sabato 4 aprile 2020

Intelligenza emotiva, qualche nota su creatività e altri equivoci



Considero Giuseppe Pontiggia, detto Peppo, uno dei pochi maestri di scrittura che il nostro Paese abbia avuto. Non perché scrivesse meglio di altri ma per l’estrema consapevolezza del gesto narrativo, che sapeva trasmettere nei numerosi corsi tenuti al Teatro Verdi di Milano, da lui chiamati di scrittura inventiva, non creativa.
L’aggettivo creativo è di derivazione teologica (creatio ex nihilo, come se lo scrittore fosse una divinità onnipotente e capricciosa), mentre l’ispirazione artistica è per Pontiggia una ricerca: a volte rapidissima, un guizzo, mentre altre volte lunga e faticosa, non sempre premiata dal ritrovamento del suo oggetto più intimo e vero, come suggerisce l'etimologia di invenzione, dal latino inventio, rinvenire.
Qualsiasi opera che voglia iscriversi dentro il perimetro dell'arte, e non di un intrattenimento che può essere anche virtuoso, non cadiamo nell'equivoco giovanile di liquidare ciò che ha successo come commerciale, l'opera d'arte in ogni caso si rinviene, si trova, e una volta trovata la si aggiusta, si sistema secondo quell'altro movimento che nella cultura classica prendeva il nome di poesis, un fare molto più artigianale che arbitrario, Paolo conte l'avrebbe chiamata "l'intelligenza degli elettricisti". Una metafora che scommetto Peppo Pontiggia avrebbe apprezzato, sempre attento come era al bisbiglio delle Muse, ma per poi guardare avanti, mai indietro. Lasciamo dunque la creatività ai creativi, che incroci o, meglio, incrociavi su corso Como con enormi occhiali fucsia e la tenuta nera di un beccamorto.
Più in generale, da Pontiggia ho appreso l’estrema cautela nell’aggettivazione tout court, e come aggiunge uno che a Pontiggia pure deve molto, Raul Montanari, alla logora espressione giornalistica lamiere contorte (in cui per definizione giace il corpo inerme dopo un incidente stradale) è da preferirsi il solo sostantivo lamiere, in cui già traluce la radice affilata di una lama, oscurata e sminuita dall'aggettivo seguente. Contorte non è infatti sbagliato – è così che si presenta la carrozzeria a seguito di un impatto violento – ma rovina la percezione del lettore con il velo polveroso dell'abitudine, oltre che con un'evocazione smussata, tondeggiante, confermata dalla sonorità. Ma per uscire da un tecnicismo da addetti ai lavori, lo si può comprendere anche dal recente dilagare di un altro aggettivo, emotivo, spesso accompagnato al termine intelligenza. La famigerata intelligenza emotiva.
Da quando si è diffusa questa combinazione, coniata per la prima volta da Peter Salovey e John D. Mayer nel 1990, non senza qualche merito all’interno delle scienze cognitive, da quando ha travalicato il perimetro delle scienze cognitive e si è fatta automatismo verbale, complici i supplementi illustrati dei quotidiani e le interviste a psicologi fin troppo telegenici, io vedo in giro un sacco di intelligenti emotivi, ma quanto sono emotivi... In pratica dei coglioni, e però empatici, sensibili, pronti soccorrere il figlioletto appena ruzzola dal triciclo. Come Lupo de Lupis, che è lupo, sì, ma pure tanto buonino.
Rimpiango così i tempi in cui l’intelligenza non si portava appresso alcun aggettivo. Si era intelligenti e basta, oppure fessi. Aristotele che era molto intelligente e pure un tantino stronzo, aggiungerebbe: tertium non datur.


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