venerdì 21 giugno 2024

Convergenze parallele

 

E se la migliore definizione di social l'avesse data un politico? Un politico morto quando il termine social ancora non evocava il computo dei like, come gli scalpi impugnati dai guerrieri Apache al rientro dalla battaglia: tanti scalpi, tanto onore. Piuttosto, social, era il sociale pronunciato alla maniera di Alberto Sordi, un filo invisibile che tiene legate le perline a comporre la collana. Rotto il filo, le perline cascano al suolo e non le ritrovi più; ne manca sempre una, lo stesso di quando provi a ricordarti i nomi dei sette nani.

Chi era già nato conserva memoria di quel giorno di lutto, cosa stava facendo quando l'ha saputo (io ero a dottrina per prepararmi a ricevere lo Spirito Santo e, al termine, ingozzarmi con gli spumoni di suor Tecla), in anni in cui tenevano banco Topo Gigio e il Mago Zurlì con la sua mantellina che si presumeva azzurra – nel 1978, il massimo della virtualità a cui potevamo accedere.

Sto parlando naturalmente di Aldo Moro. Si era inventato un ossimoro divenuto popolare, sintomatico di un certo lambiccato modo di intendere la politica, per questo satireggiato dai commentatori più irreverenti. Eppure era di un’esattezza assoluta, restituendo, tramite l’accostamento di due termini antitetici, la sua complessa strategia nei confronti della Sinistra, in particolare verso il Partito Comunista di Enrico Berlinguer: convergenze parallele chiamava il lento procedere della DC per aperture e ferme contrapposizioni, carota e bastone.

Ecco, anche io talvolta ho la sensazione di convergere con qualcuno conosciuto sui social. Se sono presenti nell'albo, scorro le fotografie in cui quella persona è ritratta; ma capita di non trovare nulla e allora tocca immaginare, desumo le fattezze fisiche da come viene disposta la punteggiatura: a una scrittura paratattica faccio corrispondere un aspetto snello e sportivo, o al contrario tenderà ad accumulare chili al moltiplicarsi delle subordinate. Provo persino dei sentimenti, oltre ad antipatie e simpatie di pelle.

Eppure queste convergenze rimangono parallele, le vite si sfiorano senza incontrarsi mai, gli odori vengono vagheggiati per analogia (quando su Facebook mi piace una donna, l'associo al profumo polveroso dell'iris fiorentino; o se, come è sempre più frequente, ha meno anni di me, avverto anche una punta di melone e gelsomino) e le puzzette non esistono. Quelle che rilasciano i corpi degli amanti sotto il piumone dopo aver fatto l'amore.

Solo un dio più salvarci

Nella nuova stagione di Call My Agent, Gabriele Muccino, nel ruolo di sé stesso, pronuncia questa frase: "Non c'è niente di più bello di famiglie disfunzionali che si sbranano."

Ci ripensavo leggendo della furibonda lite, in un ristorante romano, tra Paolo Virzì e l'ex moglie Micaela Ramazzotti, nella quale sono stati coinvolti il nuovo compagno di lei e la figlia trentacinquenne avuta dal regista nel precedente matrimonio.

Ciò che richiama il gesto ferino dello sbranarsi è la presenza sul luogo anche dei figli minorenni (quattordici e undici anni) dei due, ad assistere a graffi, pugni, piatti e sedie che volavano, urla, telefonini scagliati al suolo.

Ora io penso che sia Virzì che Ramazzotti siano persone intelligenti e sensibili, e per arrivare a tanto – infliggere un trauma ai propri figli, prima ancora che a sé stessi – dovevano essere carichi di una tale intensità emotiva chiamata dio dagli antichi; nella fattispecie Ares, il dio della guerra.

Ma ciò che manca al cinema italiano contemporaneo non è proprio questo? La presenza di un dio, di emozioni primarie e riconoscibili, intensità, potenza espressiva. Muccino la chiama bellezza, e mi sento di dargli ragione.

