lunedì 1 settembre 2025

Professionalità (mi ricordo 48)

Mi ricordo che compresi quasi subito la prima regola, come in tutte le attività si trattava di specializzarsi. Da qui la premessa per crearsi una professionalità. La mia specialità, che faceva di me un chierichetto altamente professionale, era porgere le ampolle con l’acqua e il vino al momento della consacrazione eucaristica. Le mani dovevano essere ferme e sicure, se qualcosa finiva in terra lo show era bello che rovinato, non si poteva girare una seconda scena come a cinema, o era buona la prima o don Remigio ti guardava storto, con tutto quello che ne seguiva... Era successo a un ragazzino con gli occhi cisposi a cui scendeva sempre il moccio dal naso. Aveva inciampato nello scendere i gradini del presbiterio per tendere la tovaglietta al momento della comunione dei fedeli, e da quella volta non si era più visto. All’oratorio, comunque, veniva ancora, non era stato fatto uccidere e poi disciolto nell’acido.

Per fortuna don Remigio non si era mai lagnato della mia professionalità – e ci mancherebbe pure, per giorni avevo fatto le prove a casa con le bottigliette dell'olio e dell'aceto –, e il talare nero sopra a cui indossavo la cotta bianca mi stavano una cicca! Peccato che mia nonna non fosse mai venuta a vedermi nella chiesa grande, tutti la chiamavano così, di fatto si trattava della Collegiata dedicata ai Santi Gervasio e Protasio. A lei risultava più comodo andare in un’orrenda chiesetta modernista a Montagna Piano, più vicina alla fattoria dove abitava con il nonno. Sono certo che la nonna Maria sarebbe stata orgogliosa di me: il nipote chierichetto vale più di otto vasi di gerani al balcone, perfino più di una mucca bruna alpina che produce trentacinque litri di latte.

Ciononostante occupavo la base dell'organigramma ecclesiastico, mi venivano concesse solamente funzioni minori. Un chierichetto poteva dirsi realizzato nel servire la messa della domenica mattina alle undici. Una circostanza in cui le panche erano occupate in ogni fila, anche le seggioline poste a ridosso delle cappelle con le scene dei santi, pieni gli stalli del coro dietro l’abside, tutto esaurito nello spettacolo con più repliche al mondo, e un sacco di persone in piedi. Si trattava perlopiù di maschi adulti accalcati vicino all’acquasantiera in marmo, così da potere uscire di tanto in tanto a fumarsi un MS, mentre le mogli si inginocchiavano per meglio gustare il corpo di Cristo.

A me il corpo di Cristo non sembrava questa gran prelibatezza, preferivo i bignè di Ortelli. Qualcuno li acquistava prima dei canti iniziali, varcavano il portale con in mano il cabaret avvolto da una carta marrone; in tal modo, al termine, non rischiavano di trovare la vetrinetta sprovvista del dolce che aveva fatto la fortuna della pasticceria. La proprietaria assomigliava in modo incredibile a Moira Orfei, credo lei lo sapesse e facesse di tutto per alimentare la cosa – trucco marcato, specialmente a lato degli occhi, capelli neri raccolti in una crocchia centrale – anticipando il fenomeno dei cosplay.

In chiesa la gente poi non sapeva dove mettere le paste, le posavano sulle ginocchia mentre tenevano le mani giunte, una sovrapposizione tra sacro e profano che era bella da vedere: l'incenso fuoriesce dal turibolo e la crema pasticcera preme sulle pareti sottili della pasta choux. La costrizione avrebbe avuto termine solamente a fine pranzo, quando si scartava l'involucro e ci si sedeva sul divano a guardare il Gran Premio di Formula 1. Le palpebre calavano piano piano con in bocca il sapore di bignè.

Intanto, la mia carriera languiva. Ok, venivo convocato anche per i funerali, ma non mi piaceva l’atmosfera: tutti avevano la faccia lunga e zero complimenti per me, possibile che nessuno si accorgesse della professionalità con cui porgevo le ampolle? La ragione non mi sfuggiva, quello era il gran giorno per chi giaceva dentro la bara posta al centro della navata centrale, era lui, o lei, a essere protagonista. Razionale, ma comunque ingiusto. Alla fine ciò che si offriva agli occhi umidi era solo un parallelepipedo di legno di rovere o noce, per il direttore di una banca si scelse un ebano scuro di grande effetto, ma perlopiù si trattava di larice, abete e pino; le vecchie vedove mettevano da parte i soldi della pensione per l'acquisto definitivo, così da non gravare sul bilancio dei figli. E tra un morto e una messa serale, sempre e solo messe serali, dall'armadio la mamma aveva tirato fuori gli abiti primaverili.

Venni convocato da don Remigio per la benedizione pasquale degli appartamenti, e lì mi parve di avere finalmente svoltato. Quando suonavo il campanello, la croce issata come il pilota che aveva vinto il Gran Premio faceva con la coppa, le persone ci accoglievano con un sorriso, e prima di andare mi allungavano una caramella Rossana, un cioccolatino Lindt, una qualsiasi cosa accompagnata da una carezza sul collo. Arrivati all’appartamento di un professore, non ricordo la sua specializzazione, sulla targhetta stava scritto solo professor Tal dei Tali, si aprì uno spiraglio tra porta e infisso. Non mi interessa sibilò una voce da dentro, sono ateo. E sbang, richiuse bruscamente, lasciando sul pianerottolo un vago sentore di cane bagnato. Poveri Testimoni di Geova, pensai.

Nel mio caso fu un episodio isolato, anche la benedizione degli appartamenti intendo. Restavo un chierichetto di seconda categoria, la scalata ai vertici vaticani si era arenata – cosa c’era che non andava in me? Eppure ero professionale anche negli orari, mi presentavo sempre con un’ora di anticipo, nel timore che altri aspiranti chierichetti venissero per farmi le scarpe. Una volta introdotto in sacrestia mi rivestivo con cura, è inutile che spieghi l’odore che aveva la sacrestia della chiesa grande, tutte le sacrestie hanno quell’odore lì, la gente giustamente lo chiama odore di sacrestia.

Credo di non averci più messo piede dopo avere trovato un giornaletto in un prato, ero con Federico e stavamo facendo una scorciatoia per tornare da scuola. Grattando le pagine appiccicaticce e terrose, comparve l’immagine di quattro uomini: uno aveva un drago tatuato sul petto e avevano appena fatto una specie di pipì bianca dentro la bocca di una donna grassottella; lo si vedeva bene che era grassottella perché era svestita, ci fissava con due occhietti simpatici e furbi. Federico mi aveva rivelato che non si trattava di pipì ma si chiama sburra, come il burro ma con la esse di Silvan davanti. Suo cugino, due soli anni più di noi, già sburrava alla grande.

Uno dei quattro, non quello con il drago che sputava fuoco, portava le basette lunghe e anche il coso pareva un candelabro, almeno se confrontato ai lumini che tenevamo io Federico. Particolare che avrebbe dovuto aiutarlo a essere più preciso, come avviene con i fucili rispetto alle pistole. Invece aveva sbagliato mira, il liquido vischioso era finito sui capelli biondi, mossi, da cui colava sul volto paffuto; ma secondo me i capelli erano tinti, e lei si era messa i bigodini per meglio figurare. Anche per farsi sburrare in bocca è necessaria professionalità, e l’uomo che aveva mancato la mira ne aveva mostrata pochina. Se fossi stato l’editore del giornaletto col cavolo che lo richiamavo per un nuovo servizio, avevo imparato la lezione di don Remigio. Lo mandavo a colare altrove la cera del suo lungo candelabro.

