Mi ricordo di Erminia, un’amica di mia nonna. È uno
dei miei primi ricordi – avrò avuto quattro anni, forse meno –, la sensazione
del mio corpo minuscolo tra i loro corpi giganteschi, umidi dopo essersi lavate
per sommarie porzioni nel catino; e sì che nel bagno era presente la vasca, da
riservare però ai soli giorni festivi. Si distinguevano dagli altri perché,
oltre a lavarsi nella vasca, il nonno si radeva e metteva l'Acqua Velva, la
nonna il foulard e le scarpe con un accenno di tacco. Quindi io e lei soli andavano
in una chiesetta dalla spigolosa architettura modernista (il nonno si era
specializzato in funerali, veniva in chiesa solo per quelli), dove in ampio
anticipo sull'happy hour veniva offerto un dischetto di farina 00 mescolata ad
acqua e cotta per bene, la forma ricordava i gettoni dell’autoscontro.
Solamente il prete poteva tenere i gettoni dell'autoscontro tra le dita, agli
altri non era concesso; pare fosse anche quello un corpo: il prete non poteva
toccare il corpo degli uomini e, soprattutto, delle donne, ma nel caso del
corpo di Cristo si faceva un'eccezione. Mi sembra un compromesso
ragionevole. Un problema che io non avevo, come una bambola di porcellana venivo toccato, vestito, lucidato dopo essermi arrampicato sul fienile, e prima di
dormire posato proprio nel mezzo del lettone matrimoniale in noce, mia nonna da
una parte ed Erminia dall'altra. Sentivo le mani callose che mi rimboccavano le
coperte, il tepore di pance tornite dalla polenta più che dagli addominali, a
ogni minimo movimento era il frusciare dei sottanoni bianchi, da cui di tanto
in tanto sfiatavano delle puzzette, non so se fosse la nonna oppure Erminia. O
forse si trattava dell'odore che solo i bambini riconoscono, lo chiamano
vecchiaia; immagino che se un bambino mi annusasse oggi avvertirebbe lo stesso
odore. Poi l'esperienza si è ripetuta, e non posso dire con certezza a quale
sera si riferisca il ricordo; probabilmente a tutte quante assemblate in un
unico prodotto psichico, in fondo la memoria somiglia al montaggio nel cinema.
Erminia passava a trovare la nonna non troppo spesso, le facevano male i piedi e
ciò nonostante si rifiutava di prendere la corriera; ma neppure si trattava di
un evento eccezionale, diciamo una via di mezzo. Il nonno le cedeva volentieri
il suo posto nel letto, dove io venivo incorporato mentre i miei genitori
potevano tornare alla vita che mi precede: si cenava comunque a casa per risparmiare
sul modesto stipendio da maestri elementari, seguiva un film che è quanto
passava il convento – escludendo la sala della parrocchia dove la
programmazione era per ragazzi, rimaneva il Pedretti con la sua platea immersa
nella nebbia di MS e Marlboro. Se andava bene poteva essere Indagine su
un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Piccolo grande uomo, Il
giardino dei Finzi Contini, tutti usciti nel 1970 come la Fiat 128, e poi
di nuovo a casa per una scopatina. Intanto, mentre il nonno già ronfava nella
cameretta e io mi sforzavo per non fare lo stesso, Erminia e la nonna
parlavano, parlavano, non la smettevano più anche una volta spenta la luce. Ciò
che non mi tornava era il senso delle frasi sempre uguali, seguivano ai
pettegolezzi che, dopo un gesto compiuto da entrambe in sincronia, a collegare
con la mano destra la fronte, il petto e le spalle in sequenza, riprendevano.
Retrospettivamente, scommetterei che si trattasse di preghiere rivolte a Gesù,
alla Madonna e a un signore barbuto che nel suo cuore aveva scalzato il povero
Giuseppe; ma per quel che ne so avrebbero potuto essere invocazioni a qualche
divinità precolombiana, Hun-Hunahpu ad esempio. Mia nonna, Erminia, Hun-Hunahpu
e io – perché no? Nel tempo in cui tutto era ancora possibile la nozione di
assurdo non esiste. Erminia arrivava a passi lenti, ne riconoscevo la sagoma
scura e leggermente ricurva già all’inizio della strada sterrata che portava a
Busteggia. Lo stradino la pettinava una volta la settimana con un rastrello di
metallo dalla dentatura fine, per quanto mi fossi fatto l'idea che il suo fosse
un hobby stravagante, il vero lavoro fumare il sigaro. Già ad accenderlo,
un sigaro del tipo toscano, ci voleva dedizione e pazienza e fiammiferi di
legno, ma dopo un paio di boccate lo spegneva e infilava nella tasca del gilet,
per ripescarlo, assestati pochi colpi di rastrello, riaccendere la punta
annerita e così via. La nonna dava da mangiare ai conigli e chiudeva le galline
nel pollaio, il nonno terminava di mungere le mucche, io non sapevo ancora
leggere e così non avevo neppure quella rottura di coglioni, solo guardarmi in
giro, guardare ogni cosa incomprensibile e ogni cosa era incomprensibile e
giusta, senza bisogno di sfidarla con la fionda del concetto. Infine una
scodella colma di riso e latte che anticipava quel calore, quelle puzzette,
quei Pater Noster. Se penso a un’immagine che riassuma l'espressione famiglia
allargata, è questa qui.
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