domenica 28 settembre 2025

Orvieto (mi ricordo 51)

 

Mi ricordo di Orvieto. No, non il borgo umbro sempre e solo intravisto dall'A1: abbarbicato alla rupe di tufo segnalava che tra un'ora, abbondante, sarei arrivato a Roma. Orvieto era un mio compagno di scuola delle medie. È passato talmente tanto tempo che ricordo solo il cognome, oltre al cespuglio nero e crespo dei capelli. Spiccava nella fila dei banchi alla mia sinistra, verso i finestroni da cui si scorgeva il cubo di cemento della palestra e, più dietro, l'arco dell'Adamello, le cime erano innevate fino a tarda primavera.

Il suo anonimato si rifletteva negli studi, in cui non brillava di certo; ma nemmeno collezionava note sul registro come me. Una via di mezzo, una media leggermente al ribasso, con tutte le premesse per diventare un uomo altrettanto medio. Abbozzi di vita in cui la cornice si ingoia piano piano il ritratto. O perlomeno così appariva, e questa è una storia che mi ha insegnato a diffidare delle apparenze.

In ogni caso, quella brava era l'Acquistapace. Piccolina, occhi azzurri, capelli lunghi e lisci e biondi. Talmente graziosa che l'avrei posata nel muschio del presepe al posto della vergine Maria, l'età era grossomodo la stessa. Di lei naturalmente ricordo tutto, tra cui il nome, Simona, e l'odore di marzapane che emanava quando si alzava per andare alla cattedra a ritirare il suo tema, dopo che la professoressa Cozzini ne aveva letto uno stralcio.

Trascorsi pochi giorni dal compito in classe di italiano, era una prassi a cui avevamo preso l'abitudine: sia la lettura di qualche passaggio dal tema con il voto più alto, sia che quel tema appartenesse all'Acquistapace. Fu dunque grande lo stupore, una mattina in cui il sole tardava a manifestarsi e l'Adamello era più innevato del solito, nel non sentire leggere il solito tema dell'Acquistapace, ma per intero quello di Orvieto. Titolo: Parla di tuo padre.

A un certo punto la Cozzini si commosse pure un po'. Fu quando, con parole semplici e sentite, Orvieto descriveva il ritorno dal Belgio del padre; per anni intanato nelle miniere di carbone della Vallonia, fino a quel giorno lo aveva visto solamente nelle brevi vacanze. La gratitudine per l'uomo che sentiva tossire nel letto, la silicosi come forma concreta dell'affetto di un genitore per il figlio, che lo ricambiava con l'inchiostro di una Bic dal cappuccio mordicchiato. Il sotto testo pareva essere: prendete e mangiatene tutti, questo è il corpo di mio padre offerto in sacrificio per le vostre case ben riscaldate.

Non sto dicendo che fosse un capolavoro, ma per la prima volta intuivo che si poteva sciogliere un po’ la briglia senza cascare da cavallo, respirare invece di tenere sempre il petto in fuori. Se i miei temi erano pieni di sarcasmo per sfuggire la trappola di una retorica zuccherosa – avevo una fama da bullo da mantenere –, non la grande letteratura ma il tema di Orvieto mi mostrava ora il mondo da una prospettiva diversa: essere porosi, assorbire, non avere fretta di gridare sono qui! Prima o poi ciò che si riceve deve però essere restituito, cambia solo la forma che somiglia a una staffetta.

Prendere per dare, dare per prendere, ma quel che davvero conta è il tempo intermedio, in cui i due gesti possono crescere nel silenzio. Come se a scuola l'insegnamento più prezioso consistesse nell'intervallo. Peccato che la mia indole fosse votata all'impazienza, così il tema di Orvieto mi lasciava spiazzato... Per me scrivere era una partita a tennis, la pallina andava ributtata subito dall'altra parte, e l'eventuale bellezza era costituita dalla veronica di Panatta; il gesto plastico e virtuoso che strappa l'applauso al pubblico del Foro Italico.

Una contrapposizione che vedo riproporsi anche adesso: chi si esalta per lo stile, gli sperimentalisti, i gaddiani; chi per le storie semplici e toccanti, da cui ricavare uno sceneggiato per Rai2. Quella di Orvieto non finisce in un inverno lontano. Gli anni Settanta sfumano e cedono il loro piombo ai sabati sera infebbrati, con il Ministro delle Partecipazioni Statali ripreso mentre balla in discoteca, la lunga chioma oscilla al tempo delle basi campionate. Devono passare altri tre decenni, nei quali la Fiat passa dalla Ritmo alla nuova 500.

Lo immagino quando si presenta di fronte all'armeria dei genitori dell'Acquistapace, ormai è un uomo di mezza età. È lei ad avermelo raccontato, trent'anni anche quelli in cui ci siamo persi di vista; tanti da pensare a una conclusione definitiva, nessun Roxy Bar dove ritrovarsi a bere del whisky come le star. E invece si trattava di un altro intervallo, il nostro Roxy Bar si chiama Bar Piero: io ordino un caffè d'orzo, lei un tè caldo. Che strana impressione vedere delle piccole rughe a lato degli occhi della Madonna... Ma nel salutarci con un bacino sulla guancia, mi sono accorto che odorava sempre di marzapane.

Orvieto prima si guarda in giro, legge bene l’insegna, esita. Poi entra nel negozio continua l'Acquistapace, e posa un fucile sul bancone. È avvolto nella carta marroncina come fanno nei film americani con la bottiglia di Jack Daniel's.

– Posso lasciarlo qui? – chiede Orvieto alla madre dell'Acquistapace.

– Mi dispiace, non trattiamo armi usate.

Poi però lo scarta, soppesa il calcio in legno di ontano controllando che non ci siano graffi, scorre le dita sul cane, verifica che la sicura sia inserita e preme leggermente il grilletto: – Comunque sembra in buono stato, può farci ancora qualche centinaio di euro.

– Mi scusi, c'è un equivoco. Non sono qui per i soldi: mi basta liberarmene, non voglio più vedere questo fucile!

– Non capisco...

– Ero compagno di scuola di sua figlia. Me la saluti, a proposito, quando la sente. Lo consideri un regalo.

Tocca ora fare una pausa e ricordarsi del tema delle medie. Il padre che tossisce, la silicosi, fatica e dignità nel campare una famiglia – la propria famiglia. Amore, diciamolo pure senza girarci attorno. Show don't tell insegnano nei corsi di scrittura. E noi invece lo scriviamo, non vogliamo mica essere i primi della classe, dei sotuttoio come l'Acquistapace. Piuttosto degli Orvieto, persone che si barcamenano tra concetti spesso troppo difficili per loro (la crisi climatica, il PNNR, la geopolitica), ma almeno una cosa l'hanno imparata, anzi lui la possedeva al massimo grado e senza bisogno di studio. I sentimenti.

– Con questo fucile – conclude Orvieto –, mio padre la settimana scorsa si è sparato.

venerdì 26 settembre 2025

Paradise (mi ricordo 50)

Mi ricordo di una ragazza conosciuta all'Aprica in una discoteca chiamata Charlie Brown. Indossava dei fuseaux neri di un tessuto sintetico altamente infiammabile, sulla t-shirt grigiastra erano presenti delle figure viola slavate, i contorni apparivano indistinti. Qualcuno, come con le macchie di Rorschach, poteva scorgere frutta di stagione, altri pipistrelli crocifissi sull'altare del buon gusto. Quello che pensavo di avere io che mi vestivo seguendo la moda del momento. Per fortuna si vedeva e non si vedeva, sopra portava un chiodo di pelle logora trapuntato da borchie metalliche, sembravano essere state appena lucidate da un polacco in sosta ai semafori. Tutte le volte che le borchie venivano colpite dal fascio delle luci stroboscopiche il semaforo si accendeva, subito dopo si spegneva, si riaccendeva di nuovo, confondendo gli automobilisti.

