Mi ricordo che a Sondrio, intorno alla metà degli anni Settanta, i cuccioli di un boom ormai in disarmo si diedero in massa al pattinaggio; le ruote erano ancora affiancate come nel pianale delle automobili, non in linea al modo dei pattini attuali. Il merito andava a un uomo di nome Vannuccini. Aveva fondato l’associazione sportiva ASPAR (Associazione Sondriese Pattinaggio A Rotelle) con sede al Bar Linda, una ex prostituta che con i soldi dei camionisti si era rifatta una vita: invece del suo corpo smerciava ora Biancosarti e ghiaccioli rossi rossi, l'immagine degli astronauti impressa sulla busta. Gli allenamenti si tenevano nella nuova pista in conglomerato bituminoso del Centro Sportivo, proprio sotto casa mia. Sulle panchine di fronte all'ovale, oltre le transenne tubolari che lo circoscrivevano, le figlie degli immigrati meridionali di via Maffei osservavano i giovani atleti, avevano portato un piccolo registratore con cui ascoltavano Ma Baker dei Boney M. Iscrivermi all’ASPAR fu un atto quasi dovuto.
Di Vannuccini non si sapeva molto; di certo non era
originario di queste parti, sulla guida del telefono il suo cognome risultava
essere l’unico in provincia. Anche l’età era indefinita, per quanto a me paresse vecchio,
ma avevo otto anni e un ventenne era già un uomo maturo. Poi però cominciò ad apparirmi un po’ meno vecchio, il
riporto con cui celava la calvizie era diventato un’acconciatura come un’altra. Vannuccini
ha detto questo, esordivo quando rientravo a casa dopo avere arrancato per due
ore sui miei pattini Valsport – la cosa più difficile da imparare fu il passo
incrociato da eseguire in curva –, Vannuccini ha detto quest’altro… Al punto
che i miei genitori cominciarono a chiamarmi Vannuccinetto, me lo ripetevano
per burla ogni volta che celebravo il mio mentore. Quanto mi facevano
incazzare!
Uno psicanalista non ci avrebbe messo molto a capire
che Vannuccini era diventato un surrogato eroico della figura paterna, e come
in tutte le forme di innamoramento (non ricambiato) solo il tempo avrebbe fatto sedimentare la polverina magica, lasciando spazio ai nuovi travestimenti di Zeus e Afrodite. D'altronde lo dice pure la canzone: la stagione dell'amore viene e va. Ma prima deve raggiungere un climax.
L’occasione si presentò al termine di una gara. I miei
risultati agonistici non erano certo memorabili, ma quella volta, eravamo
in trasferta a Livigno, mi trovavo al primo posto. Uno o due passi spinta dietro mi tallonava un certo
Mirco, l’anno precedente aveva guadagnato il titolo di campione italiano di
categoria, le sue gambe parevano due prosciutti di cinghiale. Vai vai… che poi quando voglio ti passo, avrà pensato Mirco, lasciamolo divertire ancora un po’.
Ma non ci fu bisogno perché feci tutto da solo: mi scomposi quando vidi sull'asfalto una
vipera già morta, e ruzzolai a terra per lo spavento. Dai, riparti! mi gridava
Vannuccini sbracciandosi dal traguardo, ma a me faceva male il polso
sinistro.
Al ritorno non stavo come al solito sul pullmino, ero seduto sul sedile posteriore della
Simca di Vannuccini; un privilegio, di norma, riservato a Mirco e pochi altri. Forse fu una compensazione per la brutta caduta, ora il polso si era gonfiato e cominciava a pulsare. A un
certo punto il nostro presidente, preparatore atletico, allenatore, conducente, Vannucini faceva davvero tutto all'interno della sua ASPAR, a un certo punto accostò, scese e senza fornire spiegazioni cominciò a pisciare. Da dentro lo osservavamo concentrati, teneva le mani posate sui
fianchi alla maniera di Mussolini nei discorsi dal balcone di Palazzo Venezia, immaginavamo il sollievo dipinto sul suo volto, ricambiato dai trifogli al bordo della strada che conduce al passo della Forcola. Ma soprattutto ne immaginavamo
il cazzo, a giudicare dal poderoso getto di piscio doveva essere enorme, un
idrante che irrora il mondo donandogli la sua benedizione.
Al termine Vannuccini si diede una bella scrollata, e
dopo avere richiuso la cerniera dei pantaloni salì in macchina e ripartimmo
verso Sondrio. Il giorno successivo il medico mi disse che era meglio fare
delle lastre al polso, dalle quali risultò che l’ulna era integra ma il radio
incrinato. Due giorni di ospedale e quaranta di gesso, su cui i miei compagni
di classe depositarono la firma con un pennarello chiamato Super Pirat; qualche scemo che aggiunge delle porcherie si
trova sempre, ma la seconda punta del Super Pirat consentiva di cancellare. Di notte attenuavo il prurito con un lungo ferro da maglia.
Quando il gesso fu rimosso con un forbicione simile a quello con cui viene sventrato il pollo allo spiedo, il giorno stesso mi iscrissi alla Sondrio Sportiva di pallacanestro. La voglia di pattinare era scomparsa così come era venuta. Certo, in quei quaranta giorni Vannuccini avrebbe potuto telefonarmi a casa – una cavolo di telefonata per sapere come stavo, cosa gli costava? Se il telefono fosse stato occupato dalla moglie poteva sempre chiamare dal Bar Linda. Ma si sa che gli innamorati sono fatti così: un po’ permalosi. E gli amati distratti.
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