Mi ricordo che a ogni primavera c’era un oggetto, perlopiù si trattava di un capo di abbigliamento, come un dio moderno e po' fru fru emergeva da coltri di nubi vaporose, imponendosi abbagliante alla vista per richiedere il tributo dei fedeli, che prontamente si genuflettevano. L'offertorio era quello laico degli acquisti. A posteriori, il battage pubblicitario che è la versione aggiornata del catechismo, mi appare minimo, e con eccezione dei jeans Jesus (“chi mi ama mi segua” stava scritto sopra un bel culo di femmina) era davvero il fato a stabilire quale dovesse essere l’epifania stagionale del sacro, che solo per eufemismo veniva chiamata moda. Faccio fatica a individuare una cronologia, ma nella memoria fa capolino, da principio, la t-shirt del film di Celentano Yuppi-Du, a cui associo le magliette Fiorucci con due putti che campeggiavano sul petto di ragazzi un poco più grandi di noi; quale surrogato, ci restavano le Fruit of the Loom: rigorosamente bianche, potevano avere l’effige grande – un paniere di frutta di stagione, come recita la formula inglese del brand – oppure più piccola e discreta, stampata proprio sopra al cuore. Quindi, in ordine sparso, le scarpe sportive Tepa oppure Mecap; la spessa suola in materiale plastico veniva percepita come morbida, a conferma che una potente fede riesce a modificare anche le informazioni dei sensi; si continua con giacche a vento leggere ripiegabili a marsupio, il marchio è tornato in auge e si distingue per il cromatismo della fettuccina su cui scorre la cerniera; ancora jeans, ma questa volta Wrangler, Levi’s, Lee, Roy Roger’s; nelle sere estive si indossavano gilet di cotone Benetton color pastello anche se si schiantava dal caldo; un camicione dai colori sgargianti e disegni geometrici spopolava sulle spiagge, dove veniva venduto da africani itineranti (allora non li si chiamava ancora “vu’ cumprà”, ma non era ritenuto offensivo il termine negr@), mentre tra noi bambini si convenne che fosse la blusa di Sandokan; il Montgomery, o Duffle Coat, segnò l'irruzione dell'abbigliamento militare nel cazzeggio sul corso, più tardi replicato dai bomber degli aviatori americani, giacconi camouflage, bermuda con le tasche laterali; si distinguevano i compagni dall’eskimo verde e i camerati dal giubbetto di renna con i polsini a calza; negli inverni innevati erano i Moon Boot a tenere banco, nella doppia versione plastificata e pelosa; l'egemonia dei Ray Ban venne brevemente contesa da occhialoni da sole giganteschi e neri, a cui seguì una più smilza versione a specchio da sci: al centro della montatura in celluloide il galletto tricolore simbolo della Francia; rientrati dal mare si continuavano a calzare le ciabatte infradito e quelle in lattice semitrasparenti, da scoglio, che effettivamente erano molto comode per cercare i granchi negli anfratti calcari, meno per giocare a calcetto all'oratorio Don Bosco; gli zoccoloni olandesi e gli stivaletti con la cerniera e le espadrillas e le Clarck’s, a suddividere nuovamente la mistica del consumo in categorie antropologiche alternative, ma tutto sommato complementari; i pantaloni a zampa di elefante non hanno bisogno di commento; la minigonna la minigonna la minigonna, bisogna ripeterlo almeno tre volte per sottolineare quanto quel fazzoletto di tessuto fu dirompente; i più desiderabili erano però gli indumenti ottenuti con i buoni di altri acquisti, io e mia cugina avevamo la maglietta gialla del formaggino Tigre, mentre mio cugino più grande gli aveva preferito quella di Yuppi-Du, da cui siamo partiti. Ed era davvero un partire per ritornare, una circolarità scandita da mode che avevano la puntualità ricorsiva delle rondini, dove l’abbigliamento non serviva a distinguere ma a farti sentire come gli altri, incorporava in una trascendenza incarnata e totalmente democratica. Fu con gli anni Ottanta che le cose cominciarono a mutare: la promiscuità festosa delle vesti, senza darlo a vedere alla maniera del trucco di Silvan, venne sostituita dalla versione pop del concetto junghiano di individuazione; a garanzia di unicità, la firma dei sarti che cominciavano a venire chiamati stilisti, brutto segno... Si affermò così una disposizione elitaria: non indosso, come negli anni Cinquanta, la giacca grigia e la camicia azzurra perché lo fanno tutti, ma esibisco l’aquilotto Armani per essere diverso dal branco. In realtà, fu una mutazione gattopardesca, e continuammo a vestirci allo stesso modo, solo spendendo il quadruplo per avere la pecetta Stone Island a fare da bandiera sulla manica sinistra, sorta di proto tatuaggio indolore del conformismo balneare. A conforto, l’illusione dei criceti che questo muoversi da fermi rappresentasse un viaggio: verso il vertice sociale, il top, il privé del Billionaire, e non più rannicchiati nel tiepido ventre della storia.
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