amico Vitto; nei giorni precedenti, all’ora dell’aperitivo, non lo si trovava mai. Dov'è Vitto? Boh. Intanto lui stava con un flute in mano e il gomito poggiato al bancone del Lux. Dagli un giorno, dagli un altro e non mutando mai di ordinazione, finché il barista, forse si trattava proprio di Repetto, gli chiede: “Le verso il solito?” Solo a quel punto Vitto mi aveva invitato nel suo nuovo bar. Voleva mostrarmi che lui era di casa, che aveva una casa, un solito da sorseggiare. Se non sbaglio si trattava di comune prosecco, e però convertito in stigma di appartenenza al Bar Lux.

La sensazione di avere una tana in cui rifugiarsi, un luogo che riconosci e dove sei riconosciuto, è chiaro segnale di possesso di un cuore, per quanto ancora piccolo piccolo, il cuore di un uccellino che fatica a spiccare il volo. Le canzoni degli 883 sono tutte così: mediamente bruttine, come è bruttino un passero appena uscito dal guscio. Eppure già vorrebbe diventare aquila, è ciò che accade anche ai nostri due passerotti pavesi, li vediamo prendere la rincorsa in motorino – rigorosamente sempre in due sulla sella lunga del Sì Piaggio – in attesa del balzo d'ali con cui raggiungere un indistinto nord sud ovest est, qualsiasi destinazione alternativa alla provincia va bene. Ma invece rimangono impigliati al nido (il loro Bar Lux si chiama Jolly Blue), che una volta abbandonato poi rimpiangono.

Una dialettica tra desiderio e nostalgia raccontata senza filtri e abbellimenti, solo cuore messo a nudo: non certo un cuore speciale, come non è speciale la musica degli 883. Ma sono proprio i limiti a renderli interessanti, aveva ragione Conrad, la gente rimane ad ascoltarti per questa imperfetta umanità. Recita il refrain di un’altra canzone del periodo: “Ma dimmi un cuore ce l'hai \ non hai capito che il mondo è fatto pure di noi…”

domenica 27 ottobre 2024

Venerati maestri

Provo una naturale ammirazione verso le persone che sanno tutto di un determinato argomento, ne sono come ipotecati. Mettiamo la letteratura, l'oggetto più frequentato nella bolla social a cui appartengo, e che di certo non disdegno. Ma dagli e dagli, questa ammirazione, dopo un po' che sento parlare sempre e solo di libri, si è trasformata in diffidenza, complice forse un pizzico di invidia; e come si sa l'invidia genera cattivi pensieri: non è che lo fanno perché hanno l'ennesimo corso di scrittura in partenza...

Mi è così tornato alla mente il solito Pasolini, il quale possedeva una cultura letteraria non minore. Eppure, i suoi interventi sull'argomento non erano tanto frequenti, perlopiù originati dalle accuse a lui rivolte dal Gruppo 63, a cui opponeva il suo essere "forza che viene dal passato". Sulle pagine del Corriere della Sera scriveva di aborto, di "capelloni", antropologia, arte, mito, linguistica, cinema, politica, calcio, economia, religione, studenti borghesi contro poliziotti proletari. Scriveva della vita, insomma, oltre a parlarne con i propri amici, che non si limitavano a una squisita cerchia intellettuale.

Con toni forse più vaghi e a volte naif, anche Battiato, quando intervistato sulla sua attività di musicistia, riusciva sempre a svicolare verso la tenebra luminosa della mistica, frequentava con caparbietà l'esoterismo, la fisica quantistica, lo sciamanesimo, perfino di poker e biliardo ne sapeva, e pare che di entrambi fosse un ottimo giocatore. Recita il testo di una sua canzone: "mi piaceva tutto della mia vita mortale, \ anche l'odore che davano gli asparagi all'urina."

Non è questione di essere enciclopedici, ma semplicemente curiosi. E questi venerati maestri social, più monotematici di Rocco Siffredi, mi pare abbiano perduto la capacità di sporgersi sul mondo con un filo d'erba in bocca, quel che passa passa. E poi va, come urina nel water.

venerdì 25 ottobre 2024

Mi ricordo 16

Mi ricordo l’ultima ora dell’ultimo caldissimo giorno di scuola dell’ultimo anno delle medie. La porta della classe terza effe dell'Istituto Francesco Sassi di Sondrio, non si aprì. Suonava la campanella ma la porta si ostinava a rimanere bloccata.

Agguantato il citofono, la professoressa di italiano, Lorenza Cozzini, chiama in segreteria, a loro volta chiamano il preside e arrivano tutti: segretari, bidelli, altri professori insieme al preside Puglia, petto in fuori e gessato grigio Lebole o Marzotto. Fanno capannello di fronte alla classe sigillata.

