Mi ricordo di una Citroen Dyane con le sue sospensioni di panna montata che ammortizzavano ogni buca, ma
bisogna arrivarci per gradi. La mamma e il papà erano entrambi maestri
elementari, li immagino adocchiarsi – prima e più sfacciato il maschio, quindi
la ragazza ne ricambia maliziosa lo sguardo – nei corridoi a volta
dell’Istituto Magistrale di Sondrio, la vecchia sede sprovvista dei mosaici
astratti di Emilio Tadini. Siamo nella prima metà degli anni Cinquanta, le
gonne scampanate e i maglioncini a vi dai colori discreti, grigio o beige
perlopiù, i più vezzosi indossano cappotti con gli alamari al posto dei
bottoni. Lui proveniva da Milano dove era stato in classe con un jazzista poi
divenuto famoso, quando venne in tournée a Sondrio lo accompagnai al concerto,
al termine ci fece una dedica sulla copertina dell'ultimo disco: "Al mio
compagno... come ti chiami già? Ah, sì, Francesco, al mio compagno Francesco e
a suo figlio Guido." Una dedica che papà si rigirava tra le mani, ma non
ascoltava mai il disco; gli era sufficiente parlarne con quella punta di
orgoglio di chi ha sfiorato il mantello di un santo, e, per metonimia, ne
riflette la virtù. Al contrario, svicolava sul proprio rendimento scolastico,
non si capisce se e quante volte fosse stato bocciato. Poi si era messo di
buzzo buono e iscritto al concorso per diventare direttore didattico, era già
sposato e con un figlio che sarebbe rimasto unico; quale surrogato di un
fratellino mi era stato donato il Big Jim. In televisione davano lo
sceneggiato su Sandokan con Philippe Leroy e Kabir Bedi e, soprattutto, Carole
André, di cui mi innamorai immediatamente. Credo abbia contribuito il realismo
dello schermo a colori dell'apparecchio Grundig: TEDESCO aveva sottolineato il
venditore con il tono di papà quando parlava del compagno jazzista; finalmente
l’agognata televisione a colori, nel condominio già la possedeva solo la
famiglia Ciccozzi. Con le gemelle Kessler, in bianco e nero, non era scoccata
la stessa scintilla, eppure anche loro erano tedesche. Visto l'immediato
successo della serie, la Panini realizzò l’album delle figurine che io cercavo
di completare, ma procedevo a rilento dividendo le mancette dei nonni con le
figurine dei calciatori. Quando il papà era tornato da Roma dove aveva dato
l’esame di Stato ("È andato tutto bene!" gridava al telefono alla
mamma per sovrastare il trambusto della stazione Termini, poi erano finiti e
gettoni e non avevo fatto a tempo a salutarlo) trovai una cinquantina di
pacchetti sparsi sulle piastrelle in graniglia del nostro appartamento: metà
appartenevano a Sandokan, l'altra metà ai calciatori. Io le raccoglievo a
carponi, e a ogni nuovo ritrovamento seguivo la pista come un cercatore del
Klondike; dopo anni di vane ricerche aveva finalmente trovato il filone giusto.
La mamma invece continuava a insegnare, terminata la stagione delle supplenze
in paesini abbarbicati sulle vette, aveva trovato anche lei il filone giusto,
la cornucopia del ruolo fisso. Le fu assegnata la sede di Buglio in Monte, 577
metri di altitudine, sul versante retico, in auto quaranta minuti di viaggio
con la sua Fiat 500 Super; rispetto al modello standard aveva solo i parafanghi
più ampi, cromati. Ma altre volte veniva una sua collega a prenderla, la Titta,
ed eccoci finalmente arrivati alla sua Dyane dalla carrozzeria dorata,
ricordava i carri di carnevale da cui lanciano i coriandoli e fanno le scoregge
sedendosi su un cuscino gonfiabile. Condividevano il viaggio così da
risparmiare sulla benzina e fare qualche pettegolezzo lungo la strada, anche il
termos con il caffè veniva preparato a turno. Un giorno le accompagnai, non
ricordo se fu con la 500 o la Dyane della Titta, solo che era in programma una
gita a un vecchio mulino del luogo, mia madre voleva assolutamente che lo
vedessi. Un autentico spirito da maestra presente tanto alla cattedra quanto
nelle faccende private, persino adesso che ha ottantasette anni pedagogizza le
amiche con cui si ritrova tutte le mattine al bar Meetic; loro annuiscono anche
quando le pile dell'Amplifon sono scariche, avendo forse intuito che basta poco
per farla contenta. Gli alunni della mamma avevano la mia età, si trattava
di una quarta elementare, mentre quelli della Titta frequentavano la quinta, ma
legai con i maschi di entrambe le scolaresche quasi subito, dopo una prima
naturale diffidenza nei miei confronti; ero pur sempre il signorino venuto
dalla città, il figlio della maestra. Non ci fu invece verso di approcciare le
bambine, anche se ce n’era una che mi piaceva molto; aveva una treccia che
raccoglieva i lunghi capelli allo stesso modo di Carole André, sigillata da un
fiocco in tinta con la Dyane della Titta. Durante il tragitto a piedi dalla
scuola al mulino mi ero preparato qualche frase da rivolgerle: Ciao, preferisci
Sandokan o Zorro? Ce l’hai la Barbie? Io ho il Big Jim che sferra un colpo di
karate se pigio con un dito sulla schiena. Vuoi sposarmi? Ma alla fine non le
dissi nulla, e poi a chi, confondo il suo viso con i lineamenti generici e
minuti dell'infanzia, non so quale nome avesse (Roberta e Patrizia andavano
sempre per la maggiore, ma iniziavano a comparire le prime Deborah), men che
meno se i suoi occhi fossero azzurri come quelli di Carole André, o magari
portava gli occhiali con una pecetta a coprire una lente, serviva a stimolare
l’occhio pigro di cui si era verificata un'epidemia tra i bambini degli anni
Settanta, ogni classe prevedeva come minimo un Moshe Dayan. Mi limitai a
camminare per tutto il tempo alle sue spalle, lo sguardo fisso alla lunga
treccia che oscillava a ogni passo, partivo dalla testa e poi scendevo giù,
sempre più giù seguendo i fili dei capelli che si intrecciavano, confondevano
restituendomi un leggero capogiro, fino allo strangolamento del fiocco del
colore scintillante dell’oro.