Mi ricordo che compresi quasi subito la prima regola, come in tutte le attività si trattava di specializzarsi. Da qui ciò che chiamiamo professionalità. La mia specialità, che faceva di me un chierichetto altamente professionale, era porgere le ampolle con l’acqua e il vino al momento della consacrazione eucaristica. Le mani dovevano essere ferme e sicure, se qualcosa finiva in terra lo show era bello che rovinato, non si poteva girare una seconda scena come a cinema, o era buona la prima o don Alberto ti guardava storto, con tutto quello che ne seguiva... Era successo a un ragazzino con gli occhi cisposi a cui scendeva sempre il moccio dal naso. Aveva inciampato nello scendere i gradini del presbiterio per tendere la tovaglietta al momento della comunione dei fedeli, e da quella volta non si era più visto; all’oratorio comunque veniva ancora, non era stato fatto uccidere e poi disciolto nell’acido. Per fortuna don Alberto non si era mai lagnato della mia professionalità – e ci mancherebbe pure, per giorni avevo fatto le prove a casa con le bottigliette di olio e aceto –, e il talare nero sopra a cui indossavo la cotta bianca mi stavano una cicca! Peccato che mia nonna non fosse mai venuta a vedermi nella chiesa grande, tutti la chiamavano così, di fatto si trattava della Collegiata dedicata ai Santi Gervasio e Protasio. A lei risultava più comodo andare in un’orrenda chiesetta modernista a Montagna Piano, più vicina alla fattoria dove abitava con il nonno. Sono certo che la nonna Maria sarebbe stata orgogliosa di me: il nipote chierichetto vale più di otto vasi di gerani al balcone, perfino più di una mucca bruna alpina che produce trentacinque litri di latte. Ciononostante la mia carriera non decollava, mi venivano concesse solamente funzioni minori, un chierichetto poteva dirsi realizzato nel servire la messa della domenica mattina alle undici. Una circostanza in cui le panche erano occupate in ogni fila, anche le seggioline poste a ridosso delle cappelle, pieni gli stalli lignei del coro dietro l’abside, tutto esaurito nello spettacolo con più repliche al mondo, e un sacco di persone in piedi. Si trattava perlopiù di maschi adulti accalcati vicino all’acquasantiera in marmo, così da potere uscire di tanto in tanto a fumarsi un MS, mentre le mogli si inginocchiavano per meglio gustare il corpo di Cristo. A me non sembrava questa gran prelibatezza, preferivo i bignè di Ortelli. Qualcuno li acquistava prima dei canti iniziali, varcavano il portale con in mano il cabaret avvolto da una carta marrone; in tal modo, al termine, non rischiavano di trovare la vetrinetta sprovvista del dolce che aveva fatto la fortuna della pasticceria. La proprietaria assomigliava in modo incredibile a Moira Orfei, credo lei lo sapesse e facesse di tutto per alimentare la cosa – trucco marcato, capelli neri raccolti in una crocchia centrale –, anticipando il fenomeno dei cosplay. Poi in chiesa la gente non sapeva dove mettere le paste, le posavano sulle ginocchia mentre tenevano le mani giunte, una sovrapposizione tra sacro e profano che era bella da vedere: l'incenso fuoriesce dal turibolo e la crema pasticcera preme sulle pareti sottili della pasta choux. La costrizione avrebbe avuto termine solamente a fine pranzo, quando si scartava l'involucro e ci si sedeva sul divano a guardare il Gran Premio di Formula 1, le palpebre calavano piano piano con in bocca il sapore di bignè... Intanto, la mia carriera languiva. Ok, venivo convocato anche per i funerali, ma non mi piaceva l’atmosfera: tutti avevano la faccia lunga e zero complimenti per me, possibile che nessuno si accorgesse della professionalità con cui servivo le ampolle? La ragione non mi sfuggiva, quello era il gran giorno per chi giaceva dentro la bara posta nella navata centrale, era lui, o lei, a essere protagonista. Razionale, ma comunque ingiusto. Alla fine ciò che si offriva agli occhi umidi era solo un parallelepipedo di legno di rovere e noce, per il direttore di una banca si scelse un ebano scuro di grande effetto, ma perlopiù si trattava di larice, abete o pino; le vecchine mettevano da parte i soldi della pensione per l'acquisto definitivo, così da non gravare sulla famiglia. E tra un morto e una messa serale, sempre e solo messe serali, si era arrivati a una nuova primavera. Venni convocato da don Alberto per la benedizione pasquale degli appartamenti, e lì mi parve di avere finalmente svoltato. Quando suonavo il campanello, la croce issata come il pilota che aveva vinto il Gran Premio faceva con la coppa, le persone ci accoglievano con un sorriso, e prima di andare mi allungavano una caramella Rossana, un cioccolatino Lindt, una qualsiasi cosa accompagnata da una carezza sul collo. Arrivati all’appartamento di un professore, non ricordo la sua specializzazione, sulla targhetta stava scritto solo professor Tal dei Tali, si aprì uno spiraglio tra porta e infisso, non mi interessa sibilò una voce da dentro, sono ateo. E sbang, richiuse bruscamente, lasciando sul pianerottolo un vago sentore di cane bagnato. Poveri Testimoni di Geova pensai, per loro deve essere la regola e non l’eccezione. Nel mio caso fu infatti un episodio isolato, anche la benedizione degli appartamenti intendo. Restavo un chierichetto di seconda categoria, la mia scalata ai vertici vaticani si era arenata, cosa c’era che non andava in me? Eppure ero professionale anche negli orari, mi presentavo sempre con un’ora di anticipo, nel timore che altri aspiranti chierichetti venissero per farmi le scarpe. Una volta introdotto in sacrestia mi rivestivo con cura, è inutile che spieghi l’odore che aveva la sacrestia della chiesa grande, tutte le sacrestie hanno quell’odore lì, la gente giustamente lo chiama odore di sacrestia. Credo di non averci più messo piede dopo avere trovato un giornaletto in un prato accanto a un cantiere edile, ero con Federico e stavamo tornando da scuola. Grattando le pagine appiccicaticce e terrose comparve l’immagine di quattro uomini, uno era di colore e avevano appena fatto una specie di pipì bianca dentro la bocca di una donna grassottella, lo si vedeva bene che era grassottella perché era svestita, ci fissava con due occhietti simpatici e furbi. Federico mi aveva rivelato che non si trattava di pipì ma si chiama sburra, suo cugino, due soli anni più di noi, già sburrava alla grande. Uno dei quattro aveva sbagliato mira, il liquido vischioso era finito sui capelli biondi, mossi, da cui colava sul volto paffuto; ma secondo me i capelli erano tinti, e lei si era messa i bigodini per meglio figurare. Anche per farsi sburrare in bocca è necessaria professionalità, e l’uomo che aveva mancato la mira ne aveva mostrata pochina. Se fossi stato l’editore del giornaletto col cavolo che lo richiamavo per un nuovo servizio, facevo come don Alberto. Quanto alla mie competenze professionali, mi furono utili in seguito per versare il vino a tavola, ci penso io dico ancora adesso se viene stappa una bottiglia, quando uno sa fare bene qualcosa è giusto che la faccia, ma non ho più rimesso piede in sacrestia. Con Federico avevamo trovato il giornaletto più appagante, molto più appagante. Ci immaginavamo che se centravi la bocca il fotografo ti diceva bravo, mentre a noi non diceva bravo nessuno, tutto quell'impegno per imparare una professione nel campo dello spettacolo, e nemmeno la nonna veniva ad applaudirti. Ho dimenticato di dire che anche Federico faceva il chierichetto, non ricordo quale fosse la specializzazione, ma potrei mettere la mano sul fuoco sulla sua professionalità. Due minimi professionisti a cui non è mai stata data l’occasione di esibirsi alla messa della domenica mattina, secondo me c’era sotto un giro di raccomandazioni, per non dire di peggio. Magari avremmo proseguito nella carriera, ci saremmo iscritti in seminario, diventati preti, cardinali, persino papi… Perché mettere dei limiti allo Spirito Santo?
Nessun commento:
Posta un commento