Il mio rapporto con il cinema contemporaneo in fondo somiglia al suo oggetto. Penso a una sequenza di Caro diario, Nanni Moretti seduto a lato del letto su cui è disteso un critico cinematografico (a interpretarlo è il compianto Carlo Mazzacurati), lo sferza con le parole delle sue stesse recensioni, che gli rilegge in forma di contrappasso:
"Quel film coreano era un melodramma in costume, vestiti e soprattutto cappelli deliranti... Superfemminista, fiammeggiante e demoniaco... Girato come se fosse un trip alla Spielberg entrato nei ritmi e negli spazi futuristi... E c'è poi il Pasto nudo di Cronenberg: puro pus underground ad alto costo."
Naturalmente c'era molta ironia, e non ho difficoltà a trovare dei registi viventi le cui opere mi siano piaciute anche molto; i primi nomi che mi vengono in mente sono Mike Leigh, Kaurismaki, Jarmusch, Herzog, Guédiguian o, in Italia, Gianni Amelio e Garrone, ma quest'ultimo a fasi alterne. Il punto non è però stilare delle graduatorie di merito, ma la relazione tra merito e piacere. Il mio piacere di spettatore.
Sono così arrivato alla conclusione che ciò che mi turba in Caro diario non è la sciatteria del linguaggio di certa critica (puro pus underground è in effetti un'espressione strampalata), ma il fatto che quel linguaggio trovi referenzialità nelle categorie di valore, e queste nel mondo.
Detta in modo più semplice: per raccontare il presente si finisce coll'imbattersi nel pus underground, possiamo anche chiamarlo in un altro modo, ma la fioritura di un ciliegio ha smesso di imporsi quale esperienza significativa, e come giusto i registi ne hanno preso atto.
Il problema sono dunque io, non il cinema contemporaneo. Io che non ho più tanta voglia di un'idea di cinema ereditata dai Lumière – la verità prima di tutto, il cinema come riflesso della vita – che ha avuto il sopravvento sull'alternativa suggerita da Georges Méliès: una bugia, come si dice, a fin di bene, che conduce il mio occhio-razzo dentro l'occhio della luna.
È la stessa dolce bugia con cui si conclude Miracolo a Milano, con i poveracci che vengono assunti nel cielo del possibile cinematografico a bordo delle loro scope volanti; giusto il tempo di girarsi e fare ciao ciao con la mano alla Madonnina, e poi via in direzione di "un regno dove buongiorno vuole dire veramente buon giorno". E chissà che lì non ritrovino Dumbo, sostenuto nel viaggio dalle sue orecchie alate, o Mary Poppins con il suo ombrellino.
Ma quasi nessuno racconta più bugie a fin di bene, a cui sarei disposto a credere, e sono così obbligato a vedere duplicato un incubo di terra: la realtà, o meglio questa pus-realtà dalla cui ferita distoglierei volentieri lo sguardo.
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