lunedì 29 novembre 2021

Zerocalare, o sulla divaricazione tra autore e doppelt


In una delle sue innumerevoli e preziose riflessioni sul gesto narrativo, Milan Kundera suggeriva che è sempre collocato nello spazio e nel tempo, anche quando le indicazioni cronospaziali sono vaghe; in tal caso a essere messa a tema è proprio tale vaghezza: non possiamo, semplicemente, eludere luoghi e tempi, che dell'accadere sulla pagina rappresentano le coordinate cartesiane. Non così la poesia, che può svilupparsi nella cantabilità di una visione disincarnata.

Lo stesso dispositivo che, secondo una moda filosofica recente, potremmo definire situante, agisce sul punto di vista interno alla narrazione costituito dai personaggi, anch'essi portatori di una sorta di marchio di fabbrica; può essere più o meno preciso (il giovane, ad esempio, in luogo delle sue specifiche anagrafiche), ma comunque da inserire in uno spazio virtuale manifesto, in cui nel corso della narrazione il prima si fa poi. Kundera arriva così a concludere che uno degli scopi del romanzo è proprio interrogarsi su cosa significhi avere una certa età, oltre a essere nati in un determinato posto, con quegli amici, genitori, strade, palazzi, lingua, suoni.

Se le cose stanno a questo modo, mi sembrano del tutto inconsistenti le critiche alla nuova serie di Zerocalcare, Strappare lungo i bordi, che la vogliono troppo romana, oppure adolescenziale o, ancora, intrisa di sottocultura da centro sociale. Semplicemente, quello è il mondo – la smagliatura nello spazio-tempo – che all’autore preme raccontare: la vita di un adolescente che gli rassomiglia cresciuto nella periferia romana dei primi anni novanta; e nella periferia romana, allora come adesso, si parla romano, non vedo quale sia il problema.

Cercherei piuttosto di capire se questa sua deliberata scelta del particolare – “se vuoi essere universale parla del tuo villaggio”, già ammoniva Tolstoj – riesca a intercettare un interesse diffuso, e cioè quell’universalità di cui dice il grande scrittore russo. I temi non mancano: la marginalità sociale; il desiderio di riconoscimento; l’amore ricercato e a un tempo temuto, mancato, quindi rimpianto; l’amicizia; il lavoro e la sua assenza; la generazione di una coscienza critica nella forma reificata di un armadillo, con cui avviare dei buffi dialoghi interiori; la morte; la degradazione dei vincoli comunitari e una diffusa bizzarria sociale, forse specchio deformante di rabbia, frustrazione ecc.

Insomma, c’è un’abbondanza di materiali che vanificano le critiche di una prospettiva autoriferita, in cui il particolare invece di spiccare il salto verso l’alto o, meglio, verso l’altro costituito dallo spettatore, si tradurrebbe in particulare, orgoglioso e idiosincratico compiacimento della propria differenza. No, non è così. C'è molto mondo in Zerocalcare, anche e soprattutto quando tiene le palpebre semisocchiuse.

Una visione interposta che si ottiene attraverso il principale strumento di cui un artista si avvale: lo stile, ossia la capacità, quando c’è, di plasmare quei materiali in forma di racconto, digressioni, ritmo. E anche qui, mi pare che Zerocalcare ne esca con più meriti che magagne; sa insomma padroneggiare le storie che racconta, strappandoci, ogni volta, un pensiero o un sorriso.

La nota stonata mi sembra piuttosto da ricercare in quella corrispondenza, non importa se vera o presunta, che l’autore persegue fin dalle origini con i suoi personaggi; nella serie su Netflix il sostituto biografico è costituito da Zero. Nelle prime tavole disegnate da Zerocalcare il rispecchiamento funzionava, secondo una strategia narrativa che si stava affermando nel periodo e che con prestito francofono (qui americanizzato nella pronuncia) viene chiamata autofiction. Poi però il gioco si è inceppato.

Vediamo dunque cos'è successo nel frattempo. Si crogiola nell’incomprensione, quanto tutti lo celebrano; parla di marginalità sociale ma è al centro dei riflettori; dice di non essere amato con i fan che lo aspettano sotto casa per sfiorarne il lembo della felpa, come si fa con il mantello dei santi; ha problemi di soldi nonostante Netflix lo strapaghi; dà voce a un eterno sedicenne, quando di anni ne ha trentasette.

E però, attenzione: il soggetto delle prime affermazioni è il personaggio, Zero, mentre delle seconde Zerocalcare, o meglio ancora Michele Rech, questo il nome di battesimo dell’artista romano nato a Cortona il 12 dicembre del 1983 da madre francese. Posto dunque che l’autofiction è più finzione che “auto”, nel nostro caso l’ambiguità biografica non giova più al suo oggetto espressivo, il doppelt, negli anni, si è reso completamente indipendente dal demiurgo, e nessuna pozione è più in grado di consentire la conversione tra il Dr. Jekyll e Mr. Hyde.

Un’impasse, quella tra autore e suo sostituto simbolico, che abbiamo già incontrato altre volte, ad esempio nelle ultime canzoni di Bruce Springsteen: come possiamo accordargli di nuovo la nostra fiducia (la famigerata sospensione dell’incredulità) quando continua a cantare di scorribande notturne tra i neon di vecchi distributori di benzina e sdentati drop out, mentre ora lo sappiamo giocare a golf con Barack Obama, condividerne gli yacht?

Meglio sarebbe allora se Springsteen avesse istituito una distanza più netta tra autore e personaggi, e lo stesso Zerocalcare; bastava assegnare al protagonista della serie un nome diverso, e ciò anche se è una storia romanzata e non il presente del suo autore, che dalla traccia mnestica del fanciullino che è stato continua a spremere idee feconde. In fondo, anche la fantascienza più spericolata non potrebbe prodursi senza il trampolino dell'esperienza di chi scrive.

Peccati veniali, certo, a fronte di una serie che ho trovato più carina che geniale – alla fine nulla è davvero inaudito in questa recherche adolescenziale compiuta con garbo e ironia. Non merita la liquidazione superciliosa dei commentatori più cinici e distratti, ma nemmeno l’acclamazione di nuovo genio dell’underground.

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