Mi ricordo che compresi quasi subito la prima regola,
come in tutte le attività si trattava di specializzarsi. Da qui la premessa per
crearsi una professionalità. La mia specialità, che faceva di me un
chierichetto altamente professionale, era porgere le ampolle con l’acqua e il
vino al momento della consacrazione eucaristica. Le mani dovevano essere ferme
e sicure, se qualcosa finiva in terra lo show era bello che rovinato, non si
poteva girare una seconda scena come a cinema, o era buona la prima o don Remigio
ti guardava storto, con tutto quello che ne seguiva... Era successo a un
ragazzino con gli occhi cisposi a cui scendeva sempre il moccio dal naso. Aveva
inciampato nello scendere i gradini del presbiterio per tendere la tovaglietta
al momento della comunione dei fedeli, e da quella volta non si era più visto.
All’oratorio, comunque, veniva ancora, non era stato fatto uccidere e poi
disciolto nell’acido.
Per fortuna don Remigio non si era mai lagnato della
mia professionalità – e ci mancherebbe pure, per giorni avevo fatto le prove a
casa con le bottigliette dell'olio e dell'aceto –, e il talare nero sopra a cui
indossavo la cotta bianca mi stavano una cicca! Peccato che mia nonna non fosse
mai venuta a vedermi nella chiesa grande, tutti la chiamavano così, di fatto si
trattava della Collegiata dedicata ai Santi Gervasio e Protasio. A lei
risultava più comodo andare in un’orrenda chiesetta modernista a Montagna
Piano, più vicina alla fattoria dove abitava con il nonno. Sono certo che la
nonna Maria sarebbe stata orgogliosa di me: il nipote chierichetto vale più di
otto vasi di gerani al balcone, perfino più di una mucca bruna alpina che
produce trentacinque litri di latte.
Ciononostante occupavo la base dell'organigramma ecclesiastico, mi
venivano concesse solamente funzioni minori. Un chierichetto poteva dirsi
realizzato nel servire la messa della domenica mattina alle undici. Una
circostanza in cui le panche erano occupate in ogni fila, anche le seggioline
poste a ridosso delle cappelle con le scene dei santi, pieni gli stalli del
coro dietro l’abside, tutto esaurito nello spettacolo con più repliche al
mondo, e un sacco di persone in piedi. Si trattava perlopiù di maschi adulti
accalcati vicino all’acquasantiera in marmo, così da potere uscire di tanto in
tanto a fumarsi un MS, mentre le mogli si inginocchiavano per meglio gustare il
corpo di Cristo.
A me il corpo di Cristo non sembrava questa gran
prelibatezza, preferivo i bignè di Ortelli. Qualcuno li acquistava prima dei
canti iniziali, varcavano il portale con in mano il cabaret avvolto da una
carta marrone; in tal modo, al termine, non rischiavano di trovare la
vetrinetta sprovvista del dolce che aveva fatto la fortuna della pasticceria.
La proprietaria assomigliava in modo incredibile a Moira Orfei, credo lei lo
sapesse e facesse di tutto per alimentare la cosa – trucco marcato,
specialmente a lato degli occhi, capelli neri raccolti in una crocchia centrale
– anticipando il fenomeno dei cosplay.
In chiesa la gente poi non sapeva dove mettere le
paste, le posavano sulle ginocchia mentre tenevano le mani giunte, una
sovrapposizione tra sacro e profano che era bella da vedere: l'incenso
fuoriesce dal turibolo e la crema pasticcera preme sulle pareti sottili della
pasta choux. La costrizione avrebbe avuto termine solamente a fine pranzo,
quando si scartava l'involucro e ci si sedeva sul divano a guardare il Gran
Premio di Formula 1. Le palpebre calavano piano piano con in bocca il sapore di
bignè.
Intanto, la mia carriera languiva. Ok, venivo
convocato anche per i funerali, ma non mi piaceva l’atmosfera: tutti avevano la
faccia lunga e zero complimenti per me, possibile che nessuno si accorgesse
della professionalità con cui porgevo le ampolle? La ragione non mi sfuggiva,
quello era il gran giorno per chi giaceva dentro la bara posta al centro della
navata centrale, era lui, o lei, a essere protagonista. Razionale, ma comunque
ingiusto. Alla fine ciò che si offriva agli occhi umidi era solo un parallelepipedo
di legno di rovere o noce, per il direttore di una banca si scelse un ebano
scuro di grande effetto, ma perlopiù si trattava di larice, abete e pino; le
vecchie vedove mettevano da parte i soldi della pensione per l'acquisto
definitivo, così da non gravare sul bilancio dei figli. E tra un morto e una
messa serale, sempre e solo messe serali, dall'armadio la mamma aveva tirato fuori gli abiti primaverili.
