Nel solo Ottocento si contano in Italia
sei ondate di colera, che provocarono 600.000 morti. Chi si è preso la
masochistica briga di leggersi per intero gli epistolari di Manzoni, oppure di
Leopardi che di colera morì a Napoli nell'epidemia del 1837, o ancora di Benedetto Croce, Cavour, Mazzini, assicura che non vi fanno mai riferimento, non una sola riga in cui si nomini la
terribile malattia.
Da ciò si ricava che i nostri antenati
non badassero troppo alla salute (e in parte è probabilmente vero, si facevano
molti figli anche come "scorta”, distribuendo il rischio che qualcuno morisse
prima di raggiungere la maggiore età), e anzi fosse bello vivere mentre scorrazzava un virus, vestirsi con le galosce e farsi cavare i denti con una tenaglia
arrugginita.
Eppure nelle narrazioni pubbliche questa
memoria è ben presente, sebbene trasfigurata attraverso lo specchio concavo
dell'arte – la peste del Seicento, descritta con dovizia di particolari nei
Promessi sposi, è certamente un modo per accostarsi a ciò che i contemporanei
di Manzoni stavano vivendo con angoscia, così come il Decameron di Boccaccio
che innalza il presente a emblema, da cui la sua natura di classico.
Nella nostra epoca i rapporti si sono
invece invertiti: dilaga l'aneddotica sul Covid, ma manca il grande
romanzo, oppure la pellicola, lo spettacolo teatrale, manca una mediazione
artistica che dal particolare emotivo muova all’elemento universale. Se i nostri
giorni fossero un film, sarebbe tutto girato in soggettiva, mai un campo lungo,
un dolly dall'alto.
Forse questa narrazione onnicomprensiva
ha bisogno di tempi di decantazione – Der Tod in Venedig di Thomas
Mann fu scritto nel 1921, a dieci anni dall’ultima ondata di colera –, ma il
dubbio è legittimo. In un'opera che si pretenda artistica, l’elemento
discriminate, ci viene di continuo ripetuto, viene fatto risalire alla forma e
alla complessità dell'oggetto indagato, in cui torti, ragioni e virtù
sono spesso confusi e paradossali, come lo è l'animo umano.
Non sarà allora un caso che molti
scrittori amassero pescare (Hemingway, Carver, London, Melville ecc.), che
dello sprofondamento negli abissi del senso si fa chiara metafora. Riflettiamo ora su cosa pesca il nostro sguardo quando si immerge nel presente; non è
richiesta un'attenzione particolarmente vigile, basta sintonizzarsi su un talk show televisivo oppure entrare in un social network, e poi
confrontare ciò che si legge con il libro della memoria, pensare ai nostri
vecchi compagni di scuola.
Fatelo anche voi, cercate di ricordare
lo scemo della classe, a volte sono più d'uno; in una bella canzone di Vinicio
Capossela questa figura archetipica prende il nome di Spessotto, colui che
durante le interrogazioni fa scena muta e "se non funziona vuol dire che è
rotto, se non lo capisci allora lo spacchi". Bene, nel mio caso tutti gli
scemi della classe, tutti gli Spessotto che ho incrociato sono ora contrari ai vaccini; o
detta diversamente: conosco molti scemi vaccinati, ma nessuna persona davvero intelligente che sia diventata no vax.
Questo però è un problema per ogni tentativo
di trasfigurazione artistica. La divisione manichea inibisce il gesto creativo,
lo riduce a forme bozzettistiche minori, satira sociale tutt'al più. È come se
il galleggiante di sughero a cui è appesa la lenza dei nostri scrittori, invece
di sprofondare perché il leggendario pesce d'oro ha abboccato e tira giù, giù, sempre più giù dove il mondo si fa indistinto e inquietante, balzasse in
superficie per restarvi, come se il mare si riempisse di galleggianti colorati
e tutto fosse visibile e a portata di sguardo.
Il significato originario del termine apocalisse coincide con una simile condizione; i veli che nascondono la realtà
cadono spontaneamente, e non è più necessario ricercare (con parole, trame,
figure retoriche e personaggi) una verità che già si offre con pornografico
ghigno, in un movimento che ricorda il maniaco sessuale quando dischiude
l’impermeabile crema di fronte a una bambina che gioca nel parco. E se in un romanzo gotico bambina e
maniaco, alla fine, si scoprono essere la stessa persona, a noi non viene
offerta alcuna sintesi dialettica: gli Spessotto continuano a marciare
imperterriti per la loro ottusa via, mentre i primi della classe, con il fiocco
azzurro appuntato sul grembiule, stanno vagamente tronfi sull’altro lato del marciapiede.
Per questa ragione dubito che venga mai scritto il grande romanzo sul Covid, le cui pagine sono già squadernate davanti ai nostri occhi, tutto è già oscenamente chiaro e diviso per squadre; Milan e Inter, guelfi e ghibellini, Stanlio e Ollio. E così preferiamo andare su Netflix a cercare qualcosa di più vitale della vita.
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