I piedi erano nascosti sotto il tavolino dove ci eravamo appartati a bere Cosmopolitan, ma avrei scommesso sulla presenza degli anfibi del Dr. Martens. Mi chiedevo se appartenesse al gruppo dei metallari, oppure fosse una punk, una dark… Avevo ancora le idee un po’ confuse al riguardo. Le domandai così che musica ascoltasse, e lei fece i nomi di Led Zeppelin, Clash, AC\DC, Cure. Abbassando il tono della voce aggiunse: I Queen. CHI? risposi io, il frastuono di sottofondo si era mangiato il gruppo di Freddy Mercury, ma lei ripeté sillabando alla maniera dei sordomuti, come se temesse di essere udita dalle amiche. Stavano qualche divanetto più in là e ridevano alle battute di un ragazzo magrissimo vestito allo stesso modo, ma con la zavorra di una catena che quasi toccava il suolo.

Le informazioni ricevute non mi aiutavano a dissipare le nebbie di una catalogazione ritenuta fondamentale. Di certo stava provando a fare lo stesso con me, e per non essere identificato misi la mano destra sulla pecetta che pendeva dalla manica opposta della mia felpa Stone Island, intuendo che quel particolare non avrebbe giocato a mio favore. Feci un po' il furbo anche quando mi girò la domanda che le avevo appena fatto, tacendo la mia passione per le canzoni di Drupi e genericamente accennando a Neil Young, Bruce Springsteen… Ma i Led Zeppelin piacciono molto anche a me, mi affrettai ad aggiungere.

Non so quanti minuti fossero già trascorsi senza esserci ancora guardati in faccia, tutta l’attenzione era stata fino a quel punto rivolta a una sorta di selezione all’ingresso. Quel modo di scrutarti, dal collo in giù, che aveva il buttafuori del Charlie Brown, prima di stabilire se eri adeguato al locale. Ci andavano i figli di papà milanesi e noi provinciali che li studiavamo cercando di imitarli. Probabilmente l'energumeno stava starnutendo, e zac: il tipo ilare con la catena appesa in vita si è infilato. Così quando entrambi alzammo lo sguardo mi accorsi che i suoi occhi – naturalmente bistrati – possedevano un’espressione mite e quasi triste, a posteriori direi fossero gli stessi occhi nocciola del cavallo abbracciato da Nietzsche in piazza San Carlo. E in quel momento anch'io avrei voluto abbracciarla. 

Fu forse il motivo per cui la sua immagine è rimasta sfocata nella memoria. La carnagione mostrava poca confidenza con il sole, i capelli erano neri e però quale fosse il taglio, o come si diceva allora l'acconciatura, mi sfugge, o meglio non vi prestai alcuna attenzione. Potrei dire, per coerenza, che aveva la cresta moicana, ma la verità è che non lo so. Un'incertezza da estendere al naso: pronunciato o piccolo e sottile, in stile Giorgio Armani? E i seni? Di norma non sono attratto dalle maggiorate, e il fatto che cominciassi a fare fatica a deglutire il Cosmopolitan mi fa ipotizzare delle tettine, bulbi di piante esotiche non ancora sbocciate, alla Jane Birkin. Io e il diaframma abbiamo trovato questo modo di comunicare, e ora mi stava dicendo datti una mossa, scemo, o contraggo più forte!

Fu allora che presi il coraggio di invitarla a ballare, il dj stava sfumando l'invocazione impaziente di Tracy Spencer, run run run to me... e le luci si erano abbassate, con il pinspot diretto alla sfera specchiata che aveva cominciato a roteare. Non ci voleva molto a capire che stavano arrivando i lenti. Le amiche della ragazza, sbuffando, uscirono a farsi una canna assieme a Sid Vicious, lui si trascinava la catena mentre continuava a fare battute a cui più nessuno rideva. C'è solo da sperare che al buttafuori venisse di nuovo da starnutire al loro rientro.

Non saprei nemmeno dire se mi rispose o semplicemente annuì, per raggiungere con i suoi enormi anfibi (avevo indovinato) i riquadri della pista pulsanti sequenze cromatiche, dove i nostri corpi si accostarono, poi si unirono, poi si strinsero come si stringe un compaesano ritrovato per caso a Ellis Island. Una possibilità tra un milione che fosse propio lui nella calca di uomini, donne e pidocchi all'ombra della Statua della Libertà, monumento di carne in cui ci eravamo trasformati. Ora oscillava ma senza crollare, ricomposto nella resa, nulla più da dimostrare difendere accreditare. E scoprire che si poteva stare bene anche tra le note paracule di Paradise di Phoebe Cats.

giovedì 25 settembre 2025

Stop al dialogo

 

Una persona che stimo ha pubblicato ieri su Facebook il post che riporto. Preciso che si tratta di una donna intelligente, italiana, a cui voglio bene. Il suo passaporto è però anche israeliano, avendo sposato un uomo che proviene da quella nazione. E con ciò non voglio dire che le voglio meno bene. Ma veniamo al post:

“Un drone yemenita oggi ha colpito Eilat mandando in ospedale ventisette persone. Quindici droni israeliani hanno scalfito quattro barche spaventando l’equipaggio. C’è vita su Marte.”

Quando l’ho letto sono sobbalzato sulla sedia, e con un eccesso forse di reattività ho risposto nei commenti:

“Questo post suona come definisci bambino. Ma stiamo scherzando? Israele è una nazione in guerra – giusta o sbagliata che sia, adesso non voglio entrare nel merito – e in guerra un po' le si prende (pochissimo, nel caso di Israele) e un po' le si dà (moltissimo, anzi troppo). Mentre Flotilla è un gruppo di imbarcazioni civili ancora in acque internazionali, sono dirette non in Israele ma in territori che si vorrebbe autonomi, con l'unico intento di consegnare beni di prima necessità alla popolazione civile prostrata. Nemmeno i nazisti sparavano sulla Croce Rossa.”

Sua risposta:

“L’unico intento? ma cielo Bruno (mi chiamo Guido, non Bruno. Ma non importa) ti sei rincretinito anche tu? Sentite basta con queste cazzate non ce la faccio più. Questa gente vuole solo più sangue. Per quanto riguarda ‘definisci bambino’ a te e a tutti gli amici dei palestinesi liberi che conosco molto meglio di voi chiedo ancora, cari bacia banchi, cari belli e rivoluzionari, cari imbeccati e manovrati, cari lobotomizzati, ancora, di definirmi bambino.”

Ho trascritto la scambio per intero non per creare una sorta di gogna social, e dunque cancellerò tutti i commenti che dovessero insultare la mia amica con passaporto israeliano. Il punto non è infatti riaffermare una presunta superiorità morale, dove si vuole che i buoni siano per definizione coloro che la pensano come noi; per gli israeliani, o i filoisraeliani, ovviamente come loro. No, nessuna anima bella e anima brutta.

Intendo piuttosto mostrare come, nella fase attuale, non sia possibile alcun contradditorio con l’altro, anche quando l’altro non possieda le sembianze di un orco. Nel mio caso, si tratta di una persona con cui fino a pochi mesi fa sarei andato allo zoo a bere sangria, come canta Lou Reed in Perfect Day. L’ha intuito ed espresso molto bene Iachetti. Nel suo essere un po’ naif (lo fa per finta, intendiamoci) ha svolto il ruolo del bambino che indica la nudità del re.

Ciò che ci insegna il bambino Iachetti è che ognuno deve andare avanti per la propria strada, il re nudo consiste in tale intransitività. Ci sarà tempo, in futuro, per intendersi e rinsaldare i legami di amicizia. Adesso Israele va unicamente contrastato. Con mezzi possibilmente non violenti, come sta facendo Flotilla. Ma anche con iniziative politiche, boicottaggi internazionali (non artistici o sportivi, preciso a scanso equivoci), sanzioni, sospensione nell’invio di armamenti etc.