Si comprende così come la sua non era una battuta ironica, ma una sorta di riflessione meta cinematografica: in un mondo dove le ex coppie si sbranano a ristorante il cinema è rimasto indietro; le botte della pellicola della Cortellesi possiedono qualcosa di artificioso e programmatico, il dio è altrove.

Naturalmente non esiste solamente il dio della guerra: ci sono anche i maneggi di Ermes, la seduzione di Artemide, la tracotanza di Zeus etc. Ormai solo un dio, come disse Heidegger da anziano, può salvarci. O perlomeno può salvare il cinema italiano, che diversamente si trova a essere sconfitto dal gossip.

La separazione di Virzì e Ramazzotti (ma anche quella di Chiara Ferragni da Fedez) ci coinvolge più dei film in cartellone. Nella prima avvertiamo il gusto dolciastro del sangue, nei secondi solo passata di pomodoro.

giovedì 20 giugno 2024

I magnifici sette, o su sesso e social

 

Sono solamente sette. Nel gioco di ruolo della seduzione, il comportamento di uomini e donne si può suddividere in sette macro categorie. Per gli uomini: predatorio; pedagogico paterno; mendicante querulo; ironico cazzone. Per le donne: provocante; concessiva (o se si preferisce crocerossina); evitante altera; ironica cazzona.

Per fortuna, almeno quando facciamo i pirla, c'è qualcosa che ci unisce – forse per questo si dice che per conquistare una donna bisogna farla ridere. In ogni caso, il 90% delle relazioni tra sessi (almeno quando a sfondo erotico) si colloca in questo spettro a sette, come i nani, i giorni della settimana e i samurai nei film di Kurosawa.

E sui social?

Lo stesso. Se ci facciamo caso, le modalità di comunicazione con cui flirtiamo vengono replicate dal linguaggio delle story. Il testo che state leggendo, ad esempio, è scritto nella disposizione pedagogico paterna (con una legittima sfumatura di biasimo possiamo anche chiamarla mansplaining), per quanto sia rivolto indifferentemente a uomini e donne.

È rarissimo che una donna scriva sui social a questo modo, le donne non fanno mansplaining, grazie a dio. Più comune che un post femminile sia brusco e tranciante: nel giudizio di un film o una serie tivù, di un politico, una canzone di Sanremo, o nel minacciare di bannare chi lascia commenti poco lusinghieri. In questo caso, la donna in questione è entrata in modalità evitante altera; di solito succede alle donne molto belle o molto brutte, o a quelle che si sentono molto belle o molto brutte.

Lascio a chi legge il piacere enigmistico di trovare altre equivalenze tra social e corteggiamento, ma una volta individuato il meccanismo è sorprendente verificare le ricorrenze. C'è solo una cosa che mi lascia perplesso: quando si ciula?

Perché nella vita reale, di tanto in tanto, non spesso almeno nel mio caso, lo sforzo di seduzione va a buon fine   ma qui? Come dicevano i latini: "cui prodest"? Nemmeno un bacetto sulla guancia, l'obolo riconosciuto alla prostituta, un numero di telefono ad alimentare la speranza... Che inutile dispendio di energie!

martedì 18 giugno 2024

Abbassando

 

Io appartengo a una generazione che Alberto Camerini definiva elettronica, per cui le canzoni di Umberto Bindi o Sergio Endrigo o Domenico Modugno venivano percepite come archeologia sonora. Riascoltandole adesso, in particolare Bindi, mi appaiono non solo modernissime, ma di una ricchezza sia armonica sia melodica strepitosa, andando a oscurare quelli che erano i miti musicali della mia gioventù, ad esempio Guccini e De Andrè.

A loro comunque riconosciamo il merito di un lavoro sui testi che allora veniva chiamato poesia; un'espressione un po' sommaria che non rende giustizia né alla poesia, dove la parola non ha bisogno di alcuna stampella acustica a cui appigliarsi, si regge su sé stessa, né alla canzone. Con rare eccezioni (Paolo Conte, Vinicio Capossela, Avion Travel) il processo di abbassamento è proseguito negli anni successivi, al punto che tra i cantanti con meno di cinquant'anni riesco a riconoscere delle qualità solo ai Baustelle, Colapesce Dimartino e Vasco Brondi; nessuno di loro ai livelli di Umberto Bindi, ma bravi.