Come cavalli alla mossa del Palio di Siena – mancano ancora gli esami, ma le medie sono finite: FINITE! – da dentro possiamo solo udire le voci a cui il corridoio fa da cassa di risonanza, in un crescendo di concitazione che fa il paio con la nostra smania di aperto. C’è chi parla di pompieri, di polizia, qualcuno arriva a ipotizzare la necessità di un’ambulanza. Prende la parola il preside Puglia: "Chi è il più robusto della classe?" grida dopo avere dato due colpetti con il pugno alla porta, ottenendo immediato silenzio.

"Io, sono io" rispondo di getto, raggiungendo l'ingresso con un balzo. Intanto, controllo se sono riuscito a intercettare l’attenzione dell’Acquistapace, di norma riservata ai segni impressi sulla lavagna dagli insegnanti. "No, il più robusto è Tavelli" mi corregge la Cozzini, accompagnando la frase con un’occhiataccia che supplisce allo sguardo dell’Acquistapace, a vagare azzurrissimo oltre ai finestroni con vista sui castagneti delle Orobie. A-c-q-u-i-s-t-a-p-a-c-e, un cognome sillabato chissà quante volte prima di addormentarmi.

"Tavelli, te la senti di sfondare la porta?", riprende il preside con tono solenne. E da quel giorno penso che se John Wayne fosse nato in Italia avrebbe avuto quella voce lì, la voce del preside Puglia.

Tavelli, lo stesso Tavelli Ezio che ora fa il necroforo a Zurigo, sfondò la porta con una spallata, l’Acquistapace ne fu molto colpita e noi andammo finalmente a casa, aprendo la porta anche all’estate del 1980. Sulle spiagge i capezzoli delle donne non erano più un rebus da risolvere con l'immaginazione, e, mentre alla stazione di Bologna spalavano le marcerie, dai jukebox sgorgava la voce in falsetto di Alan Sorrenti (Non so che darei, per fermare il tempo, per averti al mio fianco…) e l’esordiente Gianni Togni si rivolgeva direttamente alla luna, insinuando l’idea che anche un mezzo brocco come lui potesse intercettare per un istante la bellezza.

Eppure, da quel giorno, si è fatta strada in me l’idea che esista una bellezza che nemmeno Gianni Togni ci potrà mai restituire, una bellezza che davvero si trova all'altro lato della luna, dove le cose stanno sonnacchiose (cazzi scarabocchiati sulla formica dei banchi e gomme americane appiccicate sotto la seduta della sedia, gesso bianco in sospensione, minuti che non passano mai quando si tratta di dare valore numerico a una X) e perciò perfette nel loro essere in potenza, fiori ancora in bocciolo.

Nessun piccolo passo per un uomo, nonostante le corse forsennate scandite dal fischietto di un professore di ginnastica con l’occhio destro di vetro, si trattava, in realtà, di una simulazione tra le altre, un tapis roulant che lasciava il mondo intonso e cosparso da una polverina fosforescente. Nessun balzo per l’umanità. E dunque quella porta, con buona pace del preside Puglia, avrebbe dovuto rimanere chiusa.

sabato 19 ottobre 2024

Mi ricordo 15


Mi ricordo di una Ford Taunus marrone metallizzato. La tinta rappresentava un optional cromatico ancora poco diffuso, veniva riservato alle auto di cilindrata superiore e sigla L, surrogato del lusso per un paese che cercava di dimenticare le ristrettezze della guerra. Nel frattempo le abitazioni avevano guadagnato il riscaldamento a radiatori, eppure la memoria porta con sé un brivido di freddo, il buio recalcitra nel cedere il testimone al nuovo giorno, e si precisa nelle mattine invernali che seguivano a un’intensa nevica notturna. Era solamente allora che i due palazzi affiancati, civico 8 e civico 10 di via Parolo, si popolavano di sguardi dalle finestre spalancate e dai balconi, tutti puntati al cortile ricoperto da un velo bianco e soffice e intonso. Chi stava lavando i denti si affrettava, e raggiungeva gli altri dopo avere indossato un indumento pesante. Prima o poi si sapeva che, alla guida della sua Ford Taunus marrone metallizzato, sarebbe comparso il signor Pittino.

Il signor Pittino era il padre di un mio amico, il Pittino: tanto lungo e secco lui quanto espanso il genitore, ne sembrava la radiografia. Il signor Pittino aveva anche una figlia (capelli a caschetto e forme già da donna, i tre o quattro anni più di noi rendevano il desiderio a senso unico: il nostro), per indicarla bastava sottrarre il titolo di cortesia riservato al padre e mutare di genere l'articolo determinativo del fratello, e infine una moglie che si risolveva in quel vincolo benedetto dal parroco, o in alternativa nella funzione di madre, madre dei Pittino. Nessuno ha mai conosciuto i loro nomi di battesimo.