Israele deve essere considerato a oggi nostro nemico, lo dico crudamente e senza tanti giri di parole. E i chiarimenti col nemico vanno fatti a pace avvenuta, ciò che si può fare nel pieno di un conflitto si chiamano trattative, i cui strumenti sono da sempre carota e bastone. Non dialogo. Anche perché cosa cazzo vuoi dialogare con chi irride agli attacchi a una missione umanitaria, donne e uomini civili che rischiano la propria vita per portare soccorso. Quel soccorso promesso e continuamente procrastinato dal Governo italiano.

Confini

Israele spara contro Flotilla in acque internazionali. Un aspetto importante che va sottolineato, come il fatto che la missione umanitaria non è in rotta verso i confini di Israele, ma verso quelli della Striscia di Gaza.

Stiamo parlando di un territorio autonomo da Israele, almeno per il diritto internazionale. Qui Flotilla intende portare beni di prima necessità per la popolazione civile stremata, non armi, non menare le mani per una fazione o per l'altra. Nemmeno i nazisti sparavano contro la Croce Rossa.

Ma evidentemente Israele sente di avere il monopolio nel perforare quei confini, anche quando la perforazione negata è quella di una siringa contenente antibiotici. In ciò fa pensare a uno stupratore che dica al fidanzato della vittima: "Ehi, ragazzo, gira al largo. Prima devo finire di puciare il mio biscotto."

Ma fa anche pensare ai versi di una canzone di Fabrizio De Andrè, qui l'amico fragile del titolo pensava "è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo cominciare una chitarra". Eppure, anche a cercarlo col microscopio, non esiste un punto esatto che non è né dita né chitarra. Dov'è allora che finiscono le dita di De Andrè?

Il quesito ricorda i paradossi filosofici di Zenone. Dobbiamo abituarci all'idea che dita e chitarra non possano mai essere totalmente separate, se non sul piano nominale. Nella realtà un confine è sempre incerto ed elastico. Somiglia in ciò alla pleura polmonare: deve consentire agli alveoli di espandersi per incamerare ossigeno, quindi contrarsi per cedere anidride carbonica.

L'ossessione di Israele per la sicurezza dei propri confini è dunque l'ossessione di chi, da troppo tempo, è in apnea. E così ha sostituito una chitarra o un violino o un cimbalom (un tempo ci suonava della meravigliosa musica klezmer) con un mitra dal grilletto facile. Da cui ora è impossibile distinguere le dita della mano.

mercoledì 24 settembre 2025

La musica in testa (mi ricordo 49)

Mi ricordo di un certo Mostachetti, o Mostacchetti con la c raddoppiata, ora non sono sicuro. Era un mio coetaneo che frequentava il liceo scientifico, portava gli occhiali da vista in celluloide e rideva in un modo che mi piaceva, non ho mai più visto ridere qualcuno con la stessa convinzione. Lo conoscevo poco ma una mattina avevamo bigiato la scuola assieme, erano i primi di giugno e non dovevamo nemmeno falsificare la firma dei genitori sul libretto: bastava bigiare anche i giorni successivi, finché le lezioni non sarebbero terminate per sfinimento. Con Mostachetti, o Mostacchetti, oltre a due comuni amici incontrati al bar dei disertori, eravamo andati alla boschina vicino all’Adda, dove avevamo portato delle lattine di birra Daab e organizzato una gara con i motorini. Sgasavamo a cavallo di un cinquantino prodotto dalla Oscar Motor, una ditta di Rastignano dalle dimensioni quasi casalinghe, il modello si chiamava College e aveva venduto tantissimo in Valtellina, a Milano tutti invece possedevano il Garelli. Di quel giorno ricordo poco altro, il borsone con gli inutili libri nascosto sotto la scala d'accesso al garage condominiale, le acacie fiorite su cui si posavano le api che avrebbero prodotto un miele dolcissimo, un pacchetto di Chesterfield e Mostachetti, o Mostacchetti, alla guida del suo College rosso vermiglio. Continuava a ridere anche nell'affrontare le curve più impervie, quando tutti gli altri avevano l’espressione compresa nello sforzo di primeggiare, lui no, e infatti arrivò ultimo, mi pare. Poi Mostachetti, o Mostacchetti, deve essere andato via da Sondrio, è dalla fine degli anni Ottanta che non incrocio più la sua bocca dischiusa, mentre incorpora ogni cosa in cui si imbatte senza giudizio e pregiudizio, i fanoni della balena traversano gli oceani con la stessa disposizione. E così, nella memoria, continua a essere avvinghiato a quella mattina tiepida, i bambini morti sono sempre giovani e ti sorridono dall'ovale di una lapide di marmo. Riesco perfino ad assegnargli una colonna sonora, Johnny and Mary. Qualcuno aveva portato il walkman azzurro della Sony e ce lo passavamo per ascoltare la canzone di Robert Palmer, adesso tocca a me dicevamo mentre sorseggiavamo le Daab seduti in una radura della boschina, nessuna interrogazione ancora pendente, nessun compito di matematica, solo un’immensa estate che si dischiudeva davanti a noi come la prateria nei film di John Wayne, le ragazze erano i bisonti che la traversavano con uno zainetto Naj Oleari sulle spalle. L'unico era Mostachetti, o Mostacchetti, a non reclamare il suo turno d’ascolto, e rideva felice con il pulsare ipnotico della drum machine interno alla sua testa.

domenica 21 settembre 2025

Chi non piscia in compagnia

Semplifico. Limitandosi ai contenuti, ci sono tre soli modi per scrivere: 1) contro qualcuno o qualcosa; 2) a favore di qualcuno o qualcosa; 3) scivolando sulle cose senza aderirvi, come un treno, una slitta o ancora più precisamente un flâneur, che guarda registra e passa. Non faccio troppa differenza tra scrittura saggistica, filosofica e narrativa. La disposizione resta la medesima.

La scrittura di tipo uno, nella mia esperienza, è quella che ottiene maggiore consenso sui social. E nella categoria aggiungo ironia e soprattutto sarcasmo, che sono un modo pacifico ma non meno aggressivo per svalutare il proprio ilare oggetto, e in ultima analisi abbatterlo come si fa con le statue a ogni cambio di regime. Evidentemente c'è una parte del cervello – il cervello rettiliano, in questo non siamo troppo diversi da una lucertola – a cui piace ingaggiare conflitti, intruppandosi per vivere esperienze cameratesche. E bon, lo faccio anch'io. Non critico ma prendo atto.

La scrittura di tipo tre, possiamo anche chiamarla del passeggero curioso, si colloca al secondo posto in termini di social-gradimento, ma ha bisogno di essere sorretta da qualità estrinseche, ad esempio lo stile. Se cazzeggi benino, senza prendere posizione e naturalmente limitando la lunghezza dei testi, con l'ironia che si stempera in autoironia, piaciucchi, via. E ancora una volta condivido: apprezzo i divagatori virtuosi, gli aneddoti insignificanti ma talmente ben scritti da tenere desta l'attenzione. In fondo la forma romanzesca si basa sullo stesso principio, la polpa di un romanzo si riduce a quattro o cinque punti in scaletta, almeno se non è un giallo tutto colpi di scena e agnizioni. Diversamente, può essere riassunto in mezza paginetta scarsa. Il resto è divagazione, digressione, squisitissimo brodo da allungare.

E siamo ora alla nota dolente, scrivere per e non contro, celebrare, gli antichi la chiamavano pars costruens oppure apologia. A loro piaceva molto, ma oggi deve essere considerato poco virile, non so... È un fatto che tutte le volte che provo a parlare bene di qualcosa, o di qualcuno, vengo un po' snobbato. C'è però un’eccezione, anzi di nuovo tre. Le prime sono il sesso e lo sport, e qui diamo per scontato quel che accade. Quindi vengono i lutti, le catastrofi, invasioni di cavallette etc. Il genere tragico va sempre alla grande, meglio ancora fa il patetico. Che sia il compagno di liceo morto in un incidente stradale, gabbiani lordi di petrolio, bambini, se vuoi andare sul sicuro scrivi della sofferenza dei bambini; ma basta un semplice ciao accompagnato da un selfie dopo esserti fatto bruciare una verruca. Sono contenuti che fanno tombola, e anche qui non è azzardato ipotizzare una connessione cerebrale: il cervello limbico si attiva quando sollecitato da fattori emotivi, facendo scattare l'empatia.

