Trovo il volto di quest'uomo di una struggente disperata bellezza. Se fossi stato una giovane donna e avessi vissuto a Ostrava a cavallo del millennio, avrei cercato di consolarlo, di amarlo, chi se ne frega se lui avrebbe o meno amato me. Noi donne immaginarie siamo fatte così, come le eroine romantiche che si trovano nelle pagine dei romanzi. Lui, Jan Balabán, di romanzi ne ha scritti un paio, entrambi notevolissimi, più svariate raccolte di racconti. Con la letteratura ceca sembra non avere niente in comune: tanto abili sono i suoi colleghi in ariose ironiche digressioni, tanto lui è determinato nell'andare dritto al punto. Si muore, questo il punto, che non si trasforma mai in due punti, principio di una nuova frase della vita. Ogni respiro contiene così quell'ipoteca finale, continuata a sondare con le sue parole non meno che con il suo volto, il corpo massiccio, da metalmeccanico, quasi un ossimoro rispetto a una sensibilità accesa e rarefatta. Fare cambiare idea a un uomo così è difficile, ma la donna che non sono ci avrebbe comunque provato, sapendo che l'amicizia tra maschi non risana certe ferite: "Dai Jan, andiamo a farci due birre" gli avrei detto, "due caraffe belle grandi con molta schiuma. Poi lasciamola depositare sulle labbra come i baffi di Babbo Natale, prima di baciarci mescolando barba e saliva." Lui forse avrebbe piegato le labbra in qualcosa che ricorda un sorriso, ma il taglio degli occhi sarebbe rimasto rivolto verso il basso, verso terra, verso la terra da cui viene e ritorna il figlio dell'uomo. Non sappiamo se davvero si sia tolto la vita come si mormora, certo è che era il 23 aprile del 2010, il giorno in cui Lubiana diventava capitale mondiale del libro e a Dubai veniva inaugurato il grattacielo più alto del mondo. Aveva quarantanove anni.
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