mercoledì 15 dicembre 2021

Il grande romanzo sul Covid, perché non è ancora stato scritto


La sensazione, diffusa, è che in questi due anni sia accaduto qualcosa di enorme, inaudito. Nei secoli scorsi ci furono epidemie anche più gravi, un dato generalmente ricordato per minimizzare la situazione e criticare le politiche governative, offrendo una risposta giusta a una domanda sbagliata. Ma è un fatto che nella memorialistica del periodo non vi è quasi traccia di ciò che avveniva all'interno dei corpi, la parola era riservata a questioni considerate più importanti.

Nel solo Ottocento si contano in Italia sei ondate di colera, che provocarono 600.000 morti. Chi si è preso la masochistica briga di leggersi per intero gli epistolari di Manzoni, oppure di Leopardi che di colera morì a Napoli nell'epidemia del 1837, o ancora di Benedetto Croce, Cavour, Mazzini, assicura che non vi fanno mai riferimento, non una sola riga in cui si nomini la terribile malattia.

Da ciò si ricava che i nostri antenati non badassero troppo alla salute (e in parte è probabilmente vero, si facevano molti figli anche come "scorta”, distribuendo il rischio che qualcuno morisse prima di raggiungere la maggiore età), e anzi fosse bello vivere mentre scorrazzava un virus, vestirsi con le galosce e farsi cavare i denti con una tenaglia arrugginita.

Eppure nelle narrazioni pubbliche questa memoria è ben presente, sebbene trasfigurata attraverso lo specchio concavo dell'arte – la peste del Seicento, descritta con dovizia di particolari nei Promessi sposi, è certamente un modo per accostarsi a ciò che i contemporanei di Manzoni stavano vivendo con angoscia, così come il Decameron di Boccaccio che innalza il presente a emblema, da cui la sua natura di classico.

Nella nostra epoca i rapporti si sono invece invertiti: dilaga l'aneddotica sul Covid, ma manca il grande romanzo, oppure la pellicola, lo spettacolo teatrale, manca una mediazione artistica che dal particolare emotivo muova all’elemento universale. Se i nostri giorni fossero un film, sarebbe tutto girato in soggettiva, mai un campo lungo, un dolly dall'alto.

Forse questa narrazione onnicomprensiva ha bisogno di tempi di decantazione – Der Tod in Venedig di Thomas Mann fu scritto nel 1921, a dieci anni dall’ultima ondata di colera –, ma il dubbio è legittimo. In un'opera che si pretenda artistica, l’elemento discriminate, ci viene di continuo ripetuto, viene fatto risalire alla forma e alla complessità dell'oggetto indagato, in cui torti, ragioni e virtù sono spesso confusi e paradossali, come lo è l'animo umano.

Non sarà allora un caso che molti scrittori amassero pescare (Hemingway, Carver, London, Melville ecc.), che dello sprofondamento negli abissi del senso si fa chiara metafora. Riflettiamo ora su cosa pesca il nostro sguardo quando si immerge nel presente; non è richiesta un'attenzione particolarmente vigile, basta sintonizzarsi su un talk show televisivo oppure entrare in un social network, e poi confrontare ciò che si legge con il libro della memoria, pensare ai nostri vecchi compagni di scuola.

Fatelo anche voi, cercate di ricordare lo scemo della classe, a volte sono più d'uno; in una bella canzone di Vinicio Capossela questa figura archetipica prende il nome di Spessotto, colui che durante le interrogazioni fa scena muta e "se non funziona vuol dire che è rotto, se non lo capisci allora lo spacchi". Bene, nel mio caso tutti gli scemi della classe, tutti gli Spessotto che ho incrociato sono ora contrari ai vaccini; o detta diversamente: conosco molti scemi vaccinati, ma nessuna persona davvero intelligente che sia diventata no vax.

Questo però è un problema per ogni tentativo di trasfigurazione artistica. La divisione manichea inibisce il gesto creativo, lo riduce a forme bozzettistiche minori, satira sociale tutt'al più. È come se il galleggiante di sughero a cui è appesa la lenza dei nostri scrittori, invece di sprofondare perché il leggendario pesce d'oro ha abboccato e tira giù, giù, sempre più giù dove il mondo si fa indistinto e inquietante, balzasse in superficie per restarvi, come se il mare si riempisse di galleggianti colorati e tutto fosse visibile e a portata di sguardo.

Il significato originario del termine apocalisse coincide con una simile condizione; i veli che nascondono la realtà cadono spontaneamente, e non è più necessario ricercare (con parole, trame, figure retoriche e personaggi) una verità che già si offre con pornografico ghigno, in un movimento che ricorda il maniaco sessuale quando dischiude l’impermeabile crema di fronte a una bambina che gioca nel parco. E se in un romanzo gotico bambina e maniaco, alla fine, si scoprono essere la stessa persona, a noi non viene offerta alcuna sintesi dialettica: gli Spessotto continuano a marciare imperterriti per la loro ottusa via, mentre i primi della classe, con il fiocco azzurro appuntato sul grembiule, stanno vagamente tronfi sull’altro lato del marciapiede.

Per questa ragione dubito che venga mai scritto il grande romanzo sul Covid, le cui pagine sono già squadernate davanti ai nostri occhi, tutto è già oscenamente chiaro e diviso per squadre; Milan e Inter, guelfi e ghibellini, Stanlio e Ollio. E così preferiamo andare su Netflix a cercare qualcosa di più vitale della vita.

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