Nei giorni scorsi ho scritto
un paio d'interventi sul tema del trauma, a cui sarebbero sottoposti
(è opinione comune sui social network) i giovani che non possono beneficiare
della didattica in presenza, e più in generale patiscono gli effetti della
pandemia. E sull’ultimo punto sarei sorpreso del contrario.
In
entrambe le occasioni è intervenuta su Facebook una persona che manifestava disappunto: da
principio circostanziato e cortese – dunque gradito –, ma poi via via sempre più
generico con richiami offensivi alla mia persona ("ci prendi gusto,
eh", "che cosa triste", "com'è brutto il tuo tono",
“informiamoci prima di parlare”).
Ora
io non voglio ravvivare il dibattito, che la persona in questione ha
interrotto, ogni volta, senza offrire risposta alle mie domande. Cosa che non rappresenta un problema, intendiamoci. Secondo il
filosofo Giorgio Agamben si tratta addirittura del nuovo galateo sociale, in
cui risposta e domanda procedono separate; ciò da quando il corpo
dell’interlocutore – il corpo fisico proprio, quello smarrito nella
comunicazione intermediata dalla tecnologia – ha perduto la sua forza
vincolante, quale specchio concreto da cui ricavare il senso del dovere. Una
volta si riassumeva il tutto con l’espressione metterci la faccia. Da qui il
termine ir-responsabilità che
caratterizzerebbe il nostro tempo: non sentirsi in debito di
una risposta dovuta all’altro, una risposta di qualsiasi tipo.
Ho
richiamato il pensiero di Agamben perché mi sembra fare da cornice esplicativa
del nostro non intenderci: sia col mio distratto interlocutore, sia, più in
generale, sul web. Ma restiamo al caso specifico, da cui sarà forse più
semplice allargare in seguito il quadro.
Quando ironizzavo sul trauma che viene attribuito ai giovani, lo facevo in una prospettiva arcaica della responsabilità, in cui
il desiderio personale entra in un rapporto dialettico con il desiderio dell’altro.
Non stavo insomma negando il disagio giovanile, per quanto la sua rivendicazione
traumatica mi sembra provenire dagli adulti – politici, genitori, psicologi dall'aria imbronciata ma tanto telegenica –
più che dagli stessi giovani, in una forma che a me appare ipotecata da una forte dose d'ideologia.
Anche
perché: a cosa porterebbe la soddisfazione del desiderio giovanile di ritornare
a una vita normale, se non a un ulteriore incremento dei contagi che ricadono (traumatizzandoli)
su categorie diverse: medici, infermieri, forze dell'ordine, anziani. Ossia in un tono vagamente pomposo, la comunità umana nel suo insieme.
Il
fatto che la persona più volte intervenuta sia uno scrittore, anzi un bravo
scrittore – si chiama Enrico Macioci e consiglio la lettura del suo ultimo romanzo,
Tommaso e l’algebra del destino – mi
porta a una riflessione ulteriore: è ancora la parola scritta, la parola
pubblica, il luogo in cui il linguaggio collauda il suo senso, oppure sta
diventando una pratica in cui il desiderio coincide con il godimento (jouissance lo chiama Lacan, con ciò
intendendo un impulso al piacere non limitato alla sfera sessuale), e l’urgenza
alla soddisfazione individuale ha la meglio sul suo argine collettivo,
costituito dalla parola quale ordine simbolico?
È
un quesito meno intellettuale e astratto di quanto può apparire, a cui
l’esempio che ho portato può offrire di nuovo chiarimento.
Se
noi decidiamo di intendere il sostantivo trauma in una chiave del tutto
generica ed estensiva, in cui ogni piccola privazione, contenimento, moderazione, diviene
trauma, avremo una società ipertraumatica in cui ciascuno rivendica soccorso,
e pochissimi sono pronti a offrirlo. Con questa giustificazione: cazzo vuoi, ho
il mio trauma! Non vorrai mica traumatizzarmi ancora. Lasciami andare a giocare
a calcetto con gli amici, se no poi dovrai pagarmi lo psicologo. Ognuno fa insomma
i traumi suoi.
Viceversa,
attribuendo al trauma un valore linguisticamente più circoscritto e meditato (nel mio testo facevo riferimento a Anne Frank, il cui trauma aveva natura diversa,
diciamo pure più profonda, da chi è
costretto a un’inflazione di Netflix e PlayStation), restituiamo alla lingua la
capacità di discriminare il mondo, che è appunto quanto dovrebbe saper fare uno
scrittore.
Una
discriminazione che ha carattere performativo, se è vero quando sostiene un
altro filosofo, John Searle, che le parole sono atti, con effetti corrispondenti. Nella circostanza,
continuare a scrivere di riattivare IMMEDIATAMENTE la didattica in presenza potrebbe
anche portare a quel risultato, trasferendo il trauma dei giovani alle già citate
categorie più a rischio. E ricordo en
passant che questa è la prima epidemia nella storia che risparmia proprio e
solo le giovani generazioni.
Ma come uscire dal circolo vizioso dei
diritti, quando, come in questo caso, hanno tutti ragione, tutti qualcosa da
perdere e qualcosa da guadagnare, che drammaticamente si escludono? Nel
linguaggio popolare potremmo tradurlo con i proverbi: è impossibile avere la
botte piena e la moglie ubriaca, o tirare la coperta in entrambe le direzioni.
Ci soccorre il terzo e ultimo dei
filosofi che mi piace ricordare, a conferma del fatto che la filosofia proprio
inutile non è. Emanuel Kant. Per l’appartato genio di Königsberg il
bene corrisponde sempre al bene maggiore, secondo una gerarchia da graduare
sull’asse inclinato delle relazioni umane. In un orizzonte comunitario ossia
morale ossia politico, il bene maggiore coinciderà allora con la scelta del
trauma minore – che attenzione: non significa contraddirlo, ma ridimensionarlo in una sorta di movimento a salire dello sguardo che nel cinema viene chiamato dolly; quando l’ironia è propriamente una strategia
discorsiva finalizzata a ridimensionare la strategia opposta: l’iperbole
enfatica, che usando lo stesso paragone filmico potremmo vedere come primo piano ristretto. Ancora una volta non è difficile, quando passiamo dalla teoria alla
prassi.
Tra uno studente di prima liceo, traumatizzato perché non può tirare il cancellino al suo compagno ed è
costretto alla didattica a distanza, e il trauma di un anziano positivo al
Covid, o quello di un infermiere che deve lavorare dodici ore al giorno in
condizioni estreme, verso chi proviamo più solidarietà, più empatia? Se la
risposta è i secondi, si continui con la didattica a distanza e non si rompa più
i coglioni. Grazie.
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