Si potrebbe fare un ragionamento analogo sulle voci femminili, se non ci avesse anticipato Gino Paoli – altro gigante canoro, le sue sfumature timbriche non hanno probabilmente eguali nella scena italiana – che ha tagliato corto con il brusco cinismo dei liguri: “Ieri avevamo Mina e la Vanoni (io aggiungerei anche Milva, Antonella Ruggero, Anna Oxa, Mia Martini, Loredana Bertè, Mietta, Fiorella Mannoia). Oggi emergono le cantanti che mostrano il culo.”

Ma è ascoltando quella che viene già decretata la canzone dell'estate, Sesso e samba di Tony Effe, che i miei dubbi musicali si fanno certezza: esistono i cicli storici, e siamo a tutti gli effetti all'interno di un ciclo storico declinante, di cui la musica popolare fa da specchio di Grimilde. Siamo un po' duri di comprendonio, e così ci strilla in faccia che no, non siamo i più belli del reame, ammesso e non concesso di esserlo mai stati. Da qualche parte c'è una Biancaneve molto più figa di noi.

In casi di decadenza conclamata, le energie interne non bastano a imprimere un colpo di reni che innalzi l'aeroplano in caduta libera ("sali pilota, recuperiamo il cielo ad alta quota" cantava Paolo Conte), ma servono i barbari, serve una civiltà più giovane, forte e vitale che fecondi le donne e si sostituisca ai nostri avvizziti spermatozoi.

Esiste uno studio per cui un ventenne occidentale avrebbe un numero di spermatozoi più che dimezzato rispetto a un ventenne degli anni Cinquanta; quei volti di adolescenti con gli occhi seri, l'espressione da cui già traspare l'adulto e il vecchio che saranno, fanno ancora capolino nelle pellicole neorealiste. A essi sono subentrati i volti bellini di Fedez e Tony Effe, i loro corpi muscolosi e tatuati, che generano canzoni orrende.

Ora io non so se questi barbari avranno gli occhi a mandorla dei cinesi, la carnagione brunita degli africani, vanno bene anche indiani, persiani, lapponi o maori. Chiunque, purché ci tiri fuori da questo pozzo senza fondo apparente, per tornare a estati in cui le canzoni che ci dicevano va tutto bene, don't worry, be happy, erano ArrivederciVolare, Sapore di sale, Liù, Gloria, Amore disperato, Luna, Sotto il segno dei pesci, Balla balla ballerino, Un emozione da pocoFigli delle stelle, TriangoloVacanze romane, Vattene amoreTropicanaSei bellissima, Per Elisa, Ma il cielo è sempre più blu, Quella carezza della sera, Bandiera bianca, Mi ritorni in menteSono solo canzonette, Strada facendo, Sereno è...

Ecco, un po' di serenità, se non la bellezza che somiglia ai volti impressi in America sui cartoni del latte, scende un uomo dal furgone e li deposita sullo zerbino con la scritta welcome. E un'altra scritta sotto la fotografia, quasi sempre si tratta di un bambino o una bambina: missing.

lunedì 17 giugno 2024

Noi

Il padre di Ilaria Salis, nelle numerose interviste che concede, si esprime il più delle volte con il pronome noi: "Noi ci stiamo ancora riflettendo... noi ringraziamo gli elettori... noi ci piace il gelato al pistacchio..."

Lo trovo interessante, forse è un segno, un segno non limitato al loro particolare rapporto – penso ai gruppi su WhatsApp delle madri di ragazzi in età scolare, o ai padri – padri di figli contrapposti in una partita a calcetto – che fanno a pugni sugli spalti. Nel nostro tempo sembra essersi tradotta in realtà la metafora biblica "questo è ora osso delle mie ossa e carne della mia carne", riferita da Adamo a Eva (Genesi 2.23).

