In un'intervista televisiva giustamente divenuta famosa, Enzo Biagi invitava Pasolini a dire tutto ciò che desiderava, qui non ci sono censure, parli pure liberamente. No rispondeva Pasolini, sono io stesso a censurarmi. La natura del mezzo me lo suggerisce, e il mio senso di responsabilità converte questa consapevolezza in imposizione. C'è infatti qualcosa di intimamente antidemocratico nella tivù pubblica, una voce che cade dall'alto, un'asimmetria.
Riprendendo la sua intuizione, potremmo ipotizzare
che i social rappresentino un superamento in senso democratico della
comunicazione televisiva. In fondo qui ci chiamiamo amici e non
pubblico, e la simmetria, già a partire dall'impaginazione non gerarchica degli
interventi, unita al riverbero emotivo dei cuoricini e dei like che cadono a
pioggia, sono per definizione il tratto qualificante dell'amicizia. Uno vale
uno.
Ma allora perché più passa il tempo, più avverto
la mia presenza sui social con la stessa recalcitrante cautela di Pasolini?
Dire qualcosa va bene, sporgersi un poco, di tanto tanto, pure. Ma arrestarsi
un attimo prima che la parola divenga realmente e radicalmente amichevole, e
cioè rivolta a un tu che ne avrà riguardo, perfino nel caso si risolva in sciocchezza. Questo è l'atteggiamento che vado maturando, anche se non mi è
ancora del tutto chiara la ragione.
Una possibile risposta è contenuta nella bella
collana S-Confini, diretta da Fabrizio Coscia per l'Editoriale
Scientifica. È anche lui mio "amico" su Facebook, abbiamo più o meno
la stessa età, anche se nella vita reale non c'è mai stato nessun contatto,
solo qualche svelto commento in calce ai reciproci post. Ma confida nella
saggezza dei cani e di un numero limitato di umani, e tanto basta.
La premessa del progetto editoriale di Coscia
corrisponde all'invito di Enzo Biagi: non censuratevi, dite tutto quello che
pensate sembra essere il sotto testo, lo sconfinamento a cui esorta i
suoi autori. Non romanzi composti da trame narrative accattivanti, ma, come si
usa dire adesso, oggetti letterari che seguono percorsi accidentati, scavi
biografici e civili, epifanie verbali, confessioni. Dici poco!
A differenza di Pasolini, loro però gli danno
retta: quei testi difficilmente classificabili sono quanto di più vicino al
termine greco parresia, che non ha traduzione nelle lingue moderne per dire la
verità fuori dai fatti, ma nella voce che la esprime e, con essa, mostra la faccia
che proverbialmente va aggiunta per essere creduti. Ma sarebbe forse più giusto
intendere l'intero tumulto del corpo. La carne, in un moto retrospettivo, torna
a farsi verbo.
Compatibilmente con i miei occhi malandati, sto
leggendo alcune pagine dell'ultimo bellissimo volume pubblicato nella collana. Si intitola
Panico ed è a firma di Luca Doninelli. E così la nuova domanda diviene:
perché Doninelli può dire, senza autocensurarsi, ciò che pensa e soprattutto
prova? Ad esempio la paura, di più, il panico da lui sperimentato in numerose
occasioni, dirlo a interlocutori del tutto indifferenziati e potenziali,
nemmeno un selfie in costume sul lungomare di Bellaria. E perché invece io
avverto un limite speculare nei confronti di chi chiamo amico?
Per una volta, penso di possedere la risposta da
affiancare ai tanti interrogativi. Perché chi prende in mano il testo di
Doninelli (io, ad esempio) sta facendo una scelta, mentre il gesto di scorrere
una bacheca social corrisponde a trovarsi in casa migliaia di intrusi, come
quelle feste a cui ci si imbucava da ragazzi solo per scroccare
qualche Ceres e vedere se si rimediava una pomiciata. Si passava di là e si è
sentita una canzone dei Duran Duran fuoriuscire dalle finestre socchiuse.
Vogliamo fare due conti? Io ho su Facebook più di
3500 contatti. Tra questi, provo un sentimento di amicizia autentica nei
confronti di una decina soltanto, quindici al massimo di cui la metà sono
conoscenze non virtuali. Salgono a un centinaio se dall'amicizia facciamo un
downgrade alla simpatia; che è pur sempre un sentire consonante. Ma verso gli
altri, come mi dispongo io e soprattutto come si dispongono loro nei miei
confronti?
Se traduciamo in termini percentuali, il 97% delle
persone che si ritrovano le mie parole non scelte e, probabilmente, neppure
gradite sul display di un PC o di uno smartphone, mi avvertiranno nella migliore
delle ipotesi come estraneo, e nella peggiore gli starò sul cazzo. Un
sentimento ovviamente ricambiato, che non mi esime da un comportamento minimamente
rispettoso nei loro confronti. Mi censuro, insomma, come faceva Pasolini da
Enzo Biagi.
Se dunque cerchiamo ancora la verità singolare, la
parresia che sta nei corpi prima ancora che nelle parole, dobbiamo continuare a
sfogliare un libro (scelto, pagato, magari consigliato da un amico vero),
secondo l'illusione di Holden Caulfield che lo portava a desiderare di
telefonare a casa dell'autore di un romanzo appena terminato, come se in
effetti fosse anch'egli suo amico. Guardare lontano per vedere ciò che ci è
prossimo. Mentre dagli amici social mi guardo io, che dai nemici mi guardi dio. O nel dubbio Guido Crosetto.
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