Semplifico. Limitandosi ai contenuti, ci sono tre soli
modi per scrivere: 1) contro qualcuno o qualcosa; 2) a favore di qualcuno o
qualcosa; 3) scivolando sulle cose senza aderirvi, come un treno, una slitta o
ancora più precisamente un flâneur, che guarda registra e passa. Non faccio
troppa differenza tra scrittura saggistica, filosofica e narrativa. La
disposizione resta la medesima.
La scrittura di tipo uno, nella mia esperienza, è
quella che ottiene maggiore consenso sui social. E nella categoria aggiungo
ironia e soprattutto sarcasmo, che sono un modo pacifico ma non meno aggressivo per
svalutare il proprio ilare oggetto, e in ultima analisi abbatterlo come si fa
con le statue a ogni cambio di regime. Evidentemente c'è una parte del cervello
– il cervello rettiliano, in questo non siamo troppo diversi da una lucertola –
a cui piace ingaggiare conflitti, intruppandosi per vivere esperienze cameratesche.
E bon, lo faccio anch'io. Non critico ma prendo atto.
La scrittura di
tipo tre, possiamo anche chiamarla del passeggero curioso, si colloca al
secondo posto in termini di social-gradimento, ma ha bisogno di essere sorretta da
qualità estrinseche, ad esempio lo stile. Se cazzeggi benino, senza prendere
posizione e naturalmente limitando la lunghezza dei testi, con l'ironia che si stempera in autoironia, piaciucchi, via. E di nuovo mi sento allineato: apprezzo i
divagatori virtuosi, gli aneddoti insignificanti ma talmente ben scritti da
tenere desta l'attenzione. In fondo la forma romanzesca si basa sullo stesso
principio, la polpa di un romanzo si riduce a quattro o cinque punti in
scaletta, almeno se non è un giallo tutto colpi di scena e agnizioni.
Diversamente, può essere riassunto in mezza paginetta scarsa. Il resto è
divagazione, digressione, squisitissimo brodo da allungare.
E siamo ora alla nota dolente, scrivere per e non
contro, celebrare, gli antichi la chiamavano pars costruens oppure
apologia. A loro piaceva molto, ma oggi deve essere considerato poco virile,
non so... È un fatto che tutte le volte che provo a parlare bene di qualcosa, o di qualcuno, vengo un po' snobbato. C'è però un’eccezione, anzi due. La prima è il
sesso, e qui diamo per scontato quel che accade. Quindi
vengono i lutti, le catastrofi, invasioni di cavallette etc. Il genere tragico
va sempre alla grande, meglio ancora fa il patetico. Che sia il compagno di
liceo morto in un incidente stradale, gabbiani lordi di petrolio, bambini, se vuoi andare sul sicuro scrivi della sofferenza dei bambini; ma basta un semplice ciao
accompagnato da un selfie dopo esserti fatto bruciare una verruca. Sono
contenuti che fanno tombola, e anche qui non è azzardato ipotizzare una
connessione cerebrale: il cervello limbico si attiva quando sollecitato da
fattori emotivi, facendo scattare l'empatia.
Detto ciò, dovrei essere attrezzato alla navigazione
su internet, sapere cosa attendermi dalle sue onde emozionali. Eppure ci resto
sempre un po' male quando mi cimento nella seconda sventurata categoria di
scrittura; se ci ricasco puntualmente è perché sono mosso da gratitudine autentica, e mi illudo che ciò che
amo venga ugualmente amato. Ma poi vedo che il postino restituisce le mie
cartoline al mittente. Con l'ultimo intervento ho addirittura raggiunto il
record personale di sbadigli e defezioni, in vent'anni che bazzico il web nessun testo
era stato meno apprezzato. Un fiasco totale, nemmeno la messa in scena di Un
marziano a Roma di Flaiano era riuscita a fare peggio.
Va aggiunto che ho probabilmente scritto cose
migliori, ma pure certe scemenze di cui ancora mi vergogno... Ma invece di
frignare, cerchiamo di capire come funziona la comunicazione al tempo di
Facebook, Instagram, X e Tik Tok; che è poi la ragione per cui mi sto facendo
la radiografia. Nella circostanza ho peccato tre volte come Pietro, scrivendo
in termini elogiativi di tre degli oggetti simbolici che più mi affascinano: il
monologo di un film (ma ho parlato bene anche del film), una canzone dei Baustelle
e una frase di Italo Calvino. Quindi ho provato a collegarli tra loro, ho unito
i puntini, e il disegno che è emerso possedeva talmente tanta bellezza da
stordirmi – bellezza che scaturiva dagli incastri e le ricombinazioni, non sono così presuntuoso da autoelogiarmi senza ritegno. Ma
possibile che sia l'unico coglione a vederla?
In questi casi una domanda te la fai. In fondo il senso ultimo della condivisione si nasconde tra le pieghe del termine: si divide qualcosa per goderne con altri, meglio mangiare pane e mortadella in compagnia che caviale da soli. È l'unica remunerazione di un gesto altrimenti privo di significato e moneta, i cuoricini che seguono, se seguono a lisciarti il pelo, ne sono un correlativo di superficie, ciò che davvero procura piacere è che i commensali godano dello stesso cibo. Ma che succede se invece sputano ciò che a te fa leccare i baffi, o non vedono quella luce che ti abbaglia? Il dubbio di essere un po’ tocco si insinua, già che per definizione sono i matti a vedere le cose che stanno solamente nella loro testa. Starò mica diventando matto?
In conclusione, per sentirsi normali e bene integrati è meglio non azzardare ricette esotiche, vai sul sicuro con una bella birretta. In assenza l'urina può essere un ottimo succedaneo, basta non versarla nelle caraffe – mi raccomando! – e usarla per pisciare in testa a qualcuno. Quindi ridere con tutti quelli che saranno accorsi a dare manforte; come noto, siamo una nazione incline a correre in soccorso di vincitori e vincenti. E poi chi non piscia in compagnia o è un ladro o una spia. E così giù tutti a pisciare in testa al malcapitato di turno, darsi di gomito, fare gruppo, squadra, branco. O ancora meglio: fare social. Che è un modo come un altro per fingere di essere sani.
PS – il testo a cui mi riferisco si trova qui.
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