Provo a pensare ai politici dei decenni scorsi: mi viene difficile associare lo stesso pronome di prima persona plurale al padre di Aldo Moro, o di Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Giulio Andreotti (e a dirla tutta, fatico a immaginare che Andreotti abbia mai avuto un padre, dalle cui mani ricevere lo stecco avvolto dalla nuvola di zucchero filato alle giostre. Me lo figuro emergere già formato dalla schiuma di un qualche mare, come Afrodite la splendente. Un'Afrodite venuta così così...).

Possiamo osservare il fenomeno anche attraverso lo specchio delle serie televisive: Eric, la serie più vista in questi giorni su Netflix, mette in scena la disperata ricerca di un padre del proprio figlio scomparso, che alla fine (attenzione: spoiler) riesce a riportare a casa come fa il padre di Ilaria Salis, ricomponendo il cerchio del noi.

Può darsi che le cose siano andate come dovevano andare: archiviati definitivamente i pugni in tasca di Bellocchio, o i giovani che, alla maniera di Jack London e Joseph Conrad, si imbarcavano da mozzi sulla prima nave senza informarsi della destinazione, a ogni estinta utopia collettiva o, per opposto, di affermazione individuale, sopravvive una versione mediana: la famiglia, appunto. Bisogna dire che qualcuno ancora prende il mare con uno zainetto sulle spalle e una fotografia nel portafogli, ma in barconi sgangherati salpati dalla Libia. Ecco, a quelle latitudini, probabilmente, si utilizza ancora il pronome io.

È forse questa la ragione per cui cerchiamo di respingere i migranti con tutti i mezzi: la singolarità di esistenze vissute in nome proprio minaccia il presepe familiare in cui è bello addormentarsi. Qualsiasi marachella tu possa combinare, c’è sempre un padre che ti viene a prendere in Volvo. Ma poi non si leva più dai coglioni, come fa invece John Wayne nella memorabile sequenza finale di Sentieri selvaggi, dopo essere andato a liberare la nipote rapita dai Comanche.

venerdì 14 giugno 2024

Le mosche e l'elefante, o su letteratura e merda

 

"La pura letteratura", afferma Antonio Franchini, "è scomparsa dalle classifiche dei libri venduti." A molti queste parole hanno fatto storcere il naso, trovandole in contrasto con il suo storico ruolo di editor. Eppure non diremmo lo stesso dell'elefante che, producendo ogni giorno svariati chili di merda, si rifiutasse di mangiarla, pretendendo un piatto di insalatina come dio comanda. Il lavoro è lavoro, dopotutto.

Più interessante sarebbe riflettere sulle ragioni per cui le mosche della merda siano invece ghiotte – ed è ugualmente noto che le mosche sopravanzino, in numero se non in stazza, gli elefanti. Per scoprire quanto Franchini abbia colto nel segno basta valutare la propria esperienza sui social: ci sforziamo, e magari anche riusciamo, nello scrivere qualcosa di complesso, intelligente, che vada a fondo delle cose; ma sono le volte in cui riceviamo una misera manciata di like, come l'elemosina al mendicante.

Se però pubblichiamo una foto della cucciolata appena nata al Labrador di famiglia, oppure l'immagine dell'ultima celebrità che ci ha lasciato le penne, o ancora una sciocchezzuola, la battuta bislacca pronunciata da un tizio per strada, meglio ancora se a esprimersi è un figlio in età prescolare, insomma un niente di parole ma tanto tenero o, in alternativa, buffo, facciamo il pieno di consensi.

Non è che tutti si siano rincoglioniti all'improvviso (per quanto il sospetto ogni tanto viene…), noi per primi non abbiamo voglia di fare sforzi nella lettura di un display, figurarsi nella comprensione del mondo. La svelta leggerezza gratifica, i sentimenti fanno sentire migliori. E se ci comportiamo così su Facebook – così indolentemente umani, nessun indice accusatorio, anche verso chi cerca di rimediare postando la copertina di un romanzo Adelphi – perché nel dischiudere la porta vetrata di una libreria si dovrebbe avere una disposizione diversa?

