domenica 25 settembre 2022

Sineddoche e metonimia, un dubbio misogino part II


Ho da poco pubblicato un post giocosamente misogino. In realtà, non credo di esserlo, o perlomeno non più di qualsiasi animale che guarda a una femmina della propria specie con un misto di desiderio e soggezione. Provo così a offrirne ora una versione più analitica e meno scherzosa.

Il successo con cui vengono premiate, attraverso i like, immagini e parole pubblicate da donne giovani e belle sui social, è sintomatico di una novità storica su cui sarebbe interessante sostare. Con un po’ di avventuroso slancio e seguendo il solco dell'intuizione pasoliniana, possiamo considerarla il segno di una mutazione antropologica in corso. Donne giovani e belle che scrivono talvolta pensieri notevoli, intendiamoci, ma il più delle volte e come tutti cavolate. Con la differenza che tutti non hanno lo stesso riscontro.

Per analogia tra parole mondo, possiamo inquadrare questa mutazione (dall'irrilevanza femminile, nella società patriarcale, all'ipervalutazione delle comunità virtuali) attraverso due figure della retorica classica. Fino a qualche decennio fa, con disposizione decisamente sessista, si assumeva che se una donna fosse bella dovesse essere anche un po’ scema, e poco importava che Jane Mansfield avesse un quoziente di intelligenza di 162, un punto in più di Albert Einstein.

Possiamo così fare coincidere tale disposizione con la figura retorica della sineddoche, per cui la parte, sì proprio quella parte lì che distingue l’uomo dalla donna, sta in luogo del tutto. E se si trattava di una bella parte, un bel corpo, una bella "fica", va da sé che il tutto femminile si risolveva nel suo aspetto. Non c’era spazio per altre qualità.

L’attuale e tardiva e, dobbiamo augurarci, definitiva apertura di credito alle capacità femminili, seguita alla rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta, ha creato la premessa per il riconoscimento di altri talenti, che sono sempre esistiti. Ma questi talenti, come la bellezza, sono limitati: se tutti fossimo belli non esisterebbe il concetto di bellezza, e così per ogni altra virtù. Sui social la qualità viene però presupposta distrattamente, e ciò avviene, di nuovo, proprio a partire dalla bellezza, l'antico marchio del femminile. Ed è qui che compare l’altra figura retorica a cui accennavo. La metonimia.

Provo a dirlo in parole semplici. Se una donna possiede il dono abbagliante dell’apparire, avviene una sorta di slittamento, di scambio (metonimia significa scambio di nome) tra contenitore e contenuto, forma e sostanza, stato e azione, andando a illuminare anche i gesti compiuti dalla medesima persona, ad esempio scrivere un post su Facebook. La bellezza di chi scrive, insomma, diviene la bellezza del testo. E se ci fossero dei dubbi sul primo aspetto, vengono dissipati da una quantità di selfie in pose seduttive e gattamortesche. Da qui la pioggia di like, perlopiù e come ovvio maschili.

Potremmo considerare questa mutazione come un’emancipazione rispetto al vecchio pregiudizio sessista, non ho difficoltà a riconoscerlo. Ma rimane il dubbio che permanga, non solo, una discriminazione implicita nei confronti di donne meno avvenenti – ed è sessismo anche questo – quanto una sostanziale continuità dentro la cultura della confusione.

Non sarebbe allora più semplice e onesto se un bel culo ottenesse il giusto consenso in quanto culo, e un bel pensare, scrivere, disegnare mondi con parole e gesti, fossero premiati al netto dell’aspetto fisico dell’estensore? E che ben vengano le sovrapposizioni di stato, i culi pensanti e le parole avvenenti. Come la già citata e sublime Jane Mansfield.

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