Ho da poco pubblicato un post giocosamente misogino. In realtà, non credo di esserlo, o perlomeno non più di qualsiasi animale che guarda a una femmina della propria specie con un misto di desiderio e soggezione. Provo così a offrirne ora una versione più analitica e meno scherzosa.
Il successo con cui vengono premiate, attraverso i like, immagini e parole
pubblicate da donne giovani e belle sui social, è sintomatico di una novità
storica su cui sarebbe interessante sostare. Con un po’ di avventuroso slancio e seguendo
il solco dell'intuizione pasoliniana, possiamo considerarla il segno di una mutazione antropologica in corso. Donne giovani e belle che
scrivono talvolta pensieri notevoli, intendiamoci, ma il più delle volte e come
tutti cavolate. Con la differenza che tutti non hanno lo stesso riscontro.
Per analogia tra parole mondo, possiamo inquadrare questa mutazione
(dall'irrilevanza femminile, nella società patriarcale, all'ipervalutazione delle
comunità virtuali) attraverso due figure della retorica classica. Fino a
qualche decennio fa, con disposizione decisamente sessista, si assumeva che se
una donna fosse bella dovesse essere anche un po’ scema, e poco importava che
Jane Mansfield avesse un quoziente di intelligenza di 162, un punto in più di
Albert Einstein.
Possiamo così fare coincidere tale disposizione con la figura retorica
della sineddoche, per cui la parte, sì proprio quella parte lì che distingue
l’uomo dalla donna, sta in luogo del tutto. E se si trattava di una bella
parte, un bel corpo, una bella "fica", va da sé che il tutto
femminile si risolveva nel suo aspetto. Non c’era spazio per altre qualità.
L’attuale e tardiva e, dobbiamo augurarci, definitiva apertura di credito
alle capacità femminili, seguita alla rivoluzione culturale degli anni
Sessanta e Settanta, ha creato la premessa per il riconoscimento di altri
talenti, che sono sempre esistiti. Ma questi talenti, come la bellezza, sono
limitati: se tutti fossimo belli non esisterebbe il concetto di bellezza, e
così per ogni altra virtù. Sui social la qualità viene però presupposta
distrattamente, e ciò avviene, di nuovo, proprio a partire dalla bellezza,
l'antico marchio del femminile. Ed è qui che compare l’altra figura retorica a
cui accennavo. La metonimia.
Provo a dirlo in parole semplici. Se una donna possiede il dono abbagliante
dell’apparire, avviene una sorta di slittamento, di scambio (metonimia
significa scambio di nome) tra contenitore e contenuto, forma e sostanza, stato
e azione, andando a illuminare anche i gesti compiuti dalla medesima persona,
ad esempio scrivere un post su Facebook. La bellezza di chi scrive, insomma,
diviene la bellezza del testo. E se ci fossero dei dubbi sul primo aspetto,
vengono dissipati da una quantità di selfie in pose seduttive e gattamortesche.
Da qui la pioggia di like, perlopiù e come ovvio maschili.
Potremmo considerare questa mutazione come un’emancipazione rispetto al
vecchio pregiudizio sessista, non ho difficoltà a riconoscerlo. Ma rimane il
dubbio che permanga, non solo, una discriminazione implicita nei confronti di
donne meno avvenenti – ed è sessismo anche questo – quanto una sostanziale
continuità dentro la cultura della confusione.
Non sarebbe allora più semplice e onesto se un bel culo ottenesse il giusto
consenso in quanto culo, e un bel pensare, scrivere, disegnare mondi con parole
e gesti, fossero premiati al netto dell’aspetto fisico dell’estensore? E che
ben vengano le sovrapposizioni di stato, i culi pensanti e le parole avvenenti.
Come la già citata e sublime Jane Mansfield.
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