La merda è merda, ovunque si trovi richiama mosche in quantità, e come recita un celebre adagio avranno pure le loro buone ragioni. Quanto agli elefanti, che pensassero ai dinosauri: già gli è andata di culo nel non essersi ancora estinti.

Omologazione culturale o neo-tribalizzazione virtuale? Un collaudo

Dicono: la società occidentale è sempre più frantumata per gruppi eterogenei, vengono condivise le strade con cui raggiungere in auto il posto di lavoro – quale lavoro? – ma non l’immaginario, che finisce così col polverizzarsi in una moltitudine di miti e riti messi in atto da comunità non locali, trovando provvisoria aggregazione sul web. Mentre il vicino di casa si trasforma in un perfetto sconosciuto 

È possibile.

I social e i canali su YouTube stanno progressivamente scalzando gli infiniti Bar Sport degli anni passati, dove si conversava sorseggiando un bianco corretto (è lo stesso dello Spritz, ma costava un quinto) e giocando a boccette, mentre dal jukebox uscivano canzoni sempre uguali, ogni estate aveva le sue. Quindi gli oratori, le associazioni cattoliche, i boy scout, la sezione locale del PCI – luoghi fisici dove, come si dice, si faceva mondo: un unico mondo che conteneva corpi diversi.

Anche il virtuale, mezzo secolo fa, possedeva qualcosa di omogeneo e uniformante, con l’unica rete televisiva pubblica a cui seguì, il 4 novembre del 1961, RAI 2, e il 15 dicembre 1979 RAI 3, dopo la diffusa fioritura delle emittenti radiofoniche private; per Canale 5 bisognerà attendere l’anno successivo.

A me questa però appare una descrizione oggettiva del fenomeno, non la sua verifica vissuta. Per quella ci vorrebbe qualcosa come un collaudo. Mi presto a fare da cavia: nel 1975 compivo nove anni, e i personaggi che occupavano il chiacchiericcio mondano (solo molti anni dopo si sarebbe chiamato gossip) avevano nomi come Gianni Agnelli, Marina Ripa di Meana, Marta Marzotto, Franco Califano, Adriano Panatta, Eleonora Vallone, Helmut Berger o Gigi Rizzi. Di quest’ultimo mi era arrivata voce che se la facesse con Brigitte Bardot, ma di tutti gli altri non avevo idea di cosa combinassero in serate partite dai dehors di via Veneto.

Quando, una volta ogni due mesi, andavo dal parrucchiere Gino, non sfogliavo le pagine di Novella 2000, su cui avrei potuto avere ogni dettaglio riguardo gli amori stagionali dei vip. Mi gettavo piuttosto su Diabolik o Lando o il Guerin Sportivo, e così tuttora continuo a ignorare il palmares sentimentale di Califano. Mentre so tutto di Chiara Ferragni e Fedez – lei è uscita a cena con Tony Effe la settimana scorsa, in una story su Instagram indossano la stessa maglietta, particolare che ha fatto pensare a un loro flirt; intanto lui, Federico Lucia in arte Fedez, amoreggia con Garance Authié, modella spagnola ventenne nonché studentessa Economia alla IE University di Madrid.

Mi frega qualcosa di tutto ciò?

No, nulla, come non mi fregava nulla di Marta Marzotto. Ma se allora il mio disinteresse orientava il mio sapere, oggi non posso esimermi dall’essere persona informata sui fatti, come recita la formula giudiziaria sulla base della quale vengono convocati i testimoni nei processi – ecco: sono mio malgrado chiamato a testimoniare su vite, poche e sempre quelle, nella migliore delle ipotesi irrilevanti, in un processo farsa che già ne rappresenta l’assoluzione.

Le notifiche dello smartphone mi aggiornano con la cadenza del respiro affannato di chi ha appena fatto cinque piani di scale, sono costretto a vedere tutto, sapere tutto del pettegolezzo di oggi che riceve la staffetta dal pettegolezzo di ieri, ho gli spilloni conficcati nelle palpebre alla maniera del capo-drugo Alex in Arancia meccanica, non può fare a meno di sorbirsi i ripugnanti filmati con cui cercano di rieducarlo.

