Mi ricordo che al termine dell'allenamento veniva organizzata una partitella, cinque contro cinque come prevede il gioco del basket. A comporre le squadre erano due tra i giocatori più forti, di cui facevo parte. Pari o dispari? E dopo il rituale bim bum bam il vincitore parlava per primo: Io scelgo Rigaldo, mettiamo, diceva. Io scelgo Boneschi ribatteva l'altro, io Romoli e così via... fino a che l’ultimo rimasto veniva accorpato a uno dei due gruppi, senza che nessuno l’avesse mai scelto. Di solito si trattava di Pozzi.
Era un ragazzino con i capelli alla Beatles prima maniera, probabilmente era la madre a eseguire il taglio dopo avergli posato una scodella in testa. Operazione da cui usciva un paggetto senza alcun re da riverire, un soldatino privo di vera vocazione alla guerra, e a ben vedere anche alla pallacanestro. Non che fosse basso, ma neppure alto: una via di mezzo pacificata con il suo morfotipo, più adatto al bigliardo o alla briscola chiamata; l’avrei visto altrettanto bene su un bob che sfreccia tra gelide pareti di ghiaccio, con la fretta di chi si senta attratto dal tepore.
Non si capisce cosa ci facesse in quel gruppo di adolescenti che mirava al vertice del canestro, in cui a lui non c'era verso di far cacciare dentro il pallone. Eppure era simpaticissimo, aveva come si dice altre qualità, disconosciute nella feroce selezione per merito sportivo. Allora non badavamo a come potesse sentirsi: essere degli innominati – mai una voce a pronunciare il tuo nome –, dei resti quanto tutte le scelte sono già state compiute. Essere dei Pozzi.
Negli anni a seguire ci siamo un po’ persi di vista, l’ho incrociato una volta a un funerale, anche se la città è piccola il tempo spariglia. Ma ogni tanto mi capita ancora di pensarlo. Accade quando entro in un locale modaiolo, posso cogliere la geometria degli sguardi femminili. Si muovono tra le pareti, o nei dehor, come il raggio delle torce nei film dove un detenuto è scappato di prigione; la Polizia lo sta cercando nel pieno della notte, la macchina da presa indugia sugli stivali che calpestano l’erba umida di guazza. Intanto i cani lupo abbaiano e trascinano la mano che impugna il guinzaglio.
Quando arriva al mio corpo quel raggio però passa oltre, o meglio mi trapassa, sono irrilevante in quanto irrilevabile. Lo sguardo delle giovani femmine continua così a saltabeccare nervoso, aristocratico: se io valgo – e questo pare essere un dato acquisito, una premessa apodittica – mi arresterò solo nello scorgere un oggetto maschile di pari valore. Nel trovarlo gli occhi si bloccano, lo puntano, lo scelgono. Io scelgo Rigaldo, io Boneschi, io Romoli… Ecco, lo stesso.
Rimane l’atleta più negletto, che in questo caso sono io. No, non c'è niente di bello nell'essere diventati dei Pozzi, trasparenti alla vita pulsante promesse, poco importa che siano da marinai. Ma esiste se non altro un vantaggio. Puoi fuggire di prigione tutte le volte che vuoi, e al rientro dall'ora d'aria nessuno si accorge della tua assenza all'appello.
Nessun commento:
Posta un commento