domenica 5 dicembre 2021

Understatement, o sul canto finale dei corpi



Conosco persone che spendono un sacco di soldi per acquistare qualcosa, qualsiasi cosa, mettiamo un'automobile, ma che appaia umile, modesta, discreta. Per restare all’esempio, con gli stessi soldi di un macchinone magniloquente e vistoso loro si prendono una Mini.

È il concetto di understatement, che non significa una ricerca dell'umile, del modesto, il discreto, ma del suo involucro. Deve infatti lasciare trasparire uno status superiore, secondo una dinamica di sotto testi comunicativi da far girare la testa; io voglio mostrarti che sono ricco, sembrano dirti, anzi sussurrarti le persone understated, ma nel farlo utilizzo un segno in cui non deflagri la mia condizione, anzi venga come occultata – ma non del tutto. Si deve cioè intravedere che (col cavolo!) io sono davvero umile, modesto e soprattutto povero. Nell’arte retorica corrisponde alla struttura semantica dell’antifrasi: dire una cosa per comunicare il suo opposto.

Riflettendo sulle dinamiche vagamente perverse dell'understatement, mi sono accorto che, prima di diventare un vezzo diffuso nelle classi economicamente più elevate (pensiamo a Bill Gates e ai suoi maglioncini tortora, uguali a quelli impilati sugli scaffali dell’OVS), è stato il modello universalmente accettato per la bellezza femminile. Lo mostra, al solito, meglio di tutti Dante, in quello che potremmo vedere come un manifesto ante litteram di tale disposizione: "tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand'ella altrui saluta"; e da notare anche qui il verbo della reggente, parere, e cioè sembrare, in luogo di un forse più congruo essere.

Ma Dante non si sbagliava mai, e selezionava i verbi con grande cura. Per molti secoli l'Occidente, ma in fondo anche l'Oriente, ha imposto alle proprie donne una sorta di schizofrenia psichica, in cui la virtù (principalmente estetica) era pretesa ma allo stesso tempo negata nella sua piena manifestazione, forse intuendo che la libera circolazione della bellezza femminile poteva compromettere l'ordine sociale; molti miti parlano di questo rischio, a partire da quello del Pomo della discordia, le cui conseguenze condussero alla guerra di Troia. Ecco allora che le forme sensuali e pericolose del corpo vengono ammantate di gentilezza e di modestia, o perlomeno così appare.

Una struttura portante della cultura a cui apparteniamo – il femminile deve essere contenuto, pena lo scatenarsi del caos – entrata in crisi in tempi recenti, quando si è come ribaltata di segno: sono gli uomini, i manager, i vincenti che hanno fatto proprio il modesto travestimento dell'understatement, mentre i velami si sono progressivamente sciolti nella controparte di genere. Basta farsi un giro su qualsiasi social network, dove incontriamo donne anche colte e non più giovanissime, intellettuali spesso, laureate in discipline ardue di cui si mostrano giustamente orgogliose, le vediamo cambiare ogni pochi giorni la propria immagine di status, inserendo fotografie non di rado ammiccanti, un tempo le si sarebbe definite sexy.

Non fa eccezione la politica, che anche in questo si dimostra specchio del Paese. Proviamo a immaginare le donne della Prima Repubblica (Nilde Iotti, Tina Anselmi, Franca Falcucci) nei panni di Mara Carfagna o Maria Elena Boschi, Nunzia De Girolamo, Giorgia Meloni. È cambiata la moda, si ribatterà. Sì e no. La moda femminile si apre infatti al corpo a partire dagli anni sessanta con le minigonne di Mary Quant, ma secondo uno schema fatto proprio dal titolo di un celebre film del periodo: “Poveri ma belli”; quando il potere, che in buona parte già coincideva con il denaro, continuava a proteggersi con un solido carapace dalla penetrazione dello sguardo, come i drappi e le foglie di fico che Daniele da Volterra, meglio noto come il Braghettone, dipinse sopra i genitali negli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, su commissione di Pio IV.

Ciò che contraddistingue i tempi nuovi non è dunque la circolazione del corpo in quanto tale, ma del corpo del potere, il corpo che come i lingotti d'oro nelle banche centrali doveva rimanere occultato per generare valore, secondo il felice parallelismo suggerito da Bataille. Lo squadernamento del corpo non solo femminile (in questo Mussolini fu profeta) segna dunque uno scarto simbolico nella rappresentazione del potere, che al fondo è sempre un potere seduttivo, almeno se vuole essere riconosciuto e non solo subito.

Nelle società tradizionali il corpo del potere coincideva con la maschera, ossia con un "altro” numinoso che ne legittimava lo statuto, e di cui il sovrano veniva rivestito per ipostasi. Era in un certo senso una maschera anche il potere erotico della donna, un’epifania sempre dilazionata, rimandata, come avviene nel cerimoniale dello strip-tease (“e lèvate 'a cammesella, a cammesella gnernò, gnernò"). Il corpo, in altre parole, per regnare qui doveva essere altrove.

Ma se le cose stanno a questo modo, il dilagare del corpo anche nelle classi dominanti, tra i raffinati, gli istruiti, che attraverso la pratica dell’understatement velano al contempo i simboli del loro status, induce il sospetto che il potere del corpo si sia nel frattempo affievolito, e perché ci si accorga della sua esistenza si debba alzare la voce sempre più. Potremmo così guardare alla diffusione dei tatuaggi come a un grido scomposto del corpo, che reclama un’attenzione altrimenti negata: guardami, GUARDAMI! gridano corpi sempre più irrilevanti sulla scena pubblica, e a ben vedere anche su quella privata, sessuale.

Possiamo affidarci al più oscuro dei filosofi, Hegel, che vede i segni del tramonto di un ciclo storico nella sua postrema affermazione, ma anche a un’immagine dolente e familiare, in cui il cigno canta quando è prossimo alla fine. E i nostri corpi, i corpi delle nostre donne, le donne che non sono più nostre ma, giustamente, dei loro corpi, cantano più forte che mai, in attesa forse di richiudere le ali. E senza ali, in effetti, si sale meglio a bordo di una Mini, bada bene con tutti gli optional del caso. 

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