Venni convocato da don Remigio per la benedizione
pasquale degli appartamenti, e lì mi parve di avere finalmente svoltato. Quando
suonavo il campanello, la croce issata come il pilota che aveva vinto il Gran
Premio faceva con la coppa, le persone ci accoglievano con un sorriso, e prima
di andare mi allungavano una caramella Rossana, un cioccolatino Lindt, una
qualsiasi cosa accompagnata da una carezza sul collo. Arrivati all’appartamento
di un professore, non ricordo la sua specializzazione, sulla targhetta stava
scritto solo professor Tal dei Tali, si aprì uno spiraglio tra porta e infisso.
Non mi interessa sibilò una voce da dentro, sono ateo. E sbang, richiuse
bruscamente, lasciando sul pianerottolo un vago sentore di cane bagnato. Poveri
Testimoni di Geova, pensai.
Nel mio caso fu un episodio isolato, anche la
benedizione degli appartamenti intendo. Restavo un chierichetto di seconda
categoria, la scalata ai vertici vaticani si era arenata – cosa c’era che non
andava in me? Eppure ero professionale anche negli orari, mi presentavo sempre
con un’ora di anticipo, nel timore che altri aspiranti chierichetti venissero
per farmi le scarpe. Una volta introdotto in sacrestia mi rivestivo con cura, è
inutile che spieghi l’odore che aveva la sacrestia della chiesa grande, tutte
le sacrestie hanno quell’odore lì, la gente giustamente lo chiama odore di
sacrestia.
Credo di non averci più messo piede dopo avere trovato
un giornaletto in un prato, ero con Federico e stavamo facendo una scorciatoia
per tornare da scuola. Grattando le pagine appiccicaticce e terrose, comparve
l’immagine di quattro uomini: uno aveva un drago tatuato sul petto e avevano
appena fatto una specie di pipì bianca dentro la bocca di una donna
grassottella; lo si vedeva bene che era grassottella perché era svestita, ci
fissava con due occhietti simpatici e furbi. Federico mi aveva rivelato che non
si trattava di pipì ma si chiama sburra, come il burro ma con la esse di Silvan
davanti. Suo cugino, due soli anni più di noi, già sburrava alla grande.
Uno dei quattro, non quello con il drago che sputava
fuoco, portava le basette lunghe e anche il coso pareva un candelabro, almeno
se confrontato ai lumini che tenevamo io Federico. Particolare che avrebbe
dovuto aiutarlo a essere più preciso, come avviene con i fucili rispetto alle
pistole. Invece aveva sbagliato mira, il liquido vischioso era finito sui
capelli biondi, mossi, da cui colava sul volto paffuto; ma secondo me i capelli
erano tinti, e lei si era messa i bigodini per meglio figurare. Anche per farsi
sburrare in bocca è necessaria professionalità, e l’uomo che aveva mancato la
mira ne aveva mostrata pochina. Se fossi stato l’editore del giornaletto col
cavolo che lo richiamavo per un nuovo servizio, avevo imparato la lezione di
don Remigio. Lo mandavo a colare altrove la cera del suo lungo candelabro.
Quanto alla mie competenze professionali, mi furono
utili in seguito per versare il vino a tavola, ci penso io dico ancora adesso
se viene stappa una bottiglia, quando uno sa fare bene qualcosa è giusto che la
faccia, ma non ho più rimesso piede in sacrestia. Con Federico avevamo trovato
il giornaletto più interessante, molto più interessante. Ci immaginavamo che se
centravi la bocca il fotografo ti diceva bravo, mentre a noi non diceva bravo
nessuno, tutto quell'impegno per imparare una professione nel campo dello
spettacolo, e nemmeno la nonna veniva ad applaudirti.
Ho dimenticato di dire che anche Federico faceva il chierichetto, non ricordo quale fosse la specializzazione, ma potrei mettere la mano sul fuoco sulla sua professionalità. Due minimi professionisti a cui non è mai stata data l’occasione di esibirsi alla messa della domenica mattina, secondo me c’era sotto un giro di raccomandazioni, per non dire di peggio. Magari avremmo proseguito nella carriera, ci saremmo iscritti in seminario, diventati preti, cardinali, persino papi… Perché mettere dei limiti allo Spirito Santo?