Ieri notte ho
sognato che avevo trovato finalmente un lavoro, non prendevo più il reddito di
cittadinanza. In effetti io non prendo il reddito di cittadinanza, sono
semplicemente disoccupato, ma nel sogno le cose stavano in modo un poco diverso; lo
scrivo per i lettori più pignoli, i campeggiatori nella pineta del realismo: la tenda va piantata bene a terra e i grilli fuori a frinire, mai dentro la testa. Anche i sogni, per queste persone, devono essere documentabili, e chiamano fiction tutto il resto. Nel nostro caso si tratterà allora di onirofiction.
Nella messa in scena notturna non so quanto pagassero per il nuovo lavoro, ma, come si dice,
importante è cominciare. Cosa devo fare ho chiesto rimboccandomi le maniche?
Un uomo alto con folti
baffi neri mi ha indicato un telefono di celluloide. Roba da modernariato, mercatini rionali, con il disco commutatore
per comporre i numeri facendolo ruotare in senso orario. Per un attimo ho avuto
il dubbio che fosse quello con cui la mamma telefonava alla zia, e, dopo un’ora di ma dai... ma tu pensa... DAVVERO?! citofonava bestemmiando il vicino, con cui condividevamo la linea attraverso il duplex. Devi rispondere quando suona, ha detto l’uomo troncando bruscamente i miei ricordi, e
poi raccontare una storia.
Una storia, quale
storia…? ho ribattuto perplesso.
Non importa, fai tu. La persona che chiama ti dirà una parola: usala, immagina che sia la motrice di un treno a cui devi attaccare i vagoni. Si tratta, in genere, di persone che vogliono solo passare il tempo. Inventati qualsiasi cosa, basta che non dici parolacce.
Come nelle favole al
telefono di Gianni Rodari! ho esclamato; finalmente avevo trovato un aggancio, il primo vagone merci del treno.
L'uomo coi baffi neri
è rimasto impassibile. Evidentemente, nel mio sogno, che era la sua vita, non
esisteva Gianni Rodari. Un sogno di merda, va' (ma l'ho solo pensato, non si sputa
nel piatto dove si mangia).
Ecco
che squilla il telefono. Una voce rauca e quasi sussurrata, probabilmente
appartiene a una persona anziana, senza tanti preliminari mi suggerisce la
parola insegna. Insegna, mmm... Imposto le corde vocali sul registro Gassman (Vittorio
eh, mica il figlio spilungone) e comincio a fare il mio lavoro.
C'era una volta una
città in cui i negozi non avevano le insegne. Nemmeno una? mi chiede il signore
anziano, diciamo pure vecchio. No, nemmeno una, via pure i cartelli stradali. E
questo era un problema, in particolare per gli stop e i centri massaggio cinesi.
Senza insegne avevano
iniziato a chiudere: prima uno, poi l'altro, come le luci di un condominio dopo
le dieci di sera. Le massaggiatrici che resistevano passavano il tempo ad
allenarsi tra di loro, torneranno i tempi buoni si dicevano per farsi coraggio. Ma, per quel particolare tipo di prestazione, non
funzionava, mancava un dettaglio anatomico che finivano per scordare. E alla fine mollavano come chi le aveva precedute.
Qualcuno mormorava
che stessero tornando in Cina, tornavano a casa loro, per la felicità di un
famoso partito politico che ne aveva fatto lo slogan, l'Italia agli italiani; purtroppo
esisteva anche nel sogno, il partito politico sì e Gianni Rodari no. Proprio un
sogno di merda. E comunque che ne so dove fossero finite le massaggiatrici
cinesi, ho dovuto infine ammettere incalzato dal mio interlocutore.
Rimanevano solo i
maschi, ma non trovando moglie – i cinesi si sposano notoriamente tra di loro –
finivano coll'estinguersi; niente più involtini primavera, casalinghi a poco
prezzo, negozi in cui si riparano gli smartphone, niente più cinesi di
qualsiasi sesso e solo uomini caucasici con i baffi, come quello che mi aveva
assunto.
E le altre donne? mi
chiede il vecchio con il solito filo di voce. Quelle simili a noi, senza gli occhi a mandorla e la elle al posto delle erre. Sì, insomma, dove sono
finite le nostre donne?
Accidenti, mi ha
preso in castagna, è un particolare a cui non avevo pensato. Balbetto qualcosa
ma poi mi tocca ammetterlo: non lo so. Posso solo confermare che anche loro
erano scomparse.
I maschilisti lo imputavano
al fatto che le donne, pure, sono insegne: fioriscono a primavera per le vie del centro,
come Wanda Osiris quando si dischiude il sipario. Al posto dei neon profumi, foulard
colorati, minigonne e bigiotteria, per distinguersi tra la folla. I maschilisti più
maschilisti di tutti aggiungevano: e un bel culo. Nel paese senza insegne, concludevano, è
normale che non ci fossero culi femminili.
Ma le femministe ribattevano ringhiose sui sociali
network (non potevano infatti farlo di persona, erano sparite insieme a ogni
altra donna) che se ne erano andate per solidarietà con le massaggiatrici
cinesi. Quindi condivano il tutto con qualche segno grafico transgender, tanto per
mettere le cose in chiaro. Il fatto che il vecchio non facesse obiezioni mi
faceva pensare che l'avesse bevuta...
Al posto di parole, dall'altra parte della
cornetta, sentivo però provenire dei sospiri, potevano essere anche singhiozzi,
non si capiva bene. Forse ho esagerato, mi dico. Le storie non cambiano certo
il mondo, ma quel piccolo pezzo di mondo costituito da chi le ascolta sì, le
narrazioni possono essere ascensori come sgambetti. Che sia ruzzolato nella
tristezza per colpa mia?
Ho pensato allora di
alleggerire il racconto, basta a volte una rima baciata per strappare un
sorriso. In una città senza insegne, dico, una storia in cui non sopravvive
nemmeno un piccolo arrugginito cartello sopra a una vetrina, tutto dilegua in un'ombra confusa. Le cose, quando non vengono segnalate, notate, è come se non esistessero. Prima di arrivare alla luna bisogna passare per il dito che la indica. E
all'oscurarsi dell'ultima insegna, la città rimane senza fregna.
A quel punto è
rientrato l'uomo coi baffi neri e mi ha strillato qualcosa in tedesco, l’accento era
quello della Renania settentrionale, sembrava il comando impartito a un
Dobermann con le orecchie drizzate, pronto a scagliarsi alla mia gola. Du bist
gefeuert, du bist gefeurt! ripeteva.
Bisogna aggiungere
che io, in tedesco, conosco solo la parola wurstel, ma nel sogno lo parlavo
correntemente, in particolare il dialetto della Renania settentrionale, se
incontravo un renano ci saremmo messi a raccontare barzellette sui bavaresi, chiamandoli
affettuosamente terroni.
Ho così potuto
tradurre al vecchio che ancora mi ascoltava confuso, spiegandogli che non
potevo più andare avanti con la storia perché ero appena stato licenziato.
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