lunedì 2 dicembre 2024

Bilancio di fine d'anno

Scocca gelido, almeno qui al confine con la Svizzera, dicembre, tempo di bilanci annuali. Ciò vale anche per la presenza sui social, una parte residuale – ma in fondo nemmeno troppo residuale – della mia vita.

Per una curiosa coincidenza, questo mese ho pubblicato il post con cui ho ottenuto il maggior numero di consensi dell’intero anno (122 tra like, cuoricini ed emoticon vari) e quello con il numero minore (10; comunque dieci persone che si sono prese qualche minuto da dedicarmi, cosa non così scontata e per cui li ringrazio).

Ciò che mi fa riflettere è la diversa natura dei due post. Nel vincitore, chiamiamolo così, è presente una sorta di nemico, anzi due nemici: Chiara Ferragni e Giovanni Tronchetti Provera, neo fidanzati su cui faccio un po’ di ironia, scivolando a tratti nel sarcasmo. La cornice sociologica, il riferimento a Kafka e Pasolini, il tono burlesco in cui inquadro il tutto non bastano a cancellare questa punta di livore. Diciamo che non sono particolarmente orgoglioso di quel testo.

Nell’altro post l'atteggiamento è ribaltato: non l'antipatia verso due vincenti, ma la simpatia verso un perdente assoluto, di cui assumo indirettamente la prospettiva; con le debite sproporzioni, è quanto fa Nick Carraway con Jay Gastby. A differenza del capolavoro di Fitzgerald, non si tratta però della perdita dell’amata, ma è la radicale sconfitta nel perdere la dignità. Ciò avviene attraverso il più sciagurato evento simbolico: cagarsi addosso in pubblico. È quanto capita a Giovanni, un mio compagno di classe in seconda elementare.

Ma proviamo a individuare altre differenze, la lunghezza è più o meno simile e ridotta, non si tratta dunque di quello ad aver sperequato il consenso. Giovanni è piccolo, inerme, taciturno e con gli occhiali da vista; tutti ridono di lui, compreso il me di allora. Ferragni e Tronchetti Provera non sono invece piccoli e piuttosto giovani, più giovani della maggior parte delle persone che hanno lasciato un like, oltre che più belli, ricchi, famosi. Gettargli addosso un po’ della merda di Giovanni potrebbe essere un gesto di compensazione, alla maniera della pernacchia di Eduardo in ‘L'Oro di Napoli’. E sono pure più paraculetti, per usare il nuovo aggettivo salito alle cronache; ma così riacciuffo il registro del rancore da cui sto provando a staccarmi.

Stiamo allora ai numeri. Lo scherno è più remunerativo della compassione nella misura del 1200%, almeno sui social; ricordiamoci sempre del contesto di lettura. Un dato che dovrebbe portare a meditare, o perlomeno io ci sto provando. E la prima domanda che mi faccio è: per chi scrivo quando scrivo? Non una pagina di diario, intendo, ma un testo destinato a un pubblico, a dei lettori. Se la destinazione agisse retrospettivamente, come in fondo è normale nella maggior parte delle attività – il panettiere che non vende prova a mutare i tempi di cottura, il lievito, le farine; o quale estrema disperata mossa, assume una commessa più procace –, dovrei guardare al post vincente come modello, e cercare di ripetermi per accrescere le manifestazioni di gradimento, da cui l'algoritmo di Facebook pesca per determinare la diffusione dei contenuti. È il cosiddetto effetto valanga, a trasformare le persone in influencer. Ora che ho capito il meccanismo mi si spalancano i cancelli della notorietà…

Però non è ciò che ho fatto, e potrei allora concludere dicendo che scrivo per me. Ma non è nemmeno questo, già che il passo conseguente – non compiuto – avrebbe dovuto essere cancellarmi l'istante dopo dai social. In via provvisoria mi sembra così di poter collocare la mia risposta in un punto intermedio; non so bene dove indentificarlo, ma mi è chiara almeno una cosa: mi piace quando gli altri mi dicono bravo, sono rallegrato nel ricevere il loro plauso, tanti like tanto amore. Ma il godimento da consenso non può mai dissociarsi dall’identificazione che ho con il testo, e deve riflettere una parte significativa di me, un mio modo di essere e sentire.

Il sarcasmo con cui ho scritto di Chiara Ferragni e Tronchetti Provera mi riflette pochissimo, mentre c’è molto di me nello sguardo affettuoso verso Giovanni e la sua sconfitta. Quindi sono molto più orgoglioso di quei 10 like che degli altri 122. Di cui comunque, anche in questo caso, ringrazio. Non si sputa nel piatto dove si mangia pappa di sogno.

(Per chi non li avesse letti e volesse farlo ora, copio di seguito i due testi.)

Post perdente:

Mi ricordo del busto esile e ritto di Giovanni, spunta appena dallo schienale della sedia, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano il loro posto e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni o della gonna e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto che ricorda i giudizi scolastici, un voto in pagella tra gli altri. Promosso! La maestra Maccarone, alito di caffè, ha sempre avuto uno spiccato senso del teatro, eredità forse della sua regione di provenienza.

Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il proscenio, e da ciò intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi nell'aula, sempre più intenso e penetrante. Farsi la cacca addosso è una brutta grana, anche se frequenti la seconda elementare.

Dall’altro versante della rappresentazione, la gioia feroce nell'essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli, le braccia alzate del pugile proclamato vincitore. Rido insieme agli altri, puzzone, puzzone smerdolone diciamo rivolti al colpevole, finalmente smascherato. La legge del branco non è meno implacabile per i cuccioli. Intanto, gli occhietti azzurri di Giovanni cominciano a inumidirsi, la massiccia montatura in celluloide degli occhiali è l’unico argine a sua difesa. E così continua a rimanere immobile, più simile alla fotografia che non al teatro o al cinematografo, in effetti. È un totem.

Una lava marroncina intacca la fissità dello scatto, la vediamo tutti e le risate si fanno ancora più forti, cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia, si diffonde sulle piastrelle sintetiche del pavimento. E insieme a quella cominciano a sgorgare dalle palpebre i primi goccioloni.

Ora il totem si è trasformato in vulcano, ma senza sonoro. Questo è Giovanni. Il suo talento è il disegno, è l'unico della classe che sa già disegnare un cavallo, all'intervallo mangia il panino col salame preparato dalla mamma, parla poco, sorride molto. Un vulcano da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

Post vincente:

La neo coppia composta da Chiara Ferragni e Giovanni Tronchetti Provera rappresenta una sintesi mirabile di ciò che Pasolini chiamava mutazione antropologica. Il problema non sono dunque loro, ma il fatto che simili facce da cui trasuda il fatturato (vero o presunto) le si incontrino ovunque, basta farsi un giro in un centro commerciale il sabato pomeriggio: quei nasini, quei sorrisini, quegli occhiettini azzurrini e vacui sono diventati la norma, non più l'eccezione. E anche quell'indicibile desiderio di prenderli a calci in culo. È però una tentazione a cui bisogna resistere, non solo per le conseguenze a cui andremmo incontro – lasciamo provvisoriamente tra parentesi la morale, anche avere una faccia del genere è infatti immorale –, ma perché non possiamo escludere di svegliarci una mattina e vedere le medesime insulse fattezze riflesse nello specchio del bagno. Se Kafka riscrivesse oggi il suo racconto, non in scarafaggio, ma in Tronchetti Provera Junior trasformerebbe Gregor Samsa.

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