Detto ciò, dovrei essere attrezzato alla navigazione su internet, sapere cosa attendermi dalle sue onde emozionali. Eppure ci resto sempre un po' male quando mi cimento nella seconda sventurata categoria di scrittura; se ci ricasco puntualmente è perché sono mosso da gratitudine autentica, e mi illudo che ciò che amo venga ugualmente amato. Ma poi vedo che il postino restituisce le mie cartoline al mittente. Con l'ultimo intervento ho addirittura raggiunto il record personale di sbadigli e defezioni, in vent'anni che bazzico il web nessun testo era stato meno apprezzato. Un fiasco totale, nemmeno la messa in scena di Un marziano a Roma di Flaiano era riuscita a fare peggio.

Va aggiunto che ho probabilmente scritto cose migliori, ma pure certe scemenze di cui ancora mi vergogno... Ma invece di frignare, cerchiamo di capire come funziona la comunicazione al tempo di Facebook, Instagram, X e Tik Tok; che è poi la ragione per cui mi sto facendo la radiografia. Nella circostanza ho peccato tre volte come Pietro, scrivendo in termini elogiativi di tre degli oggetti simbolici che più mi affascinano: il monologo di un film (ma ho parlato bene anche del film), una canzone dei Baustelle e una frase di Italo Calvino. Quindi ho provato a collegarli tra loro, ho unito i puntini, e il disegno che è emerso possedeva talmente tanta bellezza da stordirmi – bellezza che scaturiva dagli incastri e le ricombinazioni, non sono così presuntuoso da autoelogiarmi senza ritegno. Ma possibile che sia l'unico coglione a vederla?

In questi casi una domanda te la fai. In fondo il senso ultimo della condivisione si nasconde tra le pieghe del termine: si divide qualcosa per goderne con altri, meglio mangiare pane e mortadella in compagnia che caviale da soli. È l'unica remunerazione di un gesto altrimenti privo di significato e moneta, i cuoricini che seguono, se seguono a lisciarti il pelo, ne sono un correlativo di superficie, ciò che davvero procura piacere è che i commensali godano dello stesso cibo. Ma che succede se invece sputano ciò che a te fa leccare i baffi, o non vedono quella luce che ti abbaglia? Il dubbio di essere un po’ tocco si insinua, già che per definizione sono i matti a vedere le cose che stanno solamente nella loro testa. Starò mica diventando matto?

In conclusione, per sentirsi normali e bene integrati è meglio non azzardare ricette esotiche, vai sul sicuro con una bella birretta. In assenza l'urina può essere un ottimo succedaneo, basta non versarla nelle caraffe – mi raccomando! – e usarla per pisciare in testa a qualcuno. Quindi ridere con tutti quelli che saranno accorsi a dare manforte; come noto, siamo una nazione incline a correre in soccorso di vincitori e vincenti. E poi chi non piscia in compagnia o è un ladro o una spia. E così giù tutti a pisciare in testa al malcapitato di turno, darsi di gomito, fare gruppo, squadra, branco. O ancora meglio: fare social. Che è un modo come un altro per fingere di essere sani.

PS  il testo a cui mi riferisco si trova qui.

sabato 20 settembre 2025

La guerra è finita

Ti dicono: i vecchi sono sempre lì attaccati alle sottane del passato, manca loro curiosità verso il nuovo. Un po’ è vero, dai. Mi ricordo che lo dicevo anche io a mia madre quando, adolescente, ascoltavo a palla Born to Run. ABBASSA mi strillava lei dalla cucina. Ma come mamma, è Bruce Springsteen! Non mi importa chi è, sono solo strontonate. Le canzoni dei miei tempi… quella sì che era musica.

Potrei ripetere la stessa frase di mia madre quando inciampo in una stazione radiofonica privata. A quel punto, mi dico, meglio un dibattito sulla teologia apofatica su Radio3, a cui ritorno. Oppure passo a Spotify. Tra i gruppi italiani recenti gli unici che ascolto sono i Virginiana Miller e i Baustelle, entrambi di origine toscana. Ma se vado a vedere la loro età, mi accorgo che i componenti hanno superato i cinquant’anni. Sarebbe come se negli anni Novanta avessimo definito i Beatles musica del momento.

A me in ogni caso questi piacciono, di meglio non trovo. E quando mi piace qualcosa cerco di smontare il giocattolo per vedere come è fatto dentro. Lo so che è un azzardo, godimento e comprensione fanno a cazzotti, o uno o l’altro, ma è più forte di me. Poco male comunque, in genere ottengo il responso di Corrado Guzzanti nei panni del guru Quelo: “La risposta sta dentro di te. Ma è sbagliata.”

Nel caso dei Baustelle ho però avuto un’intuizione. Stavo rivedendo American Beauty, già pregustavo la mia scena preferita. Ricky, il ragazzo introverso, lo spacciatore di droga, l’inquietante personaggio che non sappiamo bene come catalogare – è un angelo o un diavolo? – mostra a Jane un videotape. L’ha realizzato lui stesso in ampio anticipo sulla videocamera degli smartphone. Sam Mendes adotta un’interessante triplicazione del punto di vista: la macchina da presa è in soggettiva di Jane, di Ricky ma anche in oggettiva dello spettatore, che incorpora così lo sguardo di entrambi.

Una sottigliezza di regia dalla quale capiamo di essere a uno snodo centrale del film, e un po’ rimaniamo delusi nel vedere una busta di plastica, nient’altro che una busta di plastica bianca sollevata dal vento, è sospesa a qualche spanna dal suolo e si muove in una specie di danza rallentata. Non abbiamo nemmeno il conforto di un cielo azzurro solcato da cirri vaporosi, l’immagine è chiusa da una parete di mattoncini rossi, qualche foglia secca a completare la coreografia, tutto molto ordinario e quasi squallido. La sequenza è accompagnata dalle seguenti parole di Ricky, le trascrivo per intero:

“Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica, e c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla, mi segui? e questa busta era lì, danzava con me, come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita dietro a ogni cosa, e una incredibile forza benevola, che voleva sapessi che non c'era motivo per avere paura, mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so, ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla, e il mio cuore sta per franare."

Sarò ingenuo e sentimentale, ma a me sembra che l’arte, al suo meglio, dovrebbe fare lo stesso. Concentrarsi su quanto di quotidiano e perfino degradato si offre. Non per dire fa tutto schifo, e poi piove governo ladro. A guardare bene è infatti possibile scorgere una scintilla di bene, di bellezza e ti sussurra: non avere paura  maiÈ come il puntino bianco che occhieggia all’interno della porzione nera del Tao. Italo Calvino lo dice con parole diverse, ma il concetto è il medesimo:

"Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio." (da Le città invisibili, Einaudi, 1972)

In molte canzoni dei Baustelle trovo un'analoga disposizione: il contesto sociale è marcio e corrotto, in questo caso si tratta dell'inferno di una decadenza piccolo borghese, spesso con velleità artistoidi. Eppure anche loro sanno riconoscere ciò che non è inferno, e gli danno spazio, lo fanno durare. Oltre i pochi minuti della traccia musicale è come se si generasse un'eco di radianza. O se si preferisce, colgono il sacchetto di plastica mentre si solleva e comincia a danzare, in una bellezza che non è redenzione ma una prospettiva diversa sul naufragio.

Per essere onesti non sempre ci riescono. In altri casi si intravede un po’ di meccanicità nel processo, l’intenzione traspare e sono i brani meno convincenti, come se volessero épater le bourgeois. Ma quando non cercano l’artificio e si abbandonano a un’ispirazione genuina e disarmata, accade, semplicemente, ciò che deve accadere. E dietro ogni prosaica cosa si intravede un'intera vita.

