venerdì 15 agosto 2025

Alfonso (mi ricordo 45)

Mi ricordo che, quando faceva maltemo, le nubi si infilavano fin dentro i porticati del collegio di Celana, uno avrebbe potuto confonderle con nebbia oppure con fantasmi che si erano smarriti. Dopo avere fatto colazione io perforavo le nuvole e raggiungevo i bagni nel cortile eserno, dove mi rinchiudevo per fumarmi una Marlboro. Non lo facevo per nascondermi dalla vista di Don Gino, avevo il permesso di fumare sottoscritto dai genitori, ma quei cinque minuti di raccoglimento mi servivano per iniziare la giornata, che fino al momento in cui sarei tornato nella mia cella per dormire, dopo la consueta preghiera della sera, sarebbe stata in totale promiscuità con gli altri collegiali. Quella mattina le lezioni iniziavano con l’ora di inglese. Il professore risaliva la strada innevata a bordo di una Lancia Fulvia color amaranto, già al tempo – si trattava dell’inverno del 1983, pochi giorni prima Tiziana Rivale aveva vinto il Festival di Sanremo con Sarà quel che sarà – era un modello superato, poteva avere una dozzina di anni. Lui, il professore, una quarantina, portava i baffi e aveva folti e arruffati capelli castani, l’espressione arguta ma sempre un poco triste. Ho scordato il suo nome e anche il cognome, ma mi sono fatto l’idea che uno con una faccia così doveva chiamarsi Alfonso, o comunque uno di quei nomi un po’ anacronistici, come la sua Lancia Fulvia berlina. Entrato in classe si capì subito che era un giorno diverso dagli altri, gli occhi di Alfonso erano più tristi del solito. Oggi non facciamo lezione, disse senza tanti giri di parole. Non me la sento. Ma mi bisogna pur impiegare i nostri sessanta minuti, e così ho portato questo. Estrasse dalla borsa un registratore portatile, l’audiocassetta era già inserita, gli bastò schiacciare un tasto e cominciarono a uscire le note, la qualità audio era disastrosa. Si tratta di Debussy, disse dopo una decina di secondi. È un compositore inglese? chiese Tomasoni dopo avere alzato diligentemente la mano, si trattava del capoclasse. Alfonso sembrò per un attimo ritrovare il barlume di un sorriso nello sguardo. No Tomasoni, non è inglese. Con l'inglese non c'entra niente, nemmeno con la ragione per cui i vostri genitori vi hanno mandati qui per studiare la ragioneria, imparare la partita doppia. Ma non sempre si possono fare cose che servono a uno scopo, aggiunse, e Debussy non serve a niente... A niente, ripetette dopo una pausa. Ma ascoltatelo lo stesso. Non so quanto tempo trascorse, lui alla cattedra con le mani immerse nella selva dei capelli, il suo dolore pareva diventato immenso, noi in silenzio nei nostri banchi di legno massello, a parte Tomasoni gli altri avevano intuito che in quel momento si stava compiendo qualcosa di grande. E quel qualcosa – l’ho realizzato solamente ora – era proprio l’irruzione della bellezza come distillato dell’inutile, inutile e prezioso allo stesso modo del mio rituale di chiudermi al cesso per fumarmi una Marlboro, inutile il dolore di Alfonso, inutili le nuvole che si insinuavano sotto i portici di Celana, il collegio dove quasi cent'anni prima aveva studiato il Papa buono. Inutile tutto quanto. Di quei giorni non mi resterà così lo zelo di Tomasoni, ma le note di Debussy che si mescolano al fumo di sigaretta, odore di piscio, tracce di merda sul fondo della turca, la vita che pensavamo fosse fuori da quelle mura come le ragazze che venivano solo per le lezioni, poi ci lasciavano lì a guardargli il culo mentre tornavano dalle loro famiglie a Cisano Bergamasco, Pontida, Calolzio Corte, dopo cena si accendevano i televisori per vedere Portobello. E invece la vita era già tutta lì, bastava pigiare il tasto di un registratore dal suono disastroso.

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