sabato 21 novembre 2020

Breviario di filosofia traumatica

 


Nei giorni scorsi ho scritto un paio d'interventi sul tema del trauma, a cui sarebbero sottoposti (è opinione comune sui social network) i giovani che non possono beneficiare della didattica in presenza, e più in generale patiscono gli effetti della pandemia. E sull’ultimo punto sarei sorpreso del contrario.

In entrambe le occasioni è intervenuta su Facebook una persona che manifestava disappunto: da principio circostanziato e cortese – dunque gradito –, ma poi via via sempre più generico con richiami offensivi alla mia persona ("ci prendi gusto, eh", "che cosa triste", "com'è brutto il tuo tono", “informiamoci prima di parlare”).

Ora io non voglio ravvivare il dibattito, che la persona in questione ha interrotto, ogni volta, senza offrire risposta alle mie domande. Cosa che non rappresenta un problema, intendiamoci. Secondo il filosofo Giorgio Agamben si tratta addirittura del nuovo galateo sociale, in cui risposta e domanda procedono separate; ciò da quando il corpo dell’interlocutore – il corpo fisico proprio, quello smarrito nella comunicazione intermediata dalla tecnologia – ha perduto la sua forza vincolante, quale specchio concreto da cui ricavare il senso del dovere. Una volta si riassumeva il tutto con l’espressione metterci la faccia. Da qui il termine ir-responsabilità che caratterizzerebbe il nostro tempo: non sentirsi in debito di una risposta dovuta all’altro, una risposta di qualsiasi tipo.

Ho richiamato il pensiero di Agamben perché mi sembra fare da cornice esplicativa del nostro non intenderci: sia col mio distratto interlocutore, sia, più in generale, sul web. Ma restiamo al caso specifico, da cui sarà forse più semplice allargare in seguito il quadro.

Quando ironizzavo sul trauma che viene attribuito ai giovani, lo facevo in una prospettiva arcaica della responsabilità, in cui il desiderio personale entra in un rapporto dialettico con il desiderio dell’altro. Non stavo insomma negando il disagio giovanile, per quanto la sua rivendicazione traumatica mi sembra provenire dagli adulti – politici, genitori, psicologi dall'aria imbronciata ma tanto telegenica – più che dagli stessi giovani, in una forma che a me appare ipotecata da una forte dose d'ideologia.

Anche perché: a cosa porterebbe la soddisfazione del desiderio giovanile di ritornare a una vita normale, se non a un ulteriore incremento dei contagi che ricadono (traumatizzandoli) su categorie diverse: medici, infermieri, forze dell'ordine, anziani. Ossia in un tono vagamente pomposo, la comunità umana nel suo insieme.

Il fatto che la persona più volte intervenuta sia uno scrittore, anzi un bravo scrittore – si chiama Enrico Macioci e consiglio la lettura del suo ultimo romanzo, Tommaso e l’algebra del destino – mi porta a una riflessione ulteriore: è ancora la parola scritta, la parola pubblica, il luogo in cui il linguaggio collauda il suo senso, oppure sta diventando una pratica in cui il desiderio coincide con il godimento (jouissance lo chiama Lacan, con ciò intendendo un impulso al piacere non limitato alla sfera sessuale), e l’urgenza alla soddisfazione individuale ha la meglio sul suo argine collettivo, costituito dalla parola quale ordine simbolico?

È un quesito meno intellettuale e astratto di quanto può apparire, a cui l’esempio che ho portato può offrire di nuovo chiarimento.

Se noi decidiamo di intendere il sostantivo trauma in una chiave del tutto generica ed estensiva, in cui ogni piccola privazione, contenimento, moderazione, diviene trauma, avremo una società ipertraumatica in cui ciascuno rivendica soccorso, e pochissimi sono pronti a offrirlo. Con questa giustificazione: cazzo vuoi, ho il mio trauma! Non vorrai mica traumatizzarmi ancora. Lasciami andare a giocare a calcetto con gli amici, se no poi dovrai pagarmi lo psicologo. Ognuno fa insomma i traumi suoi.

Viceversa, attribuendo al trauma un valore linguisticamente più circoscritto e meditato (nel mio testo facevo riferimento a Anne Frank, il cui trauma aveva natura diversa, diciamo pure più profonda, da chi è costretto a un’inflazione di Netflix e PlayStation), restituiamo alla lingua la capacità di discriminare il mondo, che è appunto quanto dovrebbe saper fare uno scrittore.

Una discriminazione che ha carattere performativo, se è vero quando sostiene un altro filosofo, John Searle, che le parole sono atti, con effetti corrispondenti. Nella circostanza, continuare a scrivere di riattivare IMMEDIATAMENTE la didattica in presenza potrebbe anche portare a quel risultato, trasferendo il trauma dei giovani alle già citate categorie più a rischio. E ricordo en passant che questa è la prima epidemia nella storia che risparmia proprio e solo le giovani generazioni.

Ma come uscire dal circolo vizioso dei diritti, quando, come in questo caso, hanno tutti ragione, tutti qualcosa da perdere e qualcosa da guadagnare, che drammaticamente si escludono? Nel linguaggio popolare potremmo tradurlo con i proverbi: è impossibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, o tirare la coperta in entrambe le direzioni.

Ci soccorre il terzo e ultimo dei filosofi che mi piace ricordare, a conferma del fatto che la filosofia proprio inutile non è. Emanuel Kant. Per l’appartato genio di Königsberg il bene corrisponde sempre al bene maggiore, secondo una gerarchia da graduare sull’asse inclinato delle relazioni umane. In un orizzonte comunitario ossia morale ossia politico, il bene maggiore coinciderà allora con la scelta del trauma minore – che attenzione: non significa contraddirlo, ma ridimensionarlo in una sorta di movimento a salire dello sguardo che nel cinema viene chiamato dolly; quando l’ironia è propriamente una strategia discorsiva finalizzata a ridimensionare la strategia opposta: l’iperbole enfatica, che usando lo stesso paragone filmico potremmo vedere come primo piano ristretto. Ancora una volta non è difficile, quando passiamo dalla teoria alla prassi.

Tra uno studente di prima liceo, traumatizzato perché non può tirare il cancellino al suo compagno ed è costretto alla didattica a distanza, e il trauma di un anziano positivo al Covid, o quello di un infermiere che deve lavorare dodici ore al giorno in condizioni estreme, verso chi proviamo più solidarietà, più empatia? Se la risposta è i secondi, si continui con la didattica a distanza e non si rompa più i coglioni. Grazie.

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