sabato 20 settembre 2025

La guerra è finita

Ti dicono: i vecchi sono sempre lì attaccati alle sottane del passato, manca loro curiosità verso il nuovo. Un po’ è vero, dai. Mi ricordo che lo dicevo anche io a mia madre quando, adolescente, ascoltavo a palla Born to Run. ABBASSA mi strillava lei dalla cucina. Ma come mamma, è Bruce Springsteen! Non mi importa chi è, sono solo strontonate. Le canzoni dei miei tempi… quella sì che era musica.

Potrei ripetere la stessa frase di mia madre quando inciampo in una stazione radiofonica privata. A quel punto, mi dico, meglio un dibattito sulla teologia apofatica su Radio3, a cui ritorno. Oppure passo a Spotify. Tra i gruppi italiani recenti gli unici che ascolto sono i Virginiana Miller e i Baustelle, entrambi di origine toscana. Ma se vado a vedere la loro età, mi accorgo che i componenti hanno superato i cinquant’anni. Sarebbe come se negli anni Novanta avessimo definito i Beatles musica del momento.

A me in ogni caso questi piacciono, di meglio non trovo. E quando mi piace qualcosa cerco di smontare il giocattolo per vedere come è fatto dentro. Lo so che è un azzardo, godimento e comprensione fanno a cazzotti, o uno o l’altro, ma è più forte di me. Poco male comunque, in genere ottengo il responso di Corrado Guzzanti nei panni del guru Quelo: “La risposta sta dentro di te. Ma è sbagliata.”

Nel caso dei Baustelle ho però avuto un’intuizione. Stavo rivedendo American Beauty, già pregustavo la mia scena preferita. Ricky, il ragazzo introverso, lo spacciatore di droga, l’inquietante personaggio che non sappiamo bene come catalogare – è un angelo o un diavolo? – mostra a Jane un videotape. L’ha realizzato lui stesso in ampio anticipo sulla videocamera degli smartphone. Sam Mendes adotta un’interessante triplicazione del punto di vista: la macchina da presa è in soggettiva di Jane, di Ricky ma anche in oggettiva dello spettatore, che incorpora così lo sguardo di entrambi.

Una sottigliezza di regia dalla quale capiamo di essere a uno snodo centrale del film, e un po’ rimaniamo delusi nel vedere una busta di plastica, nient’altro che una busta di plastica bianca sollevata dal vento, è sospesa a qualche spanna dal suolo e si muove in una specie di danza rallentata. Non abbiamo nemmeno il conforto di un cielo azzurro solcato da cirri vaporosi, l’immagine è chiusa da una parete di mattoncini rossi, qualche foglia secca a completare la coreografia, tutto molto ordinario e quasi squallido. La sequenza è accompagnata dalle seguenti parole di Ricky, le trascrivo per intero:

“Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica, e c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla, mi segui? e questa busta era lì, danzava con me, come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita dietro a ogni cosa, e una incredibile forza benevola, che voleva sapessi che non c'era motivo per avere paura, mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so, ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla, e il mio cuore sta per franare."

Sarò ingenuo e sentimentale, ma a me sembra che l’arte, al suo meglio, dovrebbe fare lo stesso. Concentrarsi su quanto di quotidiano e perfino degradato si offre. Non per dire fa tutto schifo, e poi piove governo ladro. A guardare bene è infatti possibile scorgere una scintilla di bene, di bellezza e ti sussurra: non avere paura  maiÈ come il puntino bianco che occhieggia all’interno della porzione nera del Tao. Italo Calvino lo dice con parole diverse, ma il concetto è il medesimo:

"Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio." (da Le città invisibili, Einaudi, 1972)

In molte canzoni dei Baustelle trovo un'analoga disposizione: il contesto sociale è marcio e corrotto, in questo caso si tratta dell'inferno di una decadenza piccolo borghese, spesso con velleità artistoidi. Eppure anche loro sanno riconoscere ciò che non è inferno, e gli danno spazio, lo fanno durare. Oltre i pochi minuti della traccia musicale è come se si generasse un'eco di radianza. O se si preferisce, colgono il sacchetto di plastica mentre si solleva e comincia a danzare, in una bellezza che non è redenzione ma una prospettiva diversa sul naufragio.

Per essere onesti non sempre ci riescono. In altri casi si intravede un po’ di meccanicità nel processo, l’intenzione traspare e sono i brani meno convincenti, come se volessero épater le bourgeois. Ma quando non cercano l’artificio e si abbandonano a un’ispirazione genuina e disarmata, accade, semplicemente, ciò che deve accadere. E dietro ogni prosaica cosa si intravede un'intera vita.

A me è capitato ascoltando La guerra è finita, negli ultimi anni sono particolarmente sensibile al tema del suicidio. È ciò che fa la protagonista della canzone, un personaggio sgradevole, una stronza viene detto nel testo, una sedicenne che fuma crack, ruba all’Esselunga e si mette insieme a un nazista conosciuto in una rissa. Va da sé che a scuola il professore la bolli come emotivamente instabile, viziata e insensibile. Sullo sfondo, riportate dai radiogiornali, le guerre balcaniche e i bombardamenti di Belgrado da parte della Nato.

Ma proprio prima di respirare il gas, prima di collegarsi al caos, dunque all’orlo del precipizio che calamita l’intero mondo simbolico del gruppo di Montepulciano, incontra anche lei quell’incredibile forza benevola. No, nessun lieto fine, non siamo all'interno di un film di Frank Capra. Con una Bic profumata, da attrice bruciata precisano i Baustelle, trova la forza di sputare su un foglio parole nere di vita, non di morte, ecco la piroetta prospettica che lascia intravedere il riflesso della luna nel pozzo. Eppure è un commiato e non ha nessuna intenzione di fermarsi. La guerra è finita scrive impaziente, per sempre è finita, almeno per me.

E a chiunque non sia ancora franato il cuore, a chiunque riesca a spostare lì lo sguardo e fare spazio, il tempo si dilata quale chiaro indizio di non-inferno, anche se manca qualche diottria vedrà decollare il sacchetto di plastica bianco. E a quel punto la guerra è davvero finita.

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