A me è capitato ascoltando La guerra è finita, negli ultimi anni sono particolarmente sensibile al tema del suicidio. È ciò che fa la protagonista della canzone, un personaggio sgradevole, una stronza viene detto nel testo, una sedicenne che fuma crack, ruba all’Esselunga e si mette insieme a un nazista conosciuto in una rissa. Va da sé che a scuola il professore la bolli come emotivamente instabile, viziata e insensibile. Sullo sfondo, riportate dai radiogiornali, le guerre balcaniche e i bombardamenti di Belgrado da parte della Nato.

Ma proprio prima di respirare il gas, prima di collegarsi al caos, dunque all’orlo del precipizio che calamita l’intero mondo simbolico del gruppo di Montepulciano, incontra anche lei quell’incredibile forza benevola. No, nessun lieto fine, non siamo all'interno di un film di Frank Capra. Con una Bic profumata, da attrice bruciata precisano i Baustelle, trova la forza di sputare su un foglio parole nere di vita, non di morte, ecco la piroetta prospettica che lascia intravedere il riflesso della luna nel pozzo. Eppure è un commiato e non ha nessuna intenzione di fermarsi. La guerra è finita scrive impaziente, per sempre è finita, almeno per me.

E a chiunque non sia ancora franato il cuore, a chiunque riesca a spostare lì lo sguardo e fare spazio, il tempo si dilata quale chiaro indizio di non-inferno, anche se manca qualche diottria vedrà decollare il sacchetto di plastica bianco. E a quel punto la guerra è davvero finita.

venerdì 19 settembre 2025

Le persone

In queste ore mi vengono in mente certe trasmissioni televisive, la memoria le confonde con vecchi film in bianco e nero, ma erano solo pochi anni fa. Il conduttore – poteva essere Porro, Parenzo, Giordano... –  incalzava gli ospiti di religione mussulmana per estorcere una condanna del velo islamico, e io pensavo: Saran poi ben cazzi loro, perché non intervisti una suora? Ma quando si ripeteva il copione con il femminicidio di una ragazza pakistana da parte dei famigliari, anche se Porro, Parenzo e Giordano erano sempre lì con i loro indici puntati, toccava riconoscere che un po' avevano ragione. Il gesto ignobile era infatti la sommità emersa dell'iceberg, e chiedere una presa di distanza ai connazionali degli assassini serviva a sciogliere le premesse culturali, quindi evitare nuovi Titanic. E guarda tu a volte il caso i pakistani erano di nuovo presenti in studio.

Bene, perché ora Porro, Parenzo e Giordano non replicano quel logoro teatrino con gli israeliani, non con gli ebrei, non mettetemi in bocca parole che non penso e non ho detto. Invitate nelle vostre trasmissioni delle persone con passaporto israeliano, e poi fategli dire che si dissociano da ciò che sta facendo il loro paese a Gaza, o dai coloni in Cisgiordania con i suv pieni di armi e pompelmi. Se svicolano come i pakistani, riservate loro il medesimo trattamento: insultateli, ricopriteli di merda, mi raccomando la stessa ferocia rivolta agli uomini barbuti con lunghi pastrani bianchi, che si arrampicavano sugli specchi.

Lo farete?

No, non lo farete. Perciò giro sui cartoni animati quando vi intravedo sullo schermo, Gatto Silvestro mi piace molto di più. Non sono nemmeno le vostre trasmissioni, programmi oggettivamente brutti ma non troppo diversi dal brutto format che si limitano a replicare, non mi piacete voi, c'è un momento in cui si deve passare dalle idee astratte alle persone che le incarnano. E gli israeliani, non gli ebrei, di nuovo, sono persone, persone che vivono in una nazione democratica, non c'è alcun dubbio al riguardo. In questi contesti sono le persone a determinare le successive politiche dei governanti, è sufficiente una matita e un temperino di plastica, poi si entra in una cabina elettorale dopo avere temperato la punta in grafite, e il gioco è fatto. Non il contrario come avviene nelle dittature. Dunque nessun imbarazzo nel dire che non mi piacciono neppure loro, nessun antisemitismo.

Ma siccome sono una persona anch'io, potrei cambiare idea se gli israeliani scendessero in piazza per strillare contro Netanyahu e la sua cricca assassina. Qualcuno l'ha fatto, nei giorni e nei mesi scorsi, ma erano alcuni israeliani, non un popolo che si muove in massa come al tempo di Mosè, attraversando mari divaricati nel tentativo di imprimere una svolta collettiva al proprio destino. In tal caso il governo sarebbe caduto in due o tre settimane al massimo, è un'altra caratteristica che distingue le democrazie: non sono buone o cattive in sé, riflettono la bontà o la cattiveria delle singole persone che le compongono. Elementi instabili, composti mutevoli all’interno di ciascuno di noi. Da Kant in poi sappiamo che l’umanità è un legno storto.

Persone israeliane, Yosef, Tamar, Noam e tutti gli altri, il mondo non vi sta chiedendo di sdraiarvi davanti ai carri armati con il serafico eroismo degli studenti di piazza Tienanmen, sarebbe troppa grazia. Nemmeno a don Abbondio veniva chiesto di viaggiare in compagnia di vasi di ferro, lui fragile vaso di terra cotta. Basterebbe un no forte, chiaro e diffuso. Basterebbe che la legge morale provasse a raddrizzare quel legno storto. La vita umana sul pianeta Terra sarebbe diversa, per quanto possa apparire una frase vagamente enfatica e non meno retorica. Ma fino a quel momento continuerete a non piacermi.

PS - a scanso equivoci, preciso che il mio invito alla gogna mediatica israeliana era solo un paradosso, non pretendo alcun autodafè: l'invito serviva a mostrare il doppio peso e misura dell'Occidente, al solito forte coi deboli e debole con i forti. Se autodafè deve esserci è dunque il mio, che da italiano mi vergogno di appartenere a una nazione tanto timida nel denunciare (e possibilmente contrastare) ciò che sta accadendo in Palestina. Mentre, a Cinecittà, si stanno ultimando i preparativi della diciottesima edizione del Grande Fratello Vip.

giovedì 18 settembre 2025

Barchette di carta

Dopo avere ricevuto assistenza da un operatore telefonico, il giorno stesso o, al più tardi, il successivo, arriva una mail per esprimere valutazione sul servizio. Mi dia un giudizio positivo, per piacere.

Te lo chiede con la voce che si fa più bassa al termine della chiamata, come se ti stesse confidando un segreto – da non rivelare a nessuno, mi raccomando! Sì sì, rispondo io. Le darò il massimo dei voti o delle stelline o di quello che è, cosa che poi faccio davvero.

A volte è possibile aggiungere un commento discrezionale, è lì calco un po’ la mano: Operatore gentilissimo e competente, problema risolto, mi raccomando non lo licenziate!

L’ultima frase in realtà non la scrivo, ma riassume il mio gesto. Un gesto che percepisco come eroico, sono orgoglioso di quel che ho appena fatto, mi sembra di avere gettato un salvagente a una persona che stava per annegare.

Quando vedo che esita, per pudore immagino, a farmi la richiesta, sono io ad anticipare le mie intenzioni. Grazie, grazie davvero replica l’operatore, e non si capisce se si riferisca al giudizio positivo o al fatto che l’ho sgravato dal compiere la questua.

A quel punto un po’ mi dispiace interrompere la telefonata, ormai mi sembra di parlare con un amico – di certo siamo complici – e vorrei chiedergli come va con la fidanzata; nel caso si tratti di una donna, sono tentato di invitarla fuori per un caffè. Ma ovviamente non lo faccio.

Ci lasciamo così, buona giornata, buona giornata e buon lavoro a Lei, solo su Amazon ci si dà del tu. Ciao Guido ti viene detto già alle prime battute, io mi chiamo Ioana e parlo dalla Romania. Ti va bene o preferisci un operatore italiano?

No, va benissimo, gli italiani mi stanno mediamente sul cazzo, ma taccio anche quest'ultima appendice. Oltre al fatto che me la sto immaginando con tutti gli stereotipi etnici del caso; dunque un po’ in stile entraîneuse, confesso.

