Uscirà domani per Einaudi l'ultimo lavoro filosofico Giorgio Agamben, si intitola Alla foce. Naturalmente non lo leggerò, ma sono contento che esca proprio per avere la possibilità di non leggerlo – e cioè, meglio, di scegliere di non farlo, non semplicemente di ignorarlo – secondo un'aurea intuizione di Giorgio Gaber contenuta nel monologo Cosa mi sono perso, da Io se fossi Gaber, 1982:
"Essere a casa e pensare: Questa sera mi sono
perso il Machbeth. Che colpo, ragazzi! Venerdì mi perdo La tempesta. Sono già
tutto eccitato. Carmelo Bene me lo perdo martedì. No, martedì c'è un film
stupendo di Coppola. Ormai devo perdermi quello lì, è fissato."
Ma per avere la goduria da omissione bisogna
possedere almeno degli indizi di ciò che ci si perderà, altrimenti non vale, si
sgonfia buona parte del piacere. Cerco dunque sul web, e trovo un passaggio dal
nuovo libro di Agamben:
"Le cose che ci-non-sono si manifestano solo
nella misura in cui le cose che ci sono appaiono in una nuova luce. Esse non
sono forse altro che questa luce - così reale e prezioso è il loro non esserci."
Cosa significa? Ma niente, ci manca pure che
significhi qualcosa: non sarete tanto antiquati da volere estorcere una
comprensione razionale a parole che hanno nella superficie la
loro ragione sufficiente, anzi ottima, come quando da bambini si tinteggiava con la vernice dorata i pastrocchi creati col Das – forse non erano dei
capolavori scultorei, ma lo sberluccicare nella penombra delle camerette ne compensava i limiti. E così le
cose che ci-non-sono, provate a fare di meglio se riuscite, a risultare
dotti e pensosi con una semantica pari a ciao mamma guarda come mi diverto
oh oh ah ah ah.
Con la differenza che in Jovanotti lo svacco era
programmatico ed esibito, il significato corrispondeva al significante per un
postmoderno eccesso di energia da scaricare al suolo, mentre Agamben ci
restituisce l'impressione di scrivere raffiche di haiku sapienziali; un
procedere lambiccato che sostituisce l'ornamento al senso, altrimenti noto come
kitsch intellettuale. Lo stesso Agamben, parafrasando Milan Kundera, lo
spiegherebbe a questo modo: un'adesione categorica all'essere-non-si-ci-di in
quanto tale.
Eppure il lettore – quel lettore un po'
approssimativo come me, intendo – non ne ha a male, e viene piuttosto
gratificato dai riflessi che gli sembra di cogliere sulle onde di parole che si
chiudono in risacca prima di raggiungerlo, si sente più intelligente nel
bagnarsi i piedi con la schiuma di frasi che sono l'iscrizione a un club
esclusivo, il Rotary delle biciclette nuove di zecca ma il mio papà mi ha detto
di non prestarla a nessuno, il Lyon's di chi non parla come mangia ma guarda
gli altri mangiare caviale. E tanto basta per percepirsi parte del banchetto.
Anche qui tocca però rendere a Gaber quel che è di
Gaber, ancora una volta ci ha anticipati, questa volta lo fa nella canzone Il comportamento, da Libertà obbligatoria, 1976. Porca miseria, mai che
si riesca e risultare originali come fa Agamben. Quasi quasi ho cambiato idea e
me lo leggo, con lo stesso spirito di Gaber quando legge Hegel:
"Quando invece sto leggendo Hegel
mi concentro sono tutto preso
non da Hegel naturalmente
ma dal mio fascino di studioso."
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