Dopo le novità sulle direttrici divaricanti dell’ex coppia d'Italia, posso già prefigurarmi i commenti cinici di Selvaggia Lucarelli, le t-shirt nere di Vannacci, la voce cacofonica di Parenzo, il dilagare dell'ego di Sgarbi e Morgan, il computo degli yacht di Bandecchi, la campagna acquisti del Frosinone e, ciliegina sulla torta, le sontuose mammelle di Arisa, non c’è giorno in cui non mi compaia una sua foto smutandata su qualsiasi device tecnologico, impossibile sfuggirle.

Ne deduco che la narrazione dei sociologi di una pluralità di mondi simbolici nei quali saremmo ora collocati – il pronome noi è limitato a insiemi minori, non più contenuti in un insieme maggiore a fare da cornice – è vera solamente a metà. Nel cuore di tenebra del nostro tempo avanza l’omologazione culturale profetizzata da Pasolini, procede a vele spiegate – una metafora anacronistica per gente anacronistica come me, a cui vengono imposti continui update al più degradato immaginario pop.

mercoledì 12 giugno 2024

Il tempo dell'amore


Metti un po' di musica leggera perché ho voglia di niente, cantano Colapesce Dimartino in una bella canzone di pochi anni fa. La musica leggera ha sempre flirtato con il niente e con la voglia, in un indistinto desiderate che molto somiglia alla giovinezza: volere qualcosa senza essere in grado di dargli consistenza, al punto che le parole si rincorrono e confondono nel tentativo di sostituire la cosa, la cosa che non c'è. Ma esiste forse un luogo e un tempo in cui musica, parole e niente trovano una perfetta intersezione, e quella è la Parigi della seconda metà degli anni Sessanta. Le canzoni francesi non erano più belle delle canzoni italiane del periodo, ma più leggere sì, specie quando a cantarle era un formidabile quartetto di donne: Jane Birkin, France Gall, Dalida e Francoise Hardy, morta ieri e per ultima a ottant'anni, senza di lei quell'irripetibile stagione davvero si conclude. La tour Eiffel ha vegliato su artisti probabilmente più grandi – i miei preferiti sono Charles Trenet e Barbara – ma nessuno, né prima né dopo, ha saputo portare la musica leggera a quei livelli di rarefazione, e cioè appunto di gioventù. Un tema che in Francoise Hardy ha saputo trovare voce anche nel testo; una voce sempre leggera, sia chiaro, ma è proprio ciò che ha fatto decollare Tous Les Garcons Et Les Filles nel cielo sopra i jukebox di mezzo mondo. Non che si dica l'inaudito, anzi: una ragazza cammina per strada e vede gli altri giovani camminare sullo stesso marciapiedi, si guardano negli occhi, les yeux dans les yeux, si tengono affettuosamente per mano, la main dans la main, e sogna di essere al loro posto, in quello che in un'altra canzone chiamerà le temp de l'amourIn fondo la struggente vaghezza del desiderio giovanile sta tutta qui, forma aggiornata (e semplificata) dell'intuizione che porta Leopardi a comporre Il sabato del villaggio: la vita come attesa e l'attesa come vita, non c'è molto altro in mezzo, se non appunto l'amore. E dunque grazie, grazie davvero Francoise per averci restituito con tanta esattezza un sentimento a cui ora possiamo attingere solo per il tramite di una memoria sempre più sfocata. Ma basta un clic su YouTube, inserire nella barra della ricerca il tuo nome, comparirà un volto bellissimo di giovane donna, e per una volta il superlativo non è abuso retorico, per ricordarci l'enormità perduta.

martedì 11 giugno 2024

Scenari

Vannacci. Si dice che Vannacci ha salvato la Lega di Salvini con oltre 500.000 preferenze – gli abitanti di Genova, bambini e prostitute compresi. Può essere.