Probabilmente non ci sentiremo più, io e Ioana. Dopo averle lanciato il mio salvagente la riconsegno ai flutti, una barchetta di carta che naviga nel grande mare del precariato. Giusto il tempo di udire quell’ultimo S.O.S. Non dimenticare di lasciarmi un giudizio positivo, per piacere per piacere per piacere...

mercoledì 17 settembre 2025

Siam pronti alla morte (degli altri)

La vicinanza temporale tra la morte di Armani e quella di Robert Redford hanno accesso una lampadina del mio cervello. Ho sempre trovato curiosa la celebrazione dei personaggi pubblici sui social al momento della loro scomparsa – ciao ragazzo viene scritto a margine di una foto giovanile di Redford, eri il più bello di tutti aggiunge un’altra donna. I maschi, più cauti, sottolineano i meriti artistici e l’impegno per l’ambiente.

Non che io sia esente dagli stessi slanci commemorativi. Ho partecipato, a modo mio, al commiato di Jane Birkin e a quello di Francoise Hardy, la mia voce era intonata al coro. E poco importa che mi sia astenuto con Emilio Fede e Alvaro Vitali, ognuno ha le sue ipoteche affettive. Ma pur essendo interno al fenomeno continuo a non comprenderlo: a quale economia psichica offre risposta, esiste forse uno schema antropologico ricorrente?

Per i funerali è la comunità che si stringe accanto ai famigliari, facendogli sentire sostegno emotivo e solidarietà concreta. Aspetti che nei secoli hanno un po’ perso di sostanza – non so quanti sarebbero davvero disposti a fare qualcosa nel caso di bisogno… – ma il rituale funebre rimanda a strutture sociali antiche e coese, e come in tutti i riti la ripetizione afferma un modello astratto con l’intento di tradurlo in realtà, poco importa che ci riesca o meno. Ma mi chiedo a chi, su Facebook, importi dei quattro figli di Robert Redford, due dei quali morti prematuramente, o delle belle e ricchissime nipoti di Giorgio Armani.

Escluderei dunque la funzione tradizionale di sostegno ai congiunti e affermazione dei valori della polis. La morte può perfino dividere, lo stiamo vedendo in questi giorni: stai dalla parte di Charles Kirk, ucciso da un giovane sciroccato che aveva fatto incidere sul proiettile la scritta Bella ciao, o di Martin Luther King – ma che cazzo di domanda è?!

Eppure è proprio al culmine del non senso che ci viene in soccorso un indizio, ce lo offre il sistema della moda di cui Armani era il massimo esponente. Qualcuno se lo ricorda l’aquilotto in pelle cucito sui jeans Armani negli anni Ottanta? Stava a marcare le chiappe, era l'equivalente umano della segnatura a fuoco sulle anche dei bovini, indicando appartenenza, da ottenere attraverso una preliminare separazione. Per essere uguali a qualcosa bisogna infatti essere diversi da altro, o meglio altri.

Il sotto testo così diventava: io non sono mica uno sfigato che indossa jeans Carrera – costavano un quarto ed erano identici –, ma grazie a un volatile stilizzato mi iscrivo a una comunità superiore del gusto, una nuova congregazione giovanile stilosa e disimpegnata. Richard Gere in American Gigolò era il riferimento e Armani il sacerdote che celebrava l’investitura.

Poi era tutto da vedere se fosse vero, però, alla stessa maniera della pisciatina dei cani sui paracarri, la firma sugli abiti degli stilisti comunicavano identità presunte, ci faceva sentire parte di un insieme in cui era bello riconoscersi. Ecco, Robert Redford ha la stessa funzione dell’aquilotto sui jeans Armani: io sono quello che si è commosso con i film di Robert Redford, io sono quella che si è innamorata guardando Apiedi nudi nel parco

Ma allora siamo simili, vestiamo gli stessi indumenti affettivi, ci piacciono le stesse cose. Secondo Slavoj Žižek, è il godimento e non più il trauma a segnare nella tarda modernità i confini delle identità collettive. E così ti chiedo l’amicizia sui social, stringiamoci a corte, siam pronti alla morte – non mai alla nostra, ma quella del prossimo personaggio pubblico che verrà a mancare. Una comunione simbolica non troppo diversa dal capannello dei paninari davanti al Burghy di piazza San Babila: loro si riconoscevano, negli anni Ottanta, dalle Timberland e dal Moncler arancione, noi quasi mezzo secolo dopo ci riconosceremo dai cuoricini deposti sotto una foto giovanile di Robert Redford.

martedì 16 settembre 2025

Arte e vita

Qual è la differenza tra vita e letteratura? Ci sono centinaia di saggi accademici che provano a spiegarlo. Ma forse è sufficiente una sola immagine, sta affissa sulla bacheca metallica dei manifesti funebri, si trova a lato del giardinetto dove porto tutti i giorni il cane a fare pipì. Trascrivo ciò che leggo:

"Grazie zio Tato
Le tue mani grandi hanno per noi costruito, ci hanno accarezzati e stretti. Sono segno della tua forza e della tua bontà.
Caterina e Samuele"

Chi non avrebbe voluto avere uno zio così? Questo nella vita cosiddetta vera, almeno. In quella verità rivelata che è la finzione letteraria, zio Tato sembra invece trasformarsi. Le parole dei nipoti smettono di dire ciò dicono; e però continuano a comunicare, esprimono un senso ulteriore che può essere colto solo dall'interpretazione. Ora alludono per simboli, analogie, slittamenti semantici, ogni cosa è sospetta e va interrogata con la lampada puntata sul volto. È ciò che sa fare la letteratura al suo meglio.

E così lo zio Tato si converte o, meglio, si convertirebbe in un molestatore seriale. Gli indizi sono numerosi, a partire dalle mani. Sono grandi come verosimilmente lo è tutto il resto: che mani grandi che hai dice Cappuccetto Rosso al lupo, che orecchie grandi, che occhi grandi... E Cappuccetto Rosso si ferma qui, ma noi abbiamo capito a quale altra parte del corpo Charles Perrault e i fratelli Grimm vogliono arrivare.

E poi le carezze, quando offerte da uno zio sappiamo, per maliziosa consuetudine, di che carezze si tratta. Sono strizzate d'occhio al lettore. Ma Caterina e Samuele, i nipoti dello zio Tato, non sono narratori, e io che sto in piedi davanti alla bacheca un po' commosso e un po' anchilosato, mentre il mio cane sta cercando il punto giusto per il rilascio in un aiuola essiccata, smetto provvisoriamente di essere un frequentatore di romanzi. Sto respirando. Sono vivo.

E così nel soffio vitale Antonio, Salvatore, Gaetano o come diavolo si chiama il defunto, torna a essere lo zio Tato. Un essere umano, non un segno. Anzi un'assenza, manca all'appello del mondo, e domani non rientrerà con una giustificazione firmata dai genitori sul diario. Eppure in tutto ciò si ostina un elemento romanzesco, per farne esperienza anche noi dobbiamo immaginarlo come facciamo quando apriamo le pagine di un libro: con le sue mani grandi, e il cuore buono.

venerdì 12 settembre 2025

Malattia delle catene

Charles James Kirk viene ucciso il 10 settembre 2025 a Orem, Utah, durante un comizio in cui parla di armi libere, viene ucciso da un solo precisissimo colpo esploso da un’arma talmente libera da sparargli. Non voglio fare del sarcasmo, la sua morte violenta mi turba come quella di ogni altro essere umano – e cioè limitatamente, l’inflazione di comunicazioni drammatiche ci ha reso meno permeabili al dolore degli altri. Aveva ragione Francesco Guccini quando cantava: “Mi è andato il cane sotto un camion quella sera, ho pianto come un vecchio sopra una bandiera. Se fosse stato un compagno basco avrei forse pianto di meno".