Ecco, arriva! Qualcuno giurava di aver sentito rombare un motore nei garage. Il più delle volte si trattava di un'anticipazione illusoria, ma l’attesa, potevi scommetterci, veniva sempre ripagata dall’apparire del frontale squadrato della Taunus. Alla guida un omone serissimo, quasi corrucciato, che tentava di risalire le due rampe che separano dal cancello d'entrata, condiviso dagli edifici. Parallelepipedi un po’ anonimi, funzionali li si definiva per nobilitarli, sbocciati da un giorno con l’altro attraverso l’impollinazione del boom economico, e abitati da quella piccola borghesia per cui la parola futuro possedeva ancora un senso.

Due rampe, due rampe... due rampe solamente, si ripeteva il signor Pittino per caricarsi. Un'operazione semplice montando delle normalissime catene, soluzione adottata dai più. Oppure si poteva confidare nei condòmini più laboriosi e altruisti, i quali a metà mattinata scendevano a spalare la neve, poi spargendo il sale in grani. Un gesto identico alla semina, di cui rappresenta il corrispettivo mutato di segno: generare la vita e cancellarne la possibilità, curiosamente la stessa figura. Una figura da cui veniva esonerato il signor Pittino, che forse considerava entrambi i gesti poco virili, le cose si ottengono in un agone senza dilazioni e strategie, muso a muso con gli intralci del fato. Uomo asburgico, dai baffetti rossicci e il riporto dello stesso colore, parlare non era il suo forte. Iniziava così lo spettacolo.

Arrivato a metà della prima rampa o, nei tentativi più fortunati, alla seconda o perfino al culmine, il veicolo cominciava a scivolare indietro piano piano, l'effetto di una pellicola cinematografica a cui venga invertita la rotazione delle bobine. Si diffondevano allora mormorii di disappunto, ma i più cinici non nascondevano un sorrisetto divertito. "Dai Pittino, la prossima volta ce la fai!" gli urlava il ragionier Flematti sporgendosi pericolosamente, e lui ripartiva sempre più paonazzo in viso.

Non ricordo se sia mai riuscito nell'impresa, solo il tentativo, lo sforzo, la mosca che rimbalza sul vetro. Per quello che ne so, potrebbe essere ancora lì. A un certo punto bisognava rientrare in casa, c’era il latte tiepido nella tazza, una cucchiaiata di Nesquik e qualche biscotto da ingurgitare in fretta, la cartella già pronta accanto alla porta d'ingresso. Intanto, la radio comunicava che era scoppiata una bomba da qualche parte lontana, confusa, magari avevi capito male. Una sensazione simile allo schermo granuloso del televisore prima dell'inizio delle trasmissioni, all’improvviso compariva l'immagine di reti da pesca che calavano in un cielo grigio solcato da soffici cirri, accompagnata dalle note dell’overture del Guglielmo Tell di Rossini. Ma la vita vera era quel cortiletto imbiancato, come lo zucchero a velo sul pandoro.

Mi ricordo 14

Mi ricordo che al termine della messa la nonna mi acquistava Il Giornalino, si chiamava proprio così, con l’articolo determinativo: un foglio a fumetti nel quale erano comprese le strisce di Lucky Luke, un cowboy gavello con un cappellaccio bianco, la sigaretta perennemente in bocca di sguincio, talvolta sostituita da un filo d'erba. Il Giornalino veniva venduto all’interno della chiesa confidando nell’onestà dei parrocchiani, potevano prenderlo autonomamente da una bacheca sistemata in prossimità dell'ingresso (nel mio caso dell'uscita) dove era disposto accanto a Famiglia Cristiana e alla biografia di san Rocco, bastava infilare l'importo indicato nella fessura delle offerte. La messa la trovavo naturalmente noiosissima, ma il piacere della lettura di Lucky Luke compensava ampiamente i tre quarti d’ora della sua durata, la benedizione di don Saverio era il campanello che mi ridestava dal torpore, anticipandone la fine. Da allora trovo la parola benedizione bellissima. Non la benedizione dei soldati prima di andare in guerra, quella non è una benedizione ma una maledizione, e cioè un dire male la lingua del sacro, ma la benedizione verso ogni cosa che si conclude: un amore, un fallimento in qualsiasi campo, pazienza, è andata come è andata, ma se lo benedico può aprirsi una pagina nuova, su cui è impresso il corpo dinoccolato di Lucky Luke. Diversamente – ma questo l’ho imparato molti anni dopo, all’università – divento preda di ciò che Nietzsche chiamava malattia delle catene, dove il rimpianto o, peggio, il rancore vanno a costituire il più tenace dei lucchetti, fino ad arrivare all’odio che è una forma di legame tanto più forte dell’amore. Io mi figuro l'odio come una messa infinta, incubo di ogni bambino degno di questo nome. Mentre la benedizione è la festa del chi si è visto si visto, andiamo oltre, andiamo in pace. La messa è finita.

