Mi ricordo la disposizione all’interno del pullman che conduceva alla città prescelta per la gita scolastica al termine delle medie. Di solito si trattava di Verona oppure di Venezia, il periodo fine aprile oppure i primi di maggio. All’interno dell’automezzo ci si suddivideva in comparti umani facilmente riconoscibili; a posteriori, mi sembra di poter affermare che si trattasse di una vera e propria antropologia. Come nel sistema proto castale ariano erano tre, anzi tre e mezzo: parte anteriore, centrale e coda, con lievi slittamenti intermedi.
Al principio, subito dopo il conducente, stavano i
secchioni, le secchione ma anche ragazze dalla pagella ordinaria, che stavano
lì solo perché innamorate del supplente di lettere e storia, da loro incalzato con
domande dotte. Pensavano, forse, a questo modo, di essere più desiderabili ai
suoi occhi miopi. Lui rispondeva a tutte le domande come se fossero realmente domande,
orgoglioso per l’interesse suscitato dalla propria materia.
Al centro trovavano posto studenti suddivisi per
coppie di genere omologo: maschio\maschio, femmina\femmina. Non si trattava
nemmeno di amici in senso stretto. A unirli, quando maschi, era unicamente
l’interesse per lo sport – calcio e Formula 1, in particolare –, mentre se
femmine erano taciturne e guardavano tutto il tempo fuori dal finestrino, in
direzione della pianura trapuntata dai capannoni industriali. E poi i lampioni
arancioni che si accendono al crepuscolo, le prostitute anziane accanto a copertoni
arroventati, i distributori di gpl con un cane nero alla catena.
Nei sedili penultimi grappoli di ragazze che cantavano
le canzoni di Lucio Battisti e della recente edizione del Festival di Sanremo, in una promiscuità non cercata – erano
semplicemente gli ultimi posti rimasti – con ragazzi ridanciani. Ridevano, ridevano
per qualsiasi cosa, anche il bugiardino di un farmaco contro il mal d’auto li
faceva ridere, specie quando il farmaco non produceva l’effetto desiderato, e
qualcuno cominciava a vomitare.
L’ultima fila, a divanetto, era riservata ai bulli.
Quattordicenni che già fumavano Marlboro rosse e ingollavano avide sorsate di
Peroni Nastro Azzurro, attenti solo all'attenzione degli altri, da dirottare
sempre verso di sé. Faceva naturalmente eccezione lo sguardo sormontato dagli occhiali
del supplente di lettere e storia, comunque troppo occupato a rispondere alle
domande delle sue spasimanti per accorgersi dei loro traffici.
Mescolati ai bulli, in uno scarto percepibile solo per via di una maggiore peluria sul viso, stavano i ripetenti
e soprattutto le ripetenti, a cui i bulli toccavano furtivamente il seno, fingendo di sporgersi verso il vano porta valige per prendere un pacchetto di craker. Ottenevano, quale risposta, una sberla di intensità variabile.
La domanda a questo punto diventa: e io, io lettore,
proprio io che ho appena letto la parola letto seguita dalla parola parola,
dove stavo seduto sul pullman della gita scolastica delle medie?
Lo sapete di sicuro, un momento così non si dimentica.
Nel mio caso si trattava dell’ultima fila, e la ripetente al mio fianco assestava
sberle dal tenore pugilistico, per i due giorni successivi ho avuto dolori alla
mascella.
Bene, e ora proviamo a immaginare dove stavano seduti
i nostri genitori, ma prima ancora i nostri nonni e via via a risalire il tempo
fino all’invenzione del motore a scoppio e delle gite scolastiche. Secondo me,
quasi mai dove eravamo noi. Mi sono fatto l’idea che una famiglia sia un luogo
di dispersione, per cui non vale il motto tale padre tale figlio.
Escludo che mio padre si sia seduto anche lui
nell’ultima fila a bere birra tiepida e palpeggiare una Gigliola (così si chiamava la ripetente) dei primi anni
Cinquanta, lo vedo piuttosto in posizione intermedia a parlare col compagno di
posto del grande Torino di Bacigalupo e Mazzola. Quanto a mia madre,
verosimilmente pendeva dalle labbra del supplente di lettere e storia, ma
avrebbe potuto stare anche nel gruppo delle canterine. Di certo non tra le
secchione.
Se assumiamo per vera questa tendenza all’entropia
famigliare, la domanda successiva è sulla ragione: perché siamo così diversi
dai nostri genitori e loro dai propri, per non parlare dei
figli che ci appaiono degli alieni? Potrebbe essere una strategia evolutiva…
Immaginiamo che la famiglia sia il pullman e tutti i
sedili devono essere occupati. O se si preferisce un alveare, un formicaio: noi
pensiamo di essere unici ma invece stiamo solo giocando una parte, o meglio
ancora ne siamo giocati. Non sineddoche, la parte per il tutto, ma il tutto che
ingloba la parte, la dispone secondo sue proprie occulte strategie di
riempimento, in un gioco di ruolo che non ha mai termine né senso alcuno.
Un gioco dove comunque vadano le cose vince sempre la
famiglia, vince il pullman, l’intero sulle sue determinazioni. L’unica sarebbe
stata puntare una pistola ad acqua alla testa del conducente, e poi dire:
“Questo è un dirottamento. Invece che a Venezia, ci porti al prossimo
Autogrill.” Dove scendere e dileguarsi tra panini Fattoria, cd di Califano e
caciotte affumicate disposte a gran pavese.
E poco male se così ci saremmo persi il becchime da offrire ai piccioni di piazza
San Marco.

Nessun commento:
Posta un commento