L’Eurovision rappresenta la più verace rappresentazione dello stato attuale dell’Europa. Roberto Benigni, ospite negli scorsi giorni a Propaganda Live, sosteneva (in realtà concionava, ma è il suo stile appassionato e glielo concediamo volentieri) che ci troviamo per la prima volta di fronte a una generazione antropologicamente europea; i giovani chattano con stranieri conosciuti su Instagram, si muovono da una capitale all’altra frequentando l’Erasmus. In realtà, l’Erasmus esiste dal 15 giugno del 1987, dunque sono quasi quarant’anni, ma è un’approssimazione cronologica veniale, andiamo al sodo: è vero quanto affermato da Benigni?
Per collaudarne il pensiero, di cui la frase citata rappresenta
una minuscola sintesi, la versione estesa sta in un suo saggio appena
pubblicato da Einaudi, per farlo basta appunto sintonizzarsi sull’Eurovision. I pochi
masochisti che ci hanno provato si sono ritrovati catapultati in un mondo
alieno: il cantante sloveno in tutù fucsia che canta in falsetto, la belloccia danese ha una pinna in testa e la coda da sirenetta, un altro si presenta con il pigiama
rattoppato di Super Pippo; anche noi facciamo la nostra parte con il pur bravo
Lucio Corsi, che a uno spagnolo dell’Estremadura deve però fare lo stesso
effetto di quello che a noi appare un campionario di freaks.
No, l’Europa musicale non esiste, in suo luogo un
coacervo mal assortito in cui è impossibile identificarsi. Eppure non è sempre
stato così. Fin da Carlo Magno esisteva un clima comune continentale, che, malgrado le numerose guerre, si è più tardi precisato in prassi condivise, perlopiù
in campo artistico. Per Modigliani fu naturale trasferirsi a Parigi nel 1906; e
dove volevi che andasse, a Pisa o Poggibonsi? Lo stesso durante la guerra civile
spagnola, giovani che provenivano da tutto il mondo ma in particolare dall’Europa:
i più a dare manforte alla Repubblica, altri avevano voglia di menare le
mani per Franco. Eh già, perché la Spagna è in Europa, e questo veniva percepito
prima ancora che pensato.
Un sentimento di appartenenza che ha scavallato, di qualche
anno, il termine del secondo conflitto mondiale. Pensiamo ancora alle arti: i
film italiani neorealisti e la nouvelle vague francese; dal medesimo luogo, una forma canzone diversa: Edith Piaf, Aznavour, Jacques Brel; i dischi di Brassens risuonano
infinite volte a casa De André; intanto, Berlusconi canta Charles Trenet sulle
navi da crociera, mica Gino Latilla o Claudio Villa.
Dell’Europa dell’Est, divisa da una cortina proverbialmente di
ferro, si sa poco, mentre i tedeschi stanno schisci per il casino che hanno
combinato; al contrario i vincitori: prima arriva l’onda lunga americana (bastano
il flipper e il chewing gum a ridefinire il mondo), quindi l’influenza britannica
che culminerà con la Swinging London e l’esplosione del fenomeno Beatles. Dal
Portogallo è la rivoluzione dei garofani e la voce di Amália Rodrigues; Alekos
Panagulis, in Grecia, si oppone al regime dei colonnelli e diventa un eroe
epico nelle pagine a lui dedicate dalla sua compagna, Oriana Fallaci; ma anche
il sirtaki danzato sulla spiaggia da Anthony Quinn, e Georges Moustaki che intona:
“Con questa faccia da straniero sono soltanto un uomo vero anche se a voi
non sembrerà. Ho gli occhi chiari come il mare capaci solo di sognare, mentre ormai non sogno più…”
Aveva forse ancora senso, nel 1982, per la Nannini riferirsi a un generico ragazzo dell’Europa, uno che non pianta mai bandiera, che trova sempre un passaggio per andare più in là (la ragione più comune era sfuggire al servizio di leva obbligatorio), ma dei suoi simili si è in seguito perso traccia. Sì, i giovani parlano ora l’inglese meglio di quanto lo facessimo noi, qualche viaggetto se lo fanno, ma quanti hanno imbracciato un fucile per difendere l’Ucraina dall’invasione russa, o più cautamente conoscono i cantanti dell’Eurovision? Nemmeno di Barbara, la più grande chansonnière francese del secolo scorso – una voce di vetro, l'aveva definita Adriano Sofri –, nessun italiano si ricorda; se gli chiedi una cantante di nome Barbara, ti rispondono Barbara Streisand.
L’Europa è stato un grande sogno elitario, ma con una base narrativa autenticamente popolare; ora
si è però trasformato in vuota retorica nelle piazze convocate da Michelle Serra, a cui
la ex meglio gioventù accorre in taxi, in una replica farsesca degli slanci tragici novecenteschi. Spiace dirlo, perché quell’idea ci
sarebbe anche piaciuta. Come viene detto in un’altra canzone: è inutile rifare un letto ormai disfatto. A questo punto, cerchiamo di
diventare non postumani, come vorrebbe Elon Musk, ma almeno pan-umani – homo sum,
humani nihil a me alienum puto, già recitava Publio Terenzio Afro
– e chi cavolo se ne frega dell’Europa!
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