Ma il dato percentuale della Lega, 9 %, è pressoché identico a quello delle politiche del 2022, che a sua volta rappresenta un quarto dei voti alle europee del 2019, dove fu alzata l'asticella alla misura record del 34,3 %.

Va aggiunto che Vannacci non è tesserato alla Lega, la famigerata decima da imprimere sul suo nome è per l'appunto in nome proprio, l'accostamento al partito fondato da Umberto Bossi è puramente occasionale (strumentale, se osservata nella prospettiva di Salvini), e non a caso ha portato alla stizzita defezione del Senatur.

Vannacci sarebbe stato votato per le sue idee nemmeno troppo velatamente fasciste, sessiste, razziste, qualunquiste anche se si fosse presentato nel Partito dei pensionati, o in quello delle casalinghe di Voghera. Vannacci non rappresenta l'immagine del Paese reale, come disse Gobetti di Mussolini, ma di quel paesello immaginario dove vengono forgiati i gadget poi smerciati a Predappio, con cui dobbiamo abituarci a convivere.

Sono insomma voti prestati alla Lega, non voti della Lega. Che dunque non solo perde ulteriormente consenso, ma anche il forte radicamento territoriale, da sempre loro principale risorsa. E ai leghisti tutto si può contestare, ma non che non sappiamo fare di conto: il numero di forme di taleggio gli è sempre stato chiaro, la partita doppia gli viene naturalmente come a Panatta la veronica.

Mi aspetto così a breve un congresso straordinario, in cui l'attuale segretario venga sfiduciato. Quindi un ritorno alle istanze padane, i carri armati di cartapesta diretti al campanile di San Marco, la sagra della polenta e usei, il celodurismo in canottiera bianca sulla battigia di Porto Cervo. Mentre Salvini fonderà, assieme a Vannacci, un nuovo partito di estrema destra, dove le cravatte verdi si tingeranno di nero.

Questo è lo scenario più ragionevole. Ma abitando un luogo e un tempo assai poco ragionevoli, probabilmente non si verificherà.

sabato 1 giugno 2024

Corpi di gloria o corpi di boria?

 

Prendo spunto da Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione, il libro di Francesca Marzia Esposito uscito di recente per Minimum Fax. Ne ho letto, molto bene, ma non l’ho ancora letto, cosa che spero di fare a breve. Le mie sono dunque considerazioni risonanti, ma del tutto autonome dal testo a cui mi aggancio come fosse uno skilift – a lei l’arrancare puntiglioso della salita, a me l’ebrezza slalomante della discesa. Se volete farvi tutto il viaggio: leggete lei, non me.

Esposito parla di corpi, corpi umani se ho ben inteso, e in particolare di alcune pratiche che hanno fatto del corpo una vera e propria ossessione, come la danza e il body building. La mia conoscenza è di superficie per entrambe, ma avverto nei confronti della prima un pregiudizio favorevole, mentre guardavo al body building con la spocchiosa diffidenza degli snob.

Ho utilizzato il verbo all’imperfetto perché, da qualche tempo, ho mutato giudizio. Può sembrare un accostamento stridente, ma a instillare il dubbio è stato un concetto filosofico elaborato da Jean-Paul Sartre; di cui si può dire tutto, tranne che possedesse un fisico scultoreo. Eppure fu lui a elaborare la formula di petit décalage, piccolo scarto, quello che è alla portata di ciascuno di noi: fare qualcosa (anche piccola, appunto) di ciò che la vita ha fatto di noi.

Se l’applichiamo al body building, scopriamo un inaspettato e perfetto correlativo. I nostri corpi, rispetto a quelli di altri animali, sono davvero poca cosa: non abbiamo pelliccia o piumaggio a difenderci dagli agenti atmosferici, e se proviamo a confrontarci a una tigre realizziamo di essere ciambelle venute senza buco; forse potremmo giocarcela con un polipo (la cui spiccata intelligenza però suggerisce di evitare sfide a scacchi), o una mosca stercoraria. Perfino i tanto declamati organi sessuali possiedono nella nostra specie qualcosa di ridicolo: se cazzo deve essere che sia quello di un mulo, non il vermicello pendulo ed estroflesso dei maschi sapiens sapiens; e non è che la fica sia venuta tanto meglio…