Ma torniamo a Kirk, sembra il triste paradosso contenuto nel motto evangelico chi di spada ferisce di spada perisce. Da persona che si sente più affine alla nebulosa del pensiero progressista – sempre più nebulosa, in effetti –, mi interessa però l’altro paradosso che coinvolge l’assassino, il ventiduenne Tyler Robinson; dal poco che sappiamo di lui comunque traspare un sentore da album di famiglia, per riprendere la celebre e controversa definizione di Rossana Rossanda riferita alle BR. Possiamo infatti includere non tanto il suo sciagurato gesto, ma lo sfondo da cui origina nell'area della sinistra radicale, a partire dal macabro dettaglio della scritta Bella ciao iscritta sul proiettile che ha fatto centro. 

Per contestare la facilità con cui negli Stati Uniti si possono detenere armi grazie a una lunga tradizione repubblicana, ecco il paradosso, chi preme il grilletto porta alle estreme conseguenze ciò che contesta, agisce la negazione beneficiando del possesso di un'arma. E non pensiamo di cavarcela con un altro motto che vuole gli estremi toccarsi. No, c’è molto di più. Una rappresentazione plastica per analogia sta nella morte di Kurtz al termine di Apocalypse Now. Il capitano Willard lo colpisce con un machete, Coppola alterna la sequenza con il sacrificio rituale di un bufalo d'acqua, per poi assumere simbolicamente i tratti della vittima interpretata da Marlon Brando, con il suo cranio glabro sempre inquadrato in penombra. Hanno ammazzato Kurtz e Kurtz è vivo, il sotto testo.

Una dialettica di rispecchiamento e incorporazione dei contrari chiamata da Nietzsche malattia delle catene, a cui – sempre per Nietzsche – ci si deve sottrarre se si vuol diventare ciò che si è. È il tema della differenza, dell'identità, che con Jung prende il nome di individuazione; il nemico è l'ombra da rischiarare per precisare il ritratto, non abbattere per sostituirci a esso. Il seme diventa albero, il fiume mare e i cignetti strani e candidi aliscafi, per quanto siano ancora tutti neri. Lo stesso dovrebbe essere in politica, ma non sempre è così.

Per molti anni la Destra, orfana del fascismo sempre più ridotto a folclore, ha trovato la propria ragione politica per contrapposizione alla Sinistra culturalmente egemone, mentre ora i rapporti si stanno invertendo: è la Sinistra a essere ammalorata dalle catene arrugginite della Destra, recuperando una friabile identità nel semplice diniego, poco importa se strillato o articolato con una bella erre moscia alla Bertinotti. D'altronde già recitava Eugenio Montale un secolo fa: "codesto solo oggi possiamo dirti: / ciò che ne non siamo, ciò che non vogliamo".

Ma l'assenza di un'idea di mondo autonoma contiene il rischio della controfigurazione, quando il contrario di Anna è sempre Anna. L’omicidio di Charles James Kirk dovrebbe agire dunque da monito, io almeno lo vivo così, temendo di poterne replicare la dinamica, seppure in scala diminuita. Non è infatti necessario ammazzare qualcuno per incatenarsi ai fantasmi destrorsi che ora si aggirano per l’Europa. 

lunedì 8 settembre 2025

Ciao mamma guarda come scrivo difficile oh oh ah ah ah

Uscirà domani per Einaudi l'ultimo lavoro filosofico Giorgio Agamben, si intitola Alla foce. Naturalmente non lo leggerò, ma sono contento che esca proprio per avere la possibilità di non leggerlo – e cioè, meglio, di scegliere di non farlo, non semplicemente di ignorarlo – secondo un'aurea intuizione di Giorgio Gaber contenuta nel monologo Cosa mi sono perso, da Io se fossi Gaber, 1982:

"Essere a casa e pensare: Questa sera mi sono perso il Machbeth. Che colpo, ragazzi! Venerdì mi perdo La tempesta. Sono già tutto eccitato. Carmelo Bene me lo perdo martedì. No, martedì c'è un film stupendo di Coppola. Ormai devo perdermi quello lì, è fissato."

Ma per avere la goduria da omissione bisogna possedere almeno degli indizi di ciò che ci si perderà, altrimenti non vale, si sgonfia buona parte del piacere. Cerco dunque sul web, e trovo un passaggio dal nuovo libro di Agamben:

"Le cose che ci-non-sono si manifestano solo nella misura in cui le cose che ci sono appaiono in una nuova luce. Esse non sono forse altro che questa luce - così reale e prezioso è il loro non esserci."

Cosa significa? Ma niente, ci manca pure che significhi qualcosa: non sarete tanto antiquati da volere estorcere una comprensione razionale a parole che hanno nella superficie la loro ragione sufficiente, anzi ottima, come quando da bambini si tinteggiava con la vernice dorata i pastrocchi creati col Das – forse non erano dei capolavori scultorei, ma lo sberluccicare nella penombra delle camerette ne compensava i limiti. E così le cose che ci-non-sono, provate a fare di meglio se riuscite, a risultare dotti e pensosi con una semantica pari a ciao mamma guarda come mi diverto oh oh ah ah ah.

Con la differenza che in Jovanotti lo svacco era programmatico ed esibito, il significato corrispondeva al significante per un postmoderno eccesso di energia da scaricare al suolo, mentre Agamben ci restituisce l'impressione di scrivere raffiche di haiku sapienziali; un procedere lambiccato che sostituisce l'ornamento al senso, altrimenti noto come kitsch intellettuale. Lo stesso Agamben, parafrasando Milan Kundera, lo spiegherebbe a questo modo: un'adesione categorica all'essere-non-si-ci-di in quanto tale.

Eppure il lettore – quel lettore un po' approssimativo come me, intendo – non ne ha a male, e viene piuttosto gratificato dai riflessi che gli sembra di cogliere sulle onde di parole che si involvono in risacca prima di raggiungerlo, si sente più intelligente nel bagnarsi i piedi con la schiuma di frasi che sono l'iscrizione a un club esclusivo, il Rotary delle biciclette nuove di zecca ma il mio papà ha detto di non prestarla a nessuno, il Lyon's di chi non parla come mangia ma guarda gli altri mangiare caviale. E tanto basta per percepirsi parte del banchetto.

Anche qui tocca però rendere a Gaber quel che è di Gaber, ancora una volta ci ha anticipati, questa volta lo fa nella canzone Il comportamento, da Libertà obbligatoria, 1976. Porca miseria, mai che si riesca e risultare originali come fa Agamben. Quasi quasi ho cambiato idea e me lo leggo, con lo stesso spirito di Gaber quando legge Hegel:

"Quando invece sto leggendo Hegel
mi concentro sono tutto preso
non da Hegel naturalmente
ma dal mio fascino di studioso."

domenica 7 settembre 2025

Ecografia di un bacio

La lingua tra le labbra da succhiare
come facevamo sulle panchine 
del Centro Sportivo con il ghiacciolo 
Draculino – prima veniva il succo
e, solo all'ultimo, il ghiaccio incolore.

Si intravedeva all'interno lo stecco,
ricordava l'ecografia di un feto:
le manine immobili, il corpo morto.
Fanno molto più effetto i funerali
nei giorni di pioggia, e col sole a picco
del solstizio d'estate decidemmo
di ibernare un bacio oramai disciolto.

lunedì 1 settembre 2025

Professionalità (mi ricordo 48)

Mi ricordo che compresi quasi subito la prima regola, come in tutte le attività si trattava di specializzarsi. Da qui la premessa per crearsi una professionalità. La mia specialità, che faceva di me un chierichetto altamente professionale, era porgere le ampolle con l’acqua e il vino al momento della consacrazione eucaristica. Le mani dovevano essere ferme e sicure, se qualcosa finiva in terra lo show era bello che rovinato, non si poteva girare una seconda scena come a cinema, o era buona la prima o don Remigio ti guardava storto, con tutto quello che ne seguiva... Era successo a un ragazzino con gli occhi cisposi a cui scendeva sempre il moccio dal naso. Aveva inciampato nello scendere i gradini del presbiterio per tendere la tovaglietta al momento della comunione dei fedeli, e da quella volta non si era più visto. All’oratorio, comunque, veniva ancora, non era stato fatto uccidere e poi disciolto nell’acido.