mercoledì 16 ottobre 2024

Mi ricordo 13

Mi ricordo l’emozione che accompagnava l’acquisto di ogni nuovo elettrodomestico. Li si andava a prendere in un negozietto dove il proprietario sembrava molto amico dei miei genitori, solo in seguito compresi che sembrava molto amico di tutti i genitori. Anche la lavatrice, o il frigorifero, erano motivo di un piacere contagioso, si diffondeva a partire dalla lettura commentata del libretto delle istruzioni, ma erano le primizie tecnologiche a produrre un vero e proprio stato di euforia; nel nostro caso si trattò dello spremi agrumi elettrico che chiamavamo arancia meccanica, e quando seppi del film pensai ci avessero copiato il titolo. Arrivò poi il momento di sostituire il vecchio televisore Telefunken con qualcosa che non impiegasse cinque minuti per accendersi – “A colori?” chiesi speranzoso. “Non esageriamo”, mi fu risposto. Ma dopo che l’amico di tutti i genitori ci mostrò numerosi modelli in bianco e nero, si optò, effettivamente, per un televisore a colori Grundig, sul suo schermo da 24 pollici la prateria in cui galoppavano i cavalli di Bonanza era davvero verde, e blu gli occhi di Carole André nel ruolo della Perla di Labuan. Dove le pratiche di consumo lievitavano in sentimento era però l’acquisto di una nuova automobile; e per nuova intendo proprio nuova: con le auto usate il sentimento risultava attenuato, come i tamburi di gomma su cui i batteristi eseguono gli esercizi per non fare incazzare i vicini. E così venne il giorno in cui la concessionaria comunicò che era finalmente arrivata la 500 per la mamma, adesso poteva andare a scuola senza pagare la benzina alle altre maestre, avrebbero fatto a turno per raggiungere Buglio in Monte, un paesino a diciotto chilometri da Sondrio. Andammo a ritirarla io e papà. Ora se c’è una cosa che caratterizza le automobili nuove è che sono identiche, una vale l'altra. E invece no. All’interno dell’autorimessa erano parcheggiate una decina di Fiat 500, tre erano bianche e del modello Super, che differiva dalla versione base per una carenatura tubolare applicata ai paraurti, altre differenze non mi sembra fossero presenti. Quando in quell'indistinguibile terzetto il venditore ne indicò una, scattò la stessa sensazione di riconoscimento che avviene con i cuccioli dei cani: anche loro, appena nati, sembrano tutti uguali, eppure nel momento in cui l’allevatore prende in braccio quello a cui infagotterai le merdine in un sacchetto nero ogni volta che lo porti ai giardinetti, giureresti di conoscerlo da sempre. E fu con uguale stato d’animo che strappai la plastica trasparente con la quale erano ricoperti i sedili anteriori, un inutile diaframma tra il nostro culo e la nostra auto, NOSTRA, potere degli aggettivi possessivi, mentre si diffondeva all’interno dell’abitacolo l’odore rilasciato dagli oggetti nuovi per sedurre, un trucco simile ai castori grazie a certe ghiandoline ricercate dai profumieri. Nel viaggio di ritorno prestavo attenzione solo alle altre 500, guarda dicevo ogni volta che ne incrociavamo una, anche loro hanno una 500, e mi sembrava un segno di appartenenza, la tacita complicità di una confraternita segreta. Raggiunta casa il papà parcheggiò in una posizione in cui l’auto potesse essere vista dal balcone, non so se per controllarla meglio o per mostrarla subito alla mamma; inutile aggiungere che io la intesi a questo modo, e varcata la soglia strillai: “È di sotto, è di sotto!” La mamma interruppe di cucinare e si unì a noi, eravamo appoggiati alla ringhiera e guardavamo giù, dal quarto piano fissavamo l'automobile di cui avevamo parlato a lungo nei mesi precedenti – "Non possiamo permettercela" obiettava la mamma, "ma se ci aiuta il nonno..." , discusso a pranzo e cena in particolare sulla tinta, infine scelto e ordinato dopo avere firmato un sacco di scartoffie, e forse ciò che scorgevamo dal balcone era l'intera famiglia riflessa in quella sagoma ricurva e opalescente, solo un riquadro nero al centro che in estate diventava cielo. Ora che ci ripenso, non trovo altre ragioni per usare il termine famiglia riferito a tre persone così diverse e non di rado ostili, se non la comune appartenenza al tempo in cui le cose non erano solo le cose, ma forma surrogata della vita.