Forse è stata proprio l’imperfezione del corpo ad aver fatto pensare agli gnostici che il dio da cui siamo stati generati non è onnipotente né tantomeno misericordioso, ma una mezza sega da loro chiamata demiurgo; un pasticcione, nella migliore delle ipotesi. Bene ci dice Sartre, di quella cosa imperfetta che sei, che sei stato costretto a essere meglio, non hai potuto scegliere l’involucro fisico, la famiglia e la società dove emettere il primo vagito, fanne qualcos’altro, hai un piccolo margine di libertà per cambiare. Se ci pensiamo, è il proposito di ogni body builder.

I termini con cui possiamo compendiarne l’attività sono dedizione, sforzo, esercizio, applicazione, costanza, astinenza (da fumo, alcol, droghe e junk food, se non altro). Curiosamente, gli stessi termini che troveremmo in un trattato di mistica medievale. Con la differenza che l’obiettivo non è qui intangibile e rarefatto, ma incarnato in una superfetazione muscolare che possiede qualcosa di iperbolico. Il risultato potrà anche apparire discutibile, ma è fuori dubbio il faticoso percorso di elevazione necessario.

Un body builder mira infatti a una particolare forma dell’oltre  oltre all'umano, oltre alla conformazione naturale di uomini e donne  , che, continuando nel parallelismo con l’antichità, possiamo associare al neologismo dantesco trasumanare. A renderlo praticabile è quel piccolo grado di liberà che Sartre ci ricorda essere in nostro possesso. Non tutto è possibile, ma esiste sempre, anche ad Auschwitz, una possibilità di scelta.

Credo sia stata proprio l’idea di possibile ad avvicinare Mishima al body building, in una continuità ideologica con la sua idea di mondo tendente all'estetismo, relazioni umane fortemente individuate, politica e letteratura perfino – per comodità possiamo chiamare tutto ciò Altro, che nei mistici coincide con Dio. Ecco, se rimane in me una residua diffidenza nei confronti dei corpi pompati in estenuanti sessioni di allenamento, è proprio la mia incapacità a scorgere nei culturisti di mia conoscenza (compresa quel po’ di palestra che ho praticato in gioventù, non sono diverso da ciò che osservo) uguale disposizione dialettica all’Altro. Piuttosto, circolarità con la propria immagine vagheggiata, gorgo ombelicale, feticismo del medesimo. Diciamola più terra terra: narcisismo.

Correggere il pastrocchio realizzato dal demiurgo mi sembra un desiderio ragionevole, profondamente umano. Ma a patto che, alla maniera degli sport, tutti quei muscoli vengano finalizzati in un’azione dai tangibili effetti, facendoli reagire con un fuori qui inteso nelle più ampie determinazioni – anche spaccare la faccia al bullo che opprime il quartiere è un modo per riportare al mondo la propria metamorfosi fisica. Diversamente, l’utopia muscolare si trasforma in fuga dalla responsabilità, che è esattamente quanto faceva orrore non solo a Sartre (essere liberi significa essere responsabili delle proprie azioni), ma perfino a Nietzsche, colui che ha portato a equivoca oltranza il concetto di Übermensch.

Per concludere e tornare all’intuizione iniziale, ci sono forse due direttrici per realizzare il piccolo scarto, facendo qualcosa di ciò che la vita ha fatto di noi. Una al mondo ritorna, per cambiarlo in forza del cambiamento realizzato a partire dalla materia prima di cui siamo composti, spirito e carne; l’altra da esso definitivamente si allontana, e la reificazione della mistica antica prende così la forma del grottesco. E non sono tanto gli unguenti che rendono il corpo lustro e simile a quello del Big Jim, le pose paonazze come se si fosse intenti sulla tazza del cesso, gli slippini neri con impresso il numero che alle miss viene appuntato sul seno, ma la ricerca spasmodica di un generico altrimenti, che il più delle volte si rivela sbiadita fototessera del conforme.