Per fortuna don Remigio non si era mai lagnato della mia professionalità – e ci mancherebbe pure, per giorni avevo fatto le prove a casa con le bottigliette dell'olio e dell'aceto –, e il talare nero sopra a cui indossavo la cotta bianca mi stavano una cicca! Peccato che mia nonna non fosse mai venuta a vedermi nella chiesa grande, tutti la chiamavano così, di fatto si trattava della Collegiata dedicata ai Santi Gervasio e Protasio. A lei risultava più comodo andare in un’orrenda chiesetta modernista a Montagna Piano, più vicina alla fattoria dove abitava con il nonno. Sono certo che la nonna Maria sarebbe stata orgogliosa di me: il nipote chierichetto vale più di otto vasi di gerani al balcone, perfino più di una mucca bruna alpina che produce trentacinque litri di latte.

Ciononostante occupavo la base dell'organigramma ecclesiastico, mi venivano concesse solamente funzioni minori. Un chierichetto poteva dirsi realizzato nel servire la messa della domenica mattina alle undici. Una circostanza in cui le panche erano occupate in ogni fila, anche le seggioline poste a ridosso delle cappelle con le scene dei santi, pieni gli stalli del coro dietro l’abside, tutto esaurito nello spettacolo con più repliche al mondo, e un sacco di persone in piedi. Si trattava perlopiù di maschi adulti accalcati vicino all’acquasantiera in marmo, così da potere uscire di tanto in tanto a fumarsi un MS, mentre le mogli si inginocchiavano per meglio gustare il corpo di Cristo.

A me il corpo di Cristo non sembrava questa gran prelibatezza, preferivo i bignè di Ortelli. Qualcuno li acquistava prima dei canti iniziali, varcavano il portale con in mano il cabaret avvolto da una carta marrone; in tal modo, al termine, non rischiavano di trovare la vetrinetta sprovvista del dolce che aveva fatto la fortuna della pasticceria. La proprietaria assomigliava in modo incredibile a Moira Orfei, credo lei lo sapesse e facesse di tutto per alimentare la cosa – trucco marcato, specialmente a lato degli occhi, capelli neri raccolti in una crocchia centrale – anticipando il fenomeno dei cosplay.

In chiesa la gente poi non sapeva dove mettere le paste, le posavano sulle ginocchia mentre tenevano le mani giunte; una sovrapposizione tra sacro e profano che era bella da vedere: l'incenso fuoriesce dal turibolo e la crema pasticcera preme sulle pareti sottili della pasta choux. La costrizione avrebbe avuto termine solamente a fine pranzo, quando si scartava l'involucro e ci si sedeva sul divano a guardare il Gran Premio di Formula 1. Le palpebre calavano piano piano con in bocca il sapore di bignè.

Intanto, la mia carriera languiva. Ok, venivo convocato anche per i funerali, ma non mi piaceva l’atmosfera: tutti avevano la faccia lunga e zero complimenti per me, possibile che nessuno si accorgesse della professionalità con cui porgevo le ampolle? La ragione non mi sfuggiva, quello era il gran giorno per chi giaceva dentro la bara posta al centro della navata centrale, era lui, o lei, a essere protagonista. Razionale, ma comunque ingiusto. Alla fine ciò che si offriva agli occhi umidi era solo un parallelepipedo di legno di rovere o noce, per il direttore di una banca si scelse un ebano scuro di grande effetto, ma perlopiù si trattava di larice, abete e pino; le vecchie vedove mettevano da parte i soldi della pensione per l'acquisto definitivo, così da non gravare sul bilancio dei figli. E tra un morto e una messa serale, sempre e solo messe serali, dall'armadio la mamma aveva tirato fuori gli abiti primaverili.

Venni convocato da don Remigio per la benedizione pasquale degli appartamenti, e lì mi parve di avere finalmente svoltato. Quando suonavo il campanello, la croce issata come il pilota che aveva vinto il Gran Premio faceva con la coppa, le persone ci accoglievano con un sorriso, e prima di andare mi allungavano una caramella Rossana, un cioccolatino Lindt, una qualsiasi cosa accompagnata da una carezza sul collo. Arrivati all’appartamento di un professore, non ricordo la sua specializzazione, sulla targhetta stava scritto solo professor Tal dei Tali, si aprì uno spiraglio tra porta e infisso. Non mi interessa sibilò una voce da dentro, sono ateo. E sbang, richiuse bruscamente, lasciando sul pianerottolo un vago sentore di cane bagnato. Poveri Testimoni di Geova, pensai.

Nel mio caso fu un episodio isolato, anche la benedizione degli appartamenti intendo. Restavo un chierichetto di seconda categoria, la scalata ai vertici vaticani si era arenata – cosa c’era che non andava in me? Eppure ero professionale anche negli orari, mi presentavo sempre con un’ora di anticipo, nel timore che altri aspiranti chierichetti venissero per farmi le scarpe. Una volta introdotto in sacrestia mi rivestivo con cura, è inutile che spieghi l’odore che aveva la sacrestia della chiesa grande, tutte le sacrestie hanno quell’odore lì, la gente giustamente lo chiama odore di sacrestia.

Credo di non averci più messo piede dopo avere trovato un giornaletto in un prato, ero con Federico e stavamo percorrendo una scorciatoia nel tornare da scuola. Grattando le pagine appiccicaticce e terrose, comparve l’immagine di quattro uomini e una donna grassottella; lo si vedeva bene che era grassottella perché era svestita, ci fissava con due occhietti simpatici e furbi. Uno degli uomini aveva un drago tatuato sul petto e avevano appena fatto una specie di pipì bianca dentro la bocca della donna grassottella. Federico mi aveva rivelato che non si trattava di pipì: si chiama sburra, come il burro ma con la esse di Silvan davanti. Suo cugino, due soli anni più di noi, già sburrava alla grande.

Uno dei quattro, non quello con il drago che sputava fuoco, portava le basette lunghe e anche il coso pareva un candelabro, almeno se confrontato ai lumini che tenevamo io Federico. Particolare che avrebbe dovuto aiutarlo a essere più preciso, come avviene con i fucili rispetto alle pistole. Invece aveva sbagliato mira, il liquido vischioso era finito sui capelli biondi, mossi, da cui colava sul volto paffuto; ma secondo me i capelli erano tinti, e lei si era messa i bigodini per meglio figurare. Anche per farsi sburrare in bocca è necessaria professionalità, e l’uomo che aveva mancato la mira ne aveva mostrata pochina. Se fossi stato l’editore del giornaletto col cavolo che lo richiamavo per un nuovo servizio, avevo imparato la lezione di don Remigio. Lo mandavo a colare altrove la cera del suo lungo candelabro.

Quanto alla mie competenze professionali, mi furono utili in seguito per versare il vino a tavola, ci penso io dico ancora adesso se viene stappa una bottiglia, quando uno sa fare bene qualcosa è giusto che la faccia, ma non ho più rimesso piede in sacrestia. Con Federico avevamo trovato il giornaletto più interessante, molto più interessante. Ci immaginavamo che se centravi la bocca il fotografo ti diceva bravo, mentre a noi non diceva bravo nessuno, tutto quell'impegno per imparare una professione nel campo dello spettacolo, e nemmeno la nonna veniva ad applaudirti.

Ho dimenticato di dire che anche Federico faceva il chierichetto, non ricordo quale fosse la specializzazione, ma potrei mettere la mano sul fuoco sulla sua professionalità. Due minimi professionisti a cui non è mai stata data l’occasione di esibirsi alla messa della domenica mattina, secondo me c’era sotto un giro di raccomandazioni, per non dire di peggio. Magari avremmo proseguito nella carriera, ci saremmo iscritti in seminario, diventati preti, cardinali, persino papi… Perché mettere dei limiti allo Spirito Santo?