martedì 3 dicembre 2024

Mi ricordo 27

 


Mi ricordo bene del Sanatorio Popolare Umberto I. Oltre al più celebre e imponente sanatorio di Sondalo, in Valtellina erano presenti tre altri centri di cura per la tubercolosi, il primo in ordine cronologico fu l'Umberto I. Inaugurato nel 1908 ma iniziato a costruire nel 1902, l'anno in cui Sir Arthur Conan Doyle venne nominato Baronetto, si trova a Prasomaso, una località sopra Tresivio che risponde a tutti i requisiti: buona insolazione durante l’intero ciclo delle stagioni, diffusa presenza di conifere a ossigenare l’aria da respirare sui terrazzoni (il corpo inerme con un plaid posato sulle ginocchia), accessibilità stradale e altitudine intermedia. Alla sua definitiva chiusura settant’anni dopo – ormai la penicillina aveva quasi completamente debellato la TBC –, non venne riconvertito, abbattuto, ristrutturato. Rimase semplicemente lì, a sufficiente distanza dallo sguardo per non doversi ricordare di un tempo in cui, a ogni colpetto di tosse, si guardava dentro al fazzoletto per vedere se erano presenti tracce di sangue.

I massici edifici in pietra e mattoni sono disposti in sequenza lineare, senza soluzione di continuità, lo stile liberty discreto anticipa le evoluzioni moderniste. Il tutto è oggi decrepito, vetri rotti, mobilia scassata, serramenti divelti e assi precipitate dai soffitti. Sulle pareti interne si possono leggere scritte inneggianti a Mussolini, o a una porzione circoscritta e in genere celata del corpo femminile. Abbassando di prospettiva, qualche siringa di plastica sulla maiolica scrostata dei pavimenti (dunque non appartengono al periodo né alle prassi terapeutiche) e giornaletti porno in pagine sparse; c’è anche una cacca, il cui aspetto sembra recente e di origine umana. Recente, almeno, nel tempo della narrazione, collocato una trentina di anni fa, quando attraverso un foro nella recinzione venni a visitare il Sanatorio Popolare Umberto I. Ciò che più mi colpì fu la presenza delle cartelle sanitarie dei pazienti. Dimenticate dai medici nella smania di voltare le pagine della storia, finendo così per somigliare alla fuga delle truppe americane di stanza a Saigon, in quel casino erano rimaste stranamente ordinate negli schedari. Ne estrassi una a caso e cominciai a leggere:

Dati anagrafici: Luisa X, nata a Lanzