domenica 26 ottobre 2025

Un cavallo senza nome (mi ricordo 61)

Mi ricordo che il nonno aveva acquistato un puledro. Di solito commerciava in bestiame, ma quella volta, al rientro da Lodi, nella stalla c’era anche un cavallino tutto nero. È per te mi aveva detto, è tuo.

A me la cosa aveva lasciato un po’ spiazzato: mi piacevano gli animali, ma avevo confidenza con quelli a mia misura – cani, gatti, se la nonna non vedeva prendevo in braccio un coniglio, oppure un pulcino che però non sembrava tanto contento. Ma non sapevo bene come ci si dovesse rapportare con i cavalli, e poi non ne conoscevo il nome.

Lo chiesi al nonno che alzò le spalle. Non ha un nome, daglielo tu. Al principio lo chiamai Tornado, come il cavallo di Don Diego de la Vega, in arte Zorro. Ma c’era un nuovo telefilm che ne stava scalzando la popolarità, il cui protagonista era proprio un cavallo nero. Quasi quasi pensai… e gli cambiai nome in Furia.

La mattina andavo a scuola e il pomeriggio passavo dalla fattoria dei nonni per trovare Furia. La vita di campagna è ripetitiva, ciclica avrei imparato più tardi a definirla, mentre a scuola si imparano sempre cose nuove. In quel periodo la maestra ci aveva parlato di Alessandro Magno, e il nome del mio cavallo mutò nuovamente in Bucefalo. Quando qualcuno mi chiedeva conto della scelta mi piaceva fare sfoggio di cultura.

Ma ormai ci avevo preso gusto, e così Bucefalo divenne in seguito Goldrake, quindi Nerone, Roberto, Geghegè… Ogni volta lo chiamavo con un nome diverso. Lui mi guardava con occhi grandi e scuri come il suo pelo, ma non sembrava turbato dai cambiamenti. Semplicemente si girava al suono di qualsiasi vocalizzo, alla ricerca di una parola, una a caso, a cui aggrapparsi.

Quando provai a dare uno zuccherino a Pierpaolo – era il nome che gli avevo assegnato quel giorno – mi sorpresi nel vedere gli incisivi ampi e giallastri, e ritrassi la mano spaventato. Sei troppo grande Pierpaolo, sei troppo cavallo.

Le mie visite cominciarono così a diradare, non andavo più tutti i giorni a introdurre dell'erbetta fresca nella mangiatoia; e poi a trovare chi, non mi ero ancora risolto per il nome. Un giorno non lo trovai più nella stalla. Dov’è Black chiesi? Il nonno fece nuovamente spallucce. Ma conoscendo i suoi traffici, non è difficile immaginare dove sia potuto finire. Dicono che la bresaola di cavallo faccia molto bene a chi ha carenza di ferro.

Ma perché ne scrivo a distanza di quasi cinquant’anni, perché non ho smesso di ricordare un cavallo senza nome?

Forse proprio per questo. Non ho corrisposto a ciò che davvero ci rende umani: dare un nome a tutto ciò che è vivo e palpitante, dopo che Dio chiamò la luce giorno e le tenebre notte, l'asciutto terra e la massa delle acque mare. Non che metterei la mano sul fuoco sulla citazione biblica – l'Accademia della Crusca stenta a riconoscere le etimologie divine – ma perciò diviene tanto più importante imparare a farlo da soli. C’è una poesia di Osip Mandel'štam che continua a commuovermi, la trascrivo per intero:


Minimo con minime ali

un corpicino ruota nel sole,

minuscola nell’empireo

brilla una lente ustoria.

 

Un niente di zanzara

allo zenith sibila in pianto

e, fioco ronzare di càribi,

geme una scheggia nell’azzurro.

 

«Non dimenticarmi, puniscimi,

ma dammi un nome, dammi un nome!

Si sta meglio, sai, con un nome

nel profondo gravido azzurro!»


La mia colpa non è stata dunque quella di non avere saputo evitare la mattanza dell'animale – probabilmente rientrava già nei piani del nonno, i contadini su certe cose vanno per le spicce – ma di averlo riconsegnato al “profondo gravido azzurro” senza prima avergli dato un nome. E così adesso scrivo nel tardivo tentativo di rimediare.

Ti chiamerai Fratello, è questo il tuo nome. Fratello. Nessun altro nome potrà subentrare a confonderti con gli infiniti altri cavalli, per quanto nero anche al tramonto risplenderai in quelle otto lettere. Ma consentimi, di tanto in tanto, di ricordarti con il vezzeggiativo, pensando a un fratellino che non ha ricevuto ciò che tutti dovremmo avere: una parola che ci distingua, oltre a qualche zuccherino a rendere più sopportabile il morso, la sella, gli speroni nei fianchi. Per poi finalmente diventare solo la pace del proprio nome.

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