Quanto alla mie competenze professionali, mi furono utili in seguito per versare il vino a tavola, ci penso io dico ancora adesso se viene stappa una bottiglia, quando uno sa fare bene qualcosa è giusto che la faccia, ma non ho più rimesso piede in sacrestia. Con Federico avevamo trovato il giornaletto più interessante, molto più interessante. Ci immaginavamo che se centravi la bocca il fotografo ti diceva bravo, mentre a noi non diceva bravo nessuno, tutto quell'impegno per imparare una professione nel campo dello spettacolo, e nemmeno la nonna veniva ad applaudirti.

Ho dimenticato di dire che anche Federico faceva il chierichetto, non ricordo quale fosse la specializzazione, ma potrei mettere la mano sul fuoco sulla sua professionalità. Due minimi professionisti a cui non è mai stata data l’occasione di esibirsi alla messa della domenica mattina, secondo me c’era sotto un giro di raccomandazioni, per non dire di peggio. Magari avremmo proseguito nella carriera, ci saremmo iscritti in seminario, diventati preti, cardinali, persino papi… Perché mettere dei limiti allo Spirito Santo?

domenica 31 agosto 2025

Mare nostrum

Le foto di Federico Lucia, in arte Fedez, con Ignazio La Russa e Daniela Santanché a bordo di uno yacht al largo della Costa Smeralda, sono la rappresentazione plastica di ciò che un tempo veniva chiamata lotta di classe. Ma per esserci lotta di classe dovrebbe prima esserci coscienza di classe, e cioè percepire il militante di Casa Pound con contratto a tempo determinato in un Bricocenter, settore vernici e decorazioni, in busta paga 1150 euro lordi al mese di cui 800 vanno per pagare l'affitto del bilocale dove vive con la fidanzata, lei lavora part time in un negozio per animali e la scorsa settimana ha portato a casa un criceto davvero grazioso, l'aveva restituito un cliente perché squittiva e non la smetteva più di correre nella ruota, ecco, dovrei percepirlo come mio simile, sentirmi sulla sua stessa barca anche se remiamo in direzioni opposte, non sullo yacht da ventisei metri e 50.000 euro a settimana, questo il costo della bella vacanza di Federico Lucia, sempre in arte Fedez, Ignazio La Russa e Daniela Santanché in versione western; il ruolo degli indiani a cui sparare è chiaramente interpretato dai gitanti provenienti dalla Libia, i loro barconi producono uno sciabordio che potresti confondere con lo yacht nel solcare l'azzurro mare d'agosto, un unico mare per imbarcazioni tanto diverse, il mare nostrum, travolti da un insolito destino. La sento questa identità con il militante di Casa Pound, percepisco l'odore di salsedine e il sole a picco sulla testa dei migranti, o nel mare vedo solo bottiglie di plastica? No, non la sento. L'empatia sociale è una forma di circolazione affettiva ormai definitivamente ostruita dal colesterolo della propaganda spettacolare. E così possiamo tranquillamente dire che per essere di sinistra basta essere a favore del Gay Pride e della legalizzazione delle droghe leggere, accompagnare lo Spritz con discorsi sui bambini di Gaza e sulle vecchie staffette partigiane, senza dimenticare le auto d'epoca, gli orologi da collezione e la rava e la fava. In fondo anche Giangiacomo Feltrinelli teneva i soldi. E poi addormentarci con il pugno chiuso, un sorriso lieto sulle labbra e l'ombrello nel culo.

venerdì 29 agosto 2025

Gabbiani ipotetici

In una canzone di oltre trent’anni fa, Qualcuno era comunista, Giorgio Gaber compie del comunismo un’analisi psicologica minuziosa, è un crescendo musicale ma anche di emozioni e sentimenti contrastanti, a convergere in un'urna di legno dove depositare la scheda elettorale: PCI il nome su cui è stata impressa la crocetta, accompagnato da falce e martello stilizzate in giallo, una stellina di uguale colore, in campitura naturalmente rossa. Molto rossa.

Nel testo vengono enumerate le infinite ragioni per cui, nei decenni seguenti il secondo conflitto mondiale, gli italiani con i loro mutui per l'agognata casa di proprietà, le loro Seicento e i pochi risparmi in banca oppure frigo e lavatrice, bisognava scegliere, avevano votato in massa per un partito che proclamava la collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio, con percentuali superiori a qualsiasi altro omologo europeo. In una strofa centrale viene detto:

Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come

Più di se stesso: era come due persone in una

Da una parte la personale fatica quotidiana

E dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo

Per cambiare veramente la vita, no, niente rimpianti

Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare

Come dei gabbiani ipotetici.

Io la trovo una riflessione acutissima, un’immagine veritiera non solo del suo specifico oggetto, ma che possiamo allargare al modo delle foto sullo smartphone, basta sfiorarle con due dita da divaricare per il pic to zoom. Nella sua estensione coglieremmo come, più in generale, la politica del passato conteneva due momenti: il possibile, rappresentato dal gabbiano ipotetico, e l’uomo reale immerso nella personale fatica quotidiana, che cerca di spiccare il volo senza esserne capace.

Ma forse è un meccanismo antropologico ancora più universale e antico. Lo ritroviamo, ad esempio, nel rapporto tra mito e rito. Anche il mito è una sorta di gabbiano collocato in una dimensione intangibile e astratta; con Platone, diventerà il cielo delle idee. Mentre il rito rappresenta il tentativo di riportarlo sulla terra – non per burlarsene come viene fatto nell’Albatros di Baudelaire, lo si reifica per fare del mondo un'immensa voliera –, o in alternativa porre l’uomo allo stesso livello del gabbiano. Dante esprime il medesimo concetto con il termine indiarsi, farsi Dio, e cioè elevarsi fino a coincidere con il mito cristiano.

Se diamo una scorsa ai principali movimenti politici novecenteschi, è una dinamica puntualmente ritrovabile: il comunismo, ci mostra Gaber, era un mito aeronautico; ma lo era anche la DC che si nutriva dello sfondo etico e ontologico del cristianesimo; un mito di uguaglianza il socialismo e perfino il fascismo era un mito, intriso dei tratti omerici dell’eroismo marziale, l’esaltazione della gioventù, la bella morte etc.

Tutti miti, sì. Attraverso il rituale dell'azione politica si cercava di realizzarli, con molte inevitabili approssimazioni. Era infatti un tendere a, uno slancio desiderante, già che il rito non potrà mai coincidere con il mito, e la politica è l’arte della mediazione. Ma si può mediare solo a partire da un obiettivo che possieda forza di magnete, viene collocato nel futuro e da lì chiama, risucchia, è il canto delle sirene. Un buon politico si faceva legare all'albero maestro come Ulisse, a questo modo non rinunciava alle note sublimi ma poteva dialogare con altre voci, altri miti. Ciò almeno nel passato. E adesso?

Adesso, a me pare, siamo entrati nel regime postmoderno della nostalgia. Non esistono più mitologie rivolte a oltrepassare il presente – un raggio di sole intravisto tra una coltre di nuvole – e così sì rammemora i miti del passato, ma senza crederci fino in fondo. Oppure ci si propone di compiere il già compiuto, un esempio è il femminismo, le cui istanze fondamentali sono già state incluse nella Costituzione italiana: non svalutare, picchiare, declassare, uccidere le donne. Ed è così che il femminismo, un mito realmente rivoluzionario, senza di esso non avremmo molti dei diritti attuali delle donne, corre il rischio di trasformarsi in un fenomeno di folclore.

Riprendendo la definizione di sacro offerta da Rudolph Otto, in un certo senso anche il mito rappresenta un mysterium tremendum et fascinans. Comunismo e fascismo, non comparabili per responsabilità storiche e intenzioni umane, sono accomunati nell'avere convogliato energie psichiche vitali e al tempo stesso tremende. Ma ora anch'essi rischiano di essere risucchiati nel cono d'ombra del folclore. Al riguardo, suggerisco di guardarsi su YouTube le interviste ai gitanti in camicia nera in quel di Predappio: innocue macchiette a cui si offrirebbe volentieri un bicchiere di Sangiovese, per poi star lì ad ascoltare le loro favole: "Quando c’era Lui, caro Lei…"

D’altronde il folclore è ben accolto in questo tempo, è un diserbante, nemmeno troppo tossico, che fa piazza pulita dei semi reali di dissenso; perciò nei talk show televisivi è gradita la figura del balengo, con le sue sparate ci fa sorridere e non ostruisce le rotte dei padroni del vapore. Un po’ come il tizio che a Portobello si proponeva di abbattere il monte Turchino per eliminare la nebbia in Valpadana.

Quando si tratta di fare politica per davvero, alla nostalgia subentra infatti una visione aziendalistica della cosa pubblica. Inaugurata in Italia da Berlusconi, si è in seguito estesa all’intero Occidente: la convinzione che il mondo sia questo mondo qui, tertium, ma neppure secundo, non datur. Da ciò il culto dei governi tecnici, gli esperti, i sindaci che devono essere dei manager di successo, alla Beppe Sala. Gente per cui sviluppo e progresso coincidono, non vengono distinti come faceva Pasolini.

In ciò possiamo scorgere un implicito, una vocina che sussurra senza bisogno di muovere le labbra: non esistono, ci dice la vocina, alternative alle magnifiche sorti liberal-capitalistiche, prima o poi quel modello verrà esteso anche a Marte, è solo questione di tempo ma Elon Musk ci sta lavorando. Dunque tanto vale lasciar spazio all'efficienza senza porsi questioni di senso, estetica, morale. Se proprio volete cambiare vita, iscrivetevi a un corso di mindfulness, oppure entrate in una libreria esoterica e prendete un bel libro di Rudolf Steiner; ancora meglio se mandate i figli a una scuola steineriana, come ha fatto Veronica Lario.

Il ragionamento non farebbe una grinza, se non avessimo l’ultima strofa della canzone di Giorgio Gaber. A insinuare dei dubbi che questo sia davvero il migliore dei mondi possibili...

E ora?

Anche ora ci si sente in due

Da una parte l'uomo inserito

Che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana

E dall'altra il gabbiano, senza più neanche l'intenzione del volo

Perché ormai il sogno si è rattrappito

Due miserie in un corpo solo.

giovedì 28 agosto 2025

Progressismo retroattivo

Una donna sul web scrive di non essere femminista. Scrive anche altre cose in realtà, lo fa bene, con ironia e sottigliezza discorsiva, ma noi zoomiamo solo su quella dichiarazione di non intenti. Anche perché le risponde a stretto giro un'altra donna, con le seguenti parole:

"Non è un partito il femminismo né una scuola né un genere. Chiede semplicemente di non svalutare, picchiare, declassare, uccidere le donne. In questo senso tutti e tutte dovremmo essere femministe..."

Confesso, a me il commento ha fatto un po' girare le scatole, è sempre antipatico quando qualcuno pretende di insegnarti cosa dovresti essere. Ma lasciamo andare, in fondo non l'ha detto a me. Mentre è inequivocabile un fatto: non è il femminismo a chiedere di non svalutare, picchiare, declassare, uccidere le donne, ma la Costituzione italiana a imporlo. Non è un dettaglio di poco conto.

Eppure è vero che il femminismo ci è arrivato prima, non avremmo la Costituzione che abbiamo senza le battaglie per l'emancipazione femminile, senza le suffragette che all'inizio del XX secolo rivendicavano il diritto di voto in Gran Bretagna, senza il femminismo, sì. Verso cui è giusto provare un sentimento di sana gratitudine.

Ma adesso che facciamo, mettiamo indietro le lancette dell'orologio e ripartiamo dalla mezzanotte, oppure proviamo a sporgerci sul presente per individuare le ingiustizie e le esclusioni da emendare nel futuro, a cui fare seguire un piano articolato di contrasto?

A scanso equivoci: mi riferisco al presente occidentale, quando in Iran, per dire un luogo tra i molti in cui le donne ancora patiscono la prevaricazione maschile, la parola femminismo (non so come si traduca in farsi) ha pieno diritto a essere pronunciata forte e chiara.

Ma torniamo al commento riportato. A me sembra che rifletta una disposizione diffusa in molti campi, specie quello politico. Potremmo chiamarlo progressismo retroattivo. Un esempio? I discorsi di Elly Schlein.

Quando Elly Schlein parla pubblicamente – in privato deve essere molto simpatica, il suo sorriso schietto e contagioso lo lasciano intendere –, in tali occasioni è piuttosto comune vedere cadere braccia umane come foglie da un pioppo in autunno. E così, piano piano, la Sinistra perde i pezzi.

Non che dica stupidaggini, ma nelle sue parole viene coniugato l'ovvio, declinato il già detto, lo stracotto, gli avanzi del banchetto. Per dirla con il marchese Fulvio Abbate: musica leggera per ceti medi. In tutto medi.

Schlein la orchestra con termini altisonanti e dotti, ma nella sostanza anche lei ci sta dicendo che non bisogna svalutare, picchiare, declassare, uccidere le donne. Ok, fin qui ci siamo. Ma qual è l'idea di mondo, di nuovo mondo, meglio, per cui la Sinistra si batte e io dovrei votarla?

Non pervenuta, come la temperatura di Campobasso negli anni Settanta.

martedì 26 agosto 2025

L’ombra e i social

Sono una merda. Quanti hanno il coraggio di dirsi questa frase? Il più delle volte non è vero, non sei una merda, tranquillo, tranquilla, vai bene come sei. Ma almeno una componente omeopatica di merda è presente in ciascuno di noi, e di norma si preferisce guardala al modo della pagliuzza negli occhi dell’altro.

Come si sa la paglia è infatti una delle componenti del letame, da trasferire immediatamente a debita distanza dalle narici. Magari scaricandolo addosso al nostro vicino di casa, così impara a parcheggiare male l’auto e a tenere alto il volume della tivù, o all’extracomunitario dalla pelle scura e una lingua tutta consonanti, vai tu a sapere cosa dice. Un meccanismo psicologico per mantenere integra e profumata l’immagine che abbiamo di noi, a cui Jung ha dato il nome di ombra.

A me sembra che i social abbiano molto a che fare con l’ombra. Ogni volta che provo a scrivere della mia ombra – attenzione: non a fare ombra a qualcuno, a impallarlo – so già che quei testi avranno un gradimento modesto sui social, anche quando non siano obiettivamente peggiori di altri. Cambia solo il consenso, che degrada se rivelo lati oscuri di me.

Ai miei contatti, insomma, non solo non piace essere trattati male, ma anche essere in relazione con qualcuno che si tratta male da solo, un social masochista che disegna i baffi alla propria Gioconda. Accadeva qualcosa di simile in banca, quando ai dipendenti allo sportello veniva richiesta giacca e cravatta; ma vedo che ora non è più così, e ne ricavo che i social siano diventati più bigotti di una banca.

In ciò non c’entra nulla il nefasto fenomeno degli hater, stiamo parlando di cose profondamente diverse. Per capirci: se un hater ti attacca, cosa fai? Naturalmente gli rispondi a tono, quel bastardo, come si permette! Quindi litigate, vi insultate, uno dei due banna l’altro per primo, e chi si è visto si è visto. La bolla social torna a essere integra e virtuosa. Mentre se ammetti di avere rubato la marmellata, che succede?

Non viene naturale contraddire chi espone i propri non-gioielli, come il non-compleanno in Alice nel paese delle meraviglie, non gli si sussurra parole di consolazione: Ma no cucciolo mio, sei una persona tanto carina e per bene, perché dici cosi? E però nemmeno si riesce a premiarne la sincerità nell'esporsi, la verità diviene interessante solo quando: a) c'è un cattivo, ma il cattivo non ha nessuna relazione con me; 2) c'è un buono, ed è mio amico; 3) c'è un coglione innocuo, e si sa che i coglioni fanno tanto ridere.

Eppure in letteratura si offrono molti esempi di personaggi ripugnanti. In alcuni casi la focalizzazione avviene proprio sul personaggio ripugnante, per così dire si auto-scredita, e ciò non infastidisce il lettore, almeno quando sia sostenuto da un impianto narrativo efficace. Lo stesso nel cinema, pensiamo ad Hannibal Lecter nel Silenzio degli innocenti, o ad Al Pacino nei panni di Tony Montana in Scarface. Alzi la mano chi non ha provato una fitta al cuore quando muore crivellato di colpi, per poi precipitare da una balconata... Come mai questa differenza con i social?

Io credo che il cinema e la letteratura – qui un esempio potrebbe essere Houellebecq  siano un modo per contattare l'ombra per interposta persona, ci aiutano a comprenderne i meccanismi senza venirne inghiottiti. Sui social invece il negativo viene respinto, forse perché si assume che ciò che ci ha fatto palpitare per i cattivi era, in fondo, solamente finzione: io mica sono così, i miei amici non sono così.

E dunque solo quando tornerà a offrire un’immagine luminosa o quantomeno aurorale di sé, chi si oscura potrà essere reintegrato nel gruppo. Nel frattempo si proietta l’ombra su un comune nemico – in questo momento gli israeliani sono dei nemici perfetti, anche perché ci stanno mettendo del loro… – per poi unirsi nella fulgida schiera dei giusti. Un dispositivo che io trovo pericolosissimo, già che è alla base della struttura antropologica di ogni setta.

Ci siamo mai chiesti se venire su Facebook a cazzeggiare non sia solo un innocuo passatempo senile, ma sintomo latente di pensiero settario? Io me lo domando spesso, sapendo che la risposta sta dentro la mia ombra. E perciò è una risposta sbagliata.

domenica 24 agosto 2025

Il reale e il possibile (mi ricordo 47)

Mi ricordo l'ingresso di Fabio dalla porta a vetri del Bar Sole, dopo avere parcheggiato l'Oscar College accanto all'aiuola sul Lungo Mallero Diaz. Indossava come al solito scarpe da pallacanestro con una stella rossa sul lato, superò il videogioco dove Shultz stava sbranando dei fantasmini, e fu a quel punto che Fabio lo disse, rivolgendosi a tutti e a nessuno: Buttategli giù una colata di cemento, una bella colata di cemento ripeté, valutando forse che l’aggettivo bella avrebbe dato maggior vigore alla frase. Ma nemmeno così aveva funzionato, dai tavoloni in legno di abete dove stavamo bevendo birra alla spina le espressioni erano perplesse, più che di vera riprovazione. Fece allora un passo indietro: L’ha detto mio fratello. Particolare che cambiava naturalmente le cose. Se l’ha detto il fratello di Fabio che ha già ventitré anni, si vede che a ventitré anni e cioè da grandi ma non ancora adulti, in quell’interregno tra l’infanzia e il cartellino da timbrare da cui recalcitrava solo Rocky Balboa, si vede che si può scherzare come facevamo su ogni altro argomento, è ciò che gli anglosassoni chiamano black humor. Intanto, Richard Sanderson smise all'improvviso di colare melassa sonora, e alla sua Reality, dalla radio accesa nel locale, subentrarono gli aggiornamenti da Vermicino. Era la prima volta che si sentiva nominare quella frazione romana, la toponomastica non invitava ad approfondire. Ma il caso o l’imperizia di qualche muratore avevano voluto che, proprio lì, Alfredo Rampi detto Alfredino fosse scivolato in un pozzo artesiano. Un uomo molto piccolo e magro, un contorsionista soprannominato Uomo Ragno, si era offerto di calarsi all'interno dell'angusto cunicolo, nel tentativo disperato di acciuffare la mano del bimbo di sei anni e riportarlo in superficie, dove i cameramen delle televisioni pubbliche e private lo attendevano per lo scoop. Ma assieme a loro l’attendeva l’Italia intera, non si parlava d’altro: chi non era al lavoro osservava le immagini che provenivano dal televisore con apprensione, a nessuno sarebbe venuto in mente di riderci sopra. Facevano eccezione una decina di quindicenni stravaccati in un bar sondriese a sorseggiare Stella Artois, una decina di coglioni e anche un coglione un poco più grande, dall'alto del suo prestigio anagrafico aveva dato la stura a risolini prima timidi e poi gongolanti e scomposti – in fin dei conti è grazie al fratello di Fabio che avevo scoperto Michel di Claudio Lolli, non poteva essere ammattito da un giorno all'altro –, mentre Fabio continuava a ripetere una colata di cemento, buttategli giù una bella colata di cemento, pago di avere ottenuto il suo scopo. Non era nemmeno cinismo, probabilmente desiderava solo scaricare a terra la tensione accumulata alla maniera dei parafulmini, la realtà era un castello di Lego costruito dalle mani tremolanti dei vecchi, così chiamavamo i nostri genitori, il mio vecchio, la tua vecchia, bastava smontarlo per ricomporre i mattoncini in forma caricaturale e buffa, non si può essere oltraggiosi verso ciò a cui non si crede fino in fondo. Ed è forse questo il senso ultimo di ogni adolescenza: opporre il possibile al reale, nella convinzione che possiedano la medesima natura liquida, onde quantistiche non ancora collassate che si infrangono contro il lungomare di giorni lunghissimi e lieti. Poco importa se l'alternativa abbia carattere sarcastico o romantico o eroico, i fatti sono un'opzione drammaturgica tra le altre, vincolante solo per chi vi abbocca. Due giorni dopo la radio del Bar Sole comunicò che, purtroppo, un avverbio sul quale indugiò con patos vagamente teatrale il giornalista, Alfredino era morto. E il mondo che era un blocco morbido di Das da plasmare e riplasmare a piacimento, si solidificò in un istante.

sabato 23 agosto 2025

Il giusto e lo sbagliato

Negli orinatoi pubblici, quei pochi che sono rimasti, i maschi vanno per pisciare, giusto? Giusto. E sui social la gente condivide contenuti per ottenere attenzione, ricevere segni di gradimento, incrementare il numero dei follower, giusto? Giusto.

Eppure, negli orinatoi pubblici esiste una minoranza di maschi che va per offrire e ricevere piacere, George Michael era tra questi. Possiamo dire che George Michael compiva lo stesso gesto di Duchamp: decontestualizzava il mezzo, applicando il pensiero laterale che fa di uno pneumatico un salvagente. E quando ciò che davvero ti importa è fare il bagno, chi se ne frega se gli altri lo calzano sui cerchioni dell'auto.

Io non ho una particolare predilezione per le canzoni di George Michael, non sono nemmeno omosessuale, ma il suo utilizzo improprio degli orinatoi pubblici me lo rendeva simpatico. Perciò anche sui social mi piacciono gli interventi "sbagliati", come quelli scritti su Facebook dal compianto Stefano Brugnolo, docente di Teoria della letteratura all'università di Pisa. Non finivano davvero più, che fatica, e non compariva mai la foto di un cucciolo di Labrador o di una vecchina con la faccia buffa.

I follower erano quelli che erano: un niente, se confrontati ai ventidue milioni e passa di Gianluca Vacchi; un'enormità, se pensiamo all'infrazione delle consuetudini a cui sottoponeva i suoi lettori, spacciando intelligenza sintatticamente organizzata invece di shottini da ingollare in un fiato. Utilizzava insomma i social come George Michael utilizzava gli orinatoi: non per fare ciò che normalmente si fa, ma essendo lui stesso la norma a cui piegare il contenitore.

Rimane il problema di dove poi andare a pisciare. Chi segue questa via ostinata e contraria lo fa spesso controvento, con il rischio di sporcarsi le scarpe. Ma se non altro sono le proprie scarpe, la propria urina. Non pisciano in conto terzi.

mercoledì 20 agosto 2025

Niente di nuovo sotto il sole

Il gruppo di maschi che si scambiano foto intime delle loro compagne in un contesto comunque pubblico, Facebook, ma anche cameratesco, goliardico, volgarissimo, ha suscitato sorpresa e indignazione. L'indignazione la comprendo, ma la sorpresa mi ha a sua volta sorpreso. Non dico di trovarla una cosa accettabile – fa decisamente schifo, come fanno schifo molti maschi ma pure altrettante femmine, non cominciamo con la solita manfrina su quale genere sia più bello, buono, giusto –, è che non rappresenta una novità per cui sobbalzare sulla sedia. Riflette piuttosto uno dei tratti del maschile con maggiore stabilità nel tempo; ha probabilmente centinaia di anni di gestazione, e rampolla con puntuale ricorrenza. O se vogliamo, come opportuno, limitare il raggio della distorsione psichica, parliamo di maschile occidentale. Io ne ricordo una versione anni Ottanta, aveva forma di barzelletta. Al loro meglio le barzellette ricevono il testimone dalla mitologia, passando per le favole, e ne proseguono in forma ilare la missione, che è però serissima: trasmettere verità antropologiche altrimenti indicibili. Credo sia questo il caso, e perciò la trascrivo:

Un uomo fa naufragio su un'isola deserta assieme a Claudia Schiffer; e già da qui si comprende quanto la barzelletta sia datata. Ma potrebbe essere aggiornata con Belen, oppure con Elodie. Un uomo, ricominciamo allora da capo, fa naufragio su un'isola deserta assieme a Elodie. Gli altri passeggeri della nave su cui erano imbarcati sono morti, una bella strage a preparare il terreno alla risata catartica finale. Ma c'è anche un lato positivo: lo scafo si è incagliato sull'isola, le provviste sono intatte. Ne ricaviamo la disponibilità di ogni ben di Dio, perfino di un televisore satellitare enorme con cui guardare le partite di Champions League.

In assenza di alternative – per Elodie se non altro, che forse aveva altri progetti – i due diventano amanti. L'uomo avrebbe tutto ciò che si potrebbe desiderare dalla vita, almeno quella di un medio-maschio italiano. Dopo un po' però diventa taciturno, malinconico, depresso.

“Cos'hai gli chiede Elodie? Non sei più allegro come nei primi giorni.”

“Mmm, no, niente” scantona l'uomo.

Ma lei insiste: “C’è qualcosa che posso fare, a questo modo rovini la vita anche a me?”

Lui ci pensa un po', e poi risponde: “In effetti ci sarebbe una cosina...”

“Lo vedi – dimmi!”

“Hai presente la cassa con gli abiti di Carnevale, stava nella stiva vicino agli hula hoop?”

“Sì, certo, ci abbiamo già rovistato per scovare le giarrettiere che ti eccitavano tanto.”

“Ecco, però adesso dovresti travestirti da uomo.”

“Da uomo” scoppia a ridere Elodie, “non sarai mica...”

“Ma no, proprio no” la blocca l'uomo, che quella parola non vuole nemmeno sentirla nominare. "Dovresti semplicemente fingere di essere un mio vecchio amico.”

“Ok, se la cosa ti può risollevare. E poi?”

“Poi dovremmo simulare un incontro casuale, dopo tanto tempo.”

Elodie, un po' sorpresa, accetta, e come convenuto si traveste da uomo. Quindi si incammina verso la palma sotto cui l'uomo sta sorseggiando un Daiquiri; già l'abbiamo detto che sull'isola dispongono di tutto.

“Oh, Luigi: qual buon vento?” le grida l'uomo.

“Passavo da queste parti” risponde Elodie.

“Ci sono novità?”

“No, niente, solita vita. E tu?”

 “Anche io. E però..."

"Però?"

"Sì, insomma, una novità ci sarebbe pure.”

“Racconta racconta”, e questa volta Elodie non recita la battuta, è davvero curiosa di sapere.

“Vie' più vicino, mejo nun farse sentì da quarche ficcanaso.”

La donna, con due bei baffoni sintetici, esegue l'ennesima richiesta bislacca, è la prima volta che lo sente parlare con accento romanesco. Lui le si avvicina all'orecchio.

“Me sto a ciulà Elodie... Ma me raccomanno: acqua 'n bocca!”

martedì 19 agosto 2025

Vite parallele (mi ricordo 46)

 


Mi ricordo di Sinead O'Connor, avevamo la stessa età. Coscritti si dice, così vengono salutati i ragazzi che vanno in guerra, scarpe grosse e un paio di tavolette di cioccolato nello zaino, l'M14 come nuovo giocattolo da farsi bastare fino al Natale successivo. Noi però siamo figli di un armistizio, sembrava non avere mai termine e l'abbiamo chiamato pace; il Vietnam era troppo lontano per prenderlo sul serio, e allora lo si prendeva per fiction nelle pellicole con i Viet Cong che, quando parlavano, sembravano in preda a una crisi isterica, non si capiva un cazzo malgrado i sottotitoli. In assenza di un nemico, i coscritti scrivono il proprio anno di nascita sui contrafforti in cemento delle strade di montagna: W quelli dell'annata tal dei tali, classe di ferro; avviene soprattutto nei paesi, in città si è smesso di festeggiare la comune gettatezza nel tempo; Heidegger, almeno, la vedeva a questo modo: per lui l'esistenza era simile a una partita a flipper, dove gli esseri umani hanno il ruolo della pallinaSinead O'Connor e io siamo stati gettati tra i bumper nel 1966, l'anno in cui Simon and Garfunkel pubblicano l'album Sounds of Silence. Le note della canzone omonima – "hello darkness, my old friend /I've come to talk with you again..." – fanno da colonna sonora alla scena della piscina nel Laureato. Al centro galleggia un materassino marrone, Dustin Hoffman ci sta disteso sopra, fissa il cielo con degli occhiali scuri che ne imbronciano l'espressione, la pelle del corpo è abbronzata e lustra per via della crema solare. Quando finalmente si immerge lo spettatore dovrebbe pensare a una sorta di catarsi, ma io ho sempre pensato a dove fossero finiti gli occhiali, immaginandoli andare lentamente a fondo e posarsi sulle piastrelle azzurrine. Nel montaggio la sequenza viene alternata con gli amplessi assieme a una donna, Mrs. Robinson, che allora si diceva matura e ora MILF; se ho ben capito, significa Mother I'd Like to Fuck. A quanti anni si diventa donne mature? E quand'è che la maturità, il solstizio d'estate, in seguito le giornate cominciano ad accorciarsi e le cose si trasformano in altre cose, simili ma un po' sbrecciate, quand'è che tutto ciò è divenuto oggetto di spregio, fotti la vecchia e poi condividi il filmato con il gruppo di amici su WhatsApp? Sinead O'Connor festeggiava il compleanno l'8 dicembre, quale migliore luogo di un pub irlandese, all'uscita la condensa del fiato galleggia davanti alla bocca; da bambini era un efficace surrogato alle sigarette, nei mesi più freddi si poteva mimare Humphrey BogartIo sono nato il 19 aprile, il mese più crudele. Osservando con attenzione le immagini spicca l'atteggiamento di quel ragazzo con i baffi e la zazzera: fissa l'obiettivo con sfida, si intuisce un rivale da intimidire o un'amante da sedurre, che poi è lo stesso. Vita. Ma ancora potenziale, involtolata, un'ombra su un materassino che la separa dal liquido tiepido a cui vorrebbe ritornare, proprio come Dustin Hoffman. Passando di fronte allo specchio del bagno ricerco la strafottenza di quei giorni, ma ritrovo solamente l'ombra, diluita come il pittore maldestro diluisce l'impasto della tempera con troppa acqua: prima difettava ma adesso ce n'è troppa, allaga. Sinead O'Connor è invece già da subito impregnata dall'ombra. Lo sguardo, altrove, restituisce la sensazione di uno scoiattolino, dentro occhi enormi e bellissimi fa spazio alle infinite sfumature del bosco; la mano sotto il mento è un nido, il braccio fa da tronco. In lei non c'è traccia del compiacimento a cui il successo avrebbe potuto indurla, ciò che vediamo e non vediamo, per suo tramite, è puro accadere. Ma cos’è che accade? Una parola inquietante se ne raschiamo la superfice festosa, insinua il concetto di caduta. Con la differenza che non si precipita nelle tenebre, ma si viene colpiti e affondati dalla luce; una luce troppo forte, abbaglia, fino a vanificare le forme che avrebbe dovuto rischiarare; i mistici gli danno nomi diversi, Carmelo Bene usa l'espressione depensamento. Si depensava bene negli anni Ottanta, posso dire solamente questo, in ciò così diversi dall'attuale finto pensare, scrivere, almanaccare sui social. Ma torniamo alle fotografie. Sorridi, no, non sorrido, faccio il bel tenebroso, non è difficile risalire a quel che mi passava allora per la testa. E in quel perfetto oggetto di design che è il cranio ovale di Sinead? Non si capisce, non si è mai capito. La successiva adesione all'Islam, l'immagine del Papa stracciata, il figlio suicida e la ricerca di un nuovo fidanzato su internet; tutte tessere dello stesso enigma. Eppure, nel momento in cui il suo volto si imprime sui cristalli di alogenuro d'argento, sembrava un'esistenza limpida, non diversa dall'equazione semplificata per riassumere il mondo, tanto poi suonava la campanella e il bidello cancellava lo scarabocchio dalla lavagna. Lei era quella che si rasa i capelli a zero. Punto. Così si fa prima a disegnarla sul diario. Nel frattempo le candeline sulla torta erano salite a ventitré, due torte per la precisione, una a Sondrio e una a Dublino, tante quante le battaglie combattute dai coscritti nella loro guerra di marzapane. Sulle sue candeline ci soffiava direttamente Eolo, le folle ai concerti strillavano BRAVA, ancora, bis, e l'aria che si accompagna all'emissione della voce spegneva una fiamma che non si sarebbe più riaccesa. Non so se qualcuno abbia mai detto bravo a me; di certo non mio padre, men che meno i professori dell'Istituto Tecnico Commerciale De Simoni; io avrei voluto iscrivermi al liceo scientifico, ma giusto perché ci andavano i miei amici. Poco importa. Ciò che davvero mi importava era depensare a bordo della Vespa PX 125 bianca, impennavo leggermente quando compariva la luce verde al semaforo, nella vetrina di Caramatti la stagione autunno inverno della linea Stone Island, il sabato sera si andava in una discoteca chiamata Tempio e giovedì alla Moia, a settembre puntuale l'esame di riparazione in matematica. Andavo anche in palestra e da un parrucchiere che si chiamava Equipe 2000, ancora undici anni e ci saremmo finalmente arrivati: il fatidico anno della svolta di secolo, di più, di millennio! Era infatti il 1989, erano gli anni Ottanta, erano... Ma questo l'ho già detto, come tutti i vecchi tendo a ripetermi.

venerdì 15 agosto 2025

Fantasmi (mi ricordo 45)

Mi ricordo l'insinuarsi delle nuvole fin dentro i porticati del collegio di Celana, accadeva di frequente nei giorni di maltempo, uno avrebbe potuto confonderle con nebbia o con fantasmi che si erano smarriti. Dopo un'abbondante colazione io andavo incontro ai fantasmi e raggiungevo i bagni nel cortile esterno, dove mi rinchiudevo e poi accendevo una Marlboro.

Non lo facevo per nascondermi, avevo il permesso di fumare sottoscritto dai genitori. Erano sette minuti di raccoglimento a occhi chiusi, sette minuti, tanto dura una Marlboro, con le gambe divaricate ai due lati dell'abisso della turca. Mi servivano per iniziare la giornata che si sarebbe conclusa con un film, a selezionarlo era Don Gino attento a evitare scene scabrose, peggio che mai l'intercalare di Tomas Milian nei panni dell'ispettore Giraldi. Sette minuti. Come la chiavetta sulla schiena per caricare il soldatino. 

Naturalmente è una metafora, ma davvero avevo l'impressione che ogni volta che si ravvivava la brace della sigaretta e i miei polmoni assorbivano nicotina, io accumulassi energia potenziale elastica, da convertire in cinetica nel corso delle ore successive. Mi doveva servire fino a quando ci saremmo avviati ai dormitori, dopo la consueta preghiera collettiva, in un tempo in cui era collettivo ogni altro momento tranne le funzioni corporali, e scandito da un minuzioso cronoprogramma dettato dai preti. Il giorno dopo si ripartiva con un altro giro di chiavetta, quella mattina le lezioni iniziavano con l’ora di inglese.

Il professore risaliva la strada innevata a bordo di una Lancia Fulvia color amaranto, già allora veniva considerato un modello superato, altre vetture si contendevano le vetrine dei concessionari in quell’inverno del 1983, pochi giorni prima Tiziana Rivale aveva vinto il Festival di Sanremo con Sarà quel che sarà. Era un bell'uomo con i baffi, il professore, poteva avere una quarantina d'anni, e folti e arruffati capelli castani, l’espressione arguta ma sempre un poco triste. Ho scordato il nome e anche il cognome, succede. Chiamiamolo Alfonso. Mi sono fatto l’idea che con una faccia così doveva chiamarsi Alfonso, o comunque uno di quei nomi un po’ anacronistici, come la sua Lancia Fulvia berlina. 

Entrato in classe si capì subito che era un giorno diverso dagli altri, gli occhi di Alfonso erano più tristi del solito. "Oggi non facciamo lezione" disse senza tanti giri di parole. "Per favore non chiedetemi la ragione. Ma bisogna pur impiegare i nostri sessanta minuti, e così ho portato questo." Estrasse dalla cartella di pelle consunta un registratore portatile, l’audiocassetta era già inserita, schiacciò un tasto e cominciarono a uscire le note, la qualità audio era disastrosa. "È la Petite Suite di Debussy" disse dopo una decina di secondi di sorpresa.

"Un compositore inglese? Fa parte del programma?"

A parlare era stato Tomasoni, d'altronde aveva prima alzato la mano, era il capoclasse e si sentiva in dovere di indagare. Alfonso sembrò per un attimo ritrovare il barlume di un sorriso. "No Tomasoni, non fa parte del programma. Con l'inglese non c'entra niente, nemmeno con i motivi per cui i vostri genitori vi hanno mandati qui per studiare la ragioneria: chi in futuro accoglierà i clienti allo sportello di una banca, chi gestirà l'impresa di famiglia. Non sempre si possono fare cose utili a uno scopo" aggiunse, "e Debussy non serve a niente. A NIENTE" ripeté come se questo termine gli si fosse incastrato tra i denti. "Ma ascoltatelo lo stesso."

Non so quantificare il tempo trascorso, lui alla cattedra con le mani immerse nella selva dei capelli, il suo dolore pareva diventato immenso, noi in silenzio con i gomiti sui banchi in legno massello. A parte Tomasoni, gli altri avevano intuito che si stava manifestando un altro tipo di fantasma, gli archi erano subentrati al prevalere iniziale dei fiati, che comunque continuavano a dettare la linea melodica. Poi il merlo di Don Gino gracchiò un suono prolungato dallo studio in fondo al corridoio, ma sembrò venire incorporato nella composizione. In quel momento tutto si teneva in un'unica cornice sconfinata.

Non che fosse il nostro genere preferito, ma forse perché inattesa, la situazione prima ancora della musica, ci stava parlando uno per uno, non alla seconda B. L'inutile aveva fatto irruzione in forma organizzata e transitiva e finalmente ammissibile. Inutile allo stesso modo del mio rituale di chiudermi al cesso per fumare, inutile il dolore di Alfonso, inutili le nuvole che si insinuavano dentro i porticati di Celana, il collegio dove quasi cent'anni prima aveva studiato Giuseppe Roncalli, più noto con l'affettuosa formula di Papa buono. Inutile tutto quanto.

"A cosa serve la bellezza?" chiese infine Alfonso prima che suonasse la campanella che introduceva all'ora successiva, Tomasoni aveva già preparato sul banco il libro mastro dove segnare i profitti e le perdite. A caricare la chiavetta sulla schiena, ecco a cosa serve, non è vero che non serve a niente!

Ma le risposte giuste arrivano sempre in ritardo, quando l'interlocutore è già montato sulla sua Lancia Fulvia, ridisceso i tornanti che portano ai capannoni e alle fabbrichette, le betoniere arancioni trapuntano la provincia lombarda più laboriosa, qui non si sta con le mani in mano ti ripetono, e diventato a sua volta un fantasma.

Sono passati quarantadue anni da allora. È curioso: ricordo ancora il cognome di Tomasoni, non quello del professore. Eppure non mi è rimasto il suo zelo fattivo, ma le note di Debussy. Si mescolano all'odore di piscio in quell'eterno mancare il bersaglio dei maschi, tracce di merda nel bagno dove ci facevamo anche le seghe, le canne rollate con un movimento del polso analogo alle partite a bigliardino, tutto l'illecito passava da lì. La vita insomma che pensavamo fosse fuori dalle alte mura per non lasciare sfuggire i convittori, a differenza delle ragazze che venivano solo per le lezioni mattutine, poi ci lasciavano a contemplare il culo basculante mentre tornavano dalle famiglie a Brivio, Calolzio Corte, Pontida, Cisano e Caprino Bergamasco, dopo cena si accendevano i televisori sintonizzati su PortobelloDrive In sarebbe arrivato il 4 ottobre dello stesso anno.

E invece la vita era già tutta presente e arroventata, la punta della mia Marlboro ne era una replica in scala diminuita, con tutte le altre sigarette condivideva l'unico limite di consumarsi troppo in fretta. Ma quella è una figura del dopo. Per capire l'adesso che avvolge l'esistenza anche quando non si vede, quando sembra tutto perduto, le mani tra i capelli e venticinque zucconi che ti guardano come se fossi un marziano, bastava pigiare il tasto di un registratore dal suono obiettivamente disastroso.

Torte, libri e seggiovie (mi ricordo 44)

Mi ricordo del primo libro che acquistai, l’aggettivo primo era presente già a partire dal titolo, La prima fetta di torta, a firmarlo se non forse a scriverlo fu Sandro Mazzola, detto Sandrino. Recita il sottotitolo: i problemi, le speranze, le delusioni di un ragazzo con voglia di pallone.

Fino a quel momento avevo letto solamente libri che mi passavano i genitori, di solito si trattava dei romanzi di Mino Milani ambientati nel West; per convincermi a una pratica verso cui non mostravo alcun interesse precoce, anzi e a dirla tutta scantonavo, facevano leva sulla mia passione per i fumetti di Tex Willer. Ma avevo anche già letto Il vecchio e il mare di Hemingway. Lo cominciai, tra uno starnuto e l'altro, una mattina in cui non ero andato a scuola, per terminarlo prima che cominciasse Zorro in tivù. La scelta fu dettata dal fatto che era il volume con meno pagine, almeno tra quelli presenti nella libreria di papà. Poi venne il desiderio di un libro tutto mio, e dal momento che Mazzola era il calciatore che aveva fatto tana nel mio cuore (quando ero più piccolo mi era stata regalata una bambola che ne riproduceva le fattezze, ora la si trova su eBay a prezzi stratosferici) la sua autobiografia mi sembrò la scelta naturale.

Era un uomo affabile, di solito le persone affabili sono un po' rotondette, mentre lui era secco secco ma dalle gambe lunghe e potenti, con cui riusciva a liberarsi dalle marcature a uomo dell'epoca, terzini alla Burgnich che ti seguono fin dentro agli spogliatoi. Inoltre era molto bella anche la copertina, raffigurava un prato verde con alle spalle una porta da calcio, al suo interno undici uomini pronti per iniziare la partita. Ciascuno indossava la blusa di un diverso club, ma erano accomunati dallo sfoggiare i baffetti di Sandro Mazzola. In primo piano, sempre dipinto, un pallone di cuoio con la cucitura esterna, da cui fuoriuscivano i lacci per rinsaldare gli spicchi. Un vero spauracchio nei colpi di testa.

Da parte tenevo un po’ di soldi frutto delle mancette di Natale e compleanno, e così mi avviai verso la libreria Alesso; più che altro era una cartoleria, ma qualcosa comunque si trovava. Chiesi del libro. Sì, certo, l'abbiamo. È edito da Rizzoli: vuole l'incarto da regalo? No grazie, è per me. Tornai a casa e cominciai a leggere sul divano in tessuto grigio del soggiorno.

Temo di avere scordato il contenuto, ho solo qualche reminiscenza. Ad esempio la tragica morte del padre nell’incidente aereo di Superga, al dolore personale si unì un ammonimento filosofico: la grandezza, quella del grande Torino spazzato via in una maldestra manovra di volo, come la bellezza è transitoria; e poi l'esame di maturità sostenuto nel giorno del suo esordio in Juventus Inter, era il 10 giugno 1961, diventò ragioniere poche ore prima di segnare il suo primo gol in serie A; il rapporto con il più giovane fratello Ferruccio, che non riuscì mai a ottenere gli stessi risultati sportivi. Non è solo un fatto di impegno, il talento è asimmetrico e distribuito senza ragione apparente. Tutti motivi della grande tradizione letteraria, mi viene in mente Il soccombente di Thomas Bernhard, al modo di un frattale potevo ritrovarli in un libro alla mia portata, quella di un braccio più avvezzo allo scaffale delle patatine.

Potrei aggiungere che da quel giorno divenni un lettore accanito, ma non sarebbe vero: continuavo a preferire le biciclette da cross, i fucili a elastico, gli occhi marroni dei cani e quelli azzurri delle ragazze tedesche; le riconoscevi in campeggio dalle tre bande cucite sulla maglietta Adidas, e dalle cosce snelle arrostite dal sole.

C’è chi sostiene che la letteratura rappresenti un doppio della vita. Io penso che sia più modestamente una sua regione un po’ discosta, ci vuole determinazione e pazienza per raggiungerla, ma anche il coraggio di Charles Marlow in Cuore di tenebra. Al termine si potrebbe scoprire una diversa geografia dell'umano. Ha il vantaggio, non trascurabile, che ci si entra uno per volta o al massimo in due, come su certe seggiovie; l'altro è l'autore, o per essere più precisi la voce narrante. E mentre sfogli le pagine si mette in moto la seggiovia, risale le pendici di un monte che può essere più o meno alto, lo vediamo animarsi dei personaggi della narrazione. Non tutti i giorni abbiamo le forze per raggiungere l’Himalaya, si può anche andare in libreria e, invece di Delitto e castigo, chiedere l'autobiografia di Sandro Mazzola. Che è poi quello che ho fatto io.

Per un po’ è stato bello stare in sua compagnia: mi diceva guarda lì, guarda là, guarda me. Ma dopo un centinaio di pagine mi venne voglia di scendere – interrompere la lettura è uno dei fondamentali diritti del lettore, scrive Pennac – e lo salutai per lasciarlo proseguire da solo. Adesso mi piace ancora leggere, ma non ne ho fatto un'ossessione. Non comprendo chi vede nella letteratura una Gerusalemme Celeste, pubblicando sui social la copertina dei libri appena letti. È solo carta rilegata penso.

Però devo ringraziare Mazzola e tutte le fette di torta che sono seguite, mi hanno insegnato a scorgere il lato incerto delle cose, il fatto che una torta è una torta ma anche qualcos'altro, una seggiovia è una seggiovia ma pure una via senza più alcun seggiolino, una possibilità a cui non avevamo ancora pensato, o che conoscevamo senza possederne le parole. C'è spazio perfino per l'ovvio, ed è qui che incontriamo la differenza altimetrica: il cattivo scrittore rimane a fondovalle, mentre quelli che poi chiamiamo classici si arrampicano fino a ribaltare le premesse.

Una volta che si sia appresa la lezione – il mondo è liquido – la si può applicare a tutto il resto. Io la misi subito in atto, trovando il mare a lambire il condominio sondriese dove abitavo negli anni Settanta, il cortile era diventato un golfo da navigare in compagnia di altri piccoli marinai. Allora le pensavamo acque limpide, se non altro ci erano risparmiate le immagini dei cormorani con le piume imbrattate di petrolio.

giovedì 14 agosto 2025

Sei un fallito!

È interessante notare come, nelle conversazioni che degenerano sui social, quando l'obiettivo da colpire e affondare con i propri siluri coincide con un uomo, l’espressione più utilizzata dalle donne è: sei un fallito.

Mi è capitato anche ieri con una donna che da tempo commentava i miei post su Facebook – beninteso, non voglio entrare nel merito dello scazzo e avere sostegno: incasso il mio fallito. Se mi concedessi a una replica di pancia direi ogni male di chi l’ha scritto, ma tocca riconoscere che, per una volta – chissà a quanti maschi realizzati l’ha già scritto –, ha colto nel segno. Mi limito a registrare questa cosa: l’inflazione del termine fallito, fuori e dentro al web. Nel secolo scorso si sarebbe detto, che so, sei un cornuto o un piscione o una testa di minchia. Adesso fallito.

Ma se ci pensiamo, possiamo trovare un elemento di continuità con un passato più schietto e volgare. Fallito è infatti l’equivalente ammodernato dello spregio sessuale: invece di dirti che hai il cazzo piccolo ti butto lì, quasi come fosse un'ovvietà, che sei un fallito, hai mancato l’obiettivo di avere un cazzo enorme. Ti è andata male mio caro, e invece della proboscide tieni tra le gambe la coda di un topino.

Per traslato, il Katzone, come veniva chiamato un celebre personaggio di Fellini (pare fosse ispirato a Simenon), occupa un ruolo apicale nell’immaginario tardo capitalistico, disponendo di sottoposti come Califano disponeva delle femmine – per inciso, anche gli studenti sono da considerarsi sottoposti del barone universitario, i lettori di uno scrittore con tanto di fascetta complimentosa, o gli spettatori a un concerto del trapper con la collana d’oro massiccio. Se non è zuppa è pan bagnato.

La cornice di senso rimane dunque quella per cui i maschi di pregio devono essere del tipo alfa; una disposizione femminile ancora ipotecata dai codici affermativi del patriarcato, da realizzarsi per meriti sessuali oppure di gerarchia economica, artistica, sportiva... Basta assegnare al mondo la forma di piramide, quindi occuparne il vertice. A ciò si aggiunga un ulteriore elemento di americanizzazione dell'Occidente psichico, che fa del loser la più ripugnante delle condizioni.

Se si vuole ferire una donna – situazione a ruoli invertiti – ci si rivolgerà così agli eterni attributi estetici: vecchia e brutta i più tipici; il termine zitella e perfino troia hanno perduto gli artigli con la conquista dell'autonomia economica del sesso non più gentil, da cui discende quella sessuale. La vanteria sulla propria voracità erotica se non altro adesso è parallela.

Ma nell'antropologia pseudo colta che si è trasferita dai cineforum alle bolle social, l’affondo estetico assume la via indiretta e eufemistica, oppure si opta per la figura della litote: non esattamente una silfide, non di primo pelo etc. Per giungere a tratti assoluti di cattiveria quando una donna parla di un’altra donna; e penso ad Alba Parietti che, per commentare il matrimonio di Selvaggia Lucarelli con un uomo più giovane di quindici anni, scrive: “Auguri al marito, prenderà la pensione di reversibilità."

Siccome la donna in questione, quella che mi ha dato del fallito su Facebook, non era né vecchia né brutta e neppure fallita, almeno stando a quanto ci teneva a precisare in una sorta di autocertificazione di status (“un fallito che mi insegna la comprensione del testo che insegno da quando ero assistente universitaria, ovvero diciotto anni fa”), si deve concludere che ha vinto lei. Anche perché mi ha bannato per prima, umiliazione irreversibile del quattordicenne che urla al rivale: PICIOPACIO! E poi parte impennando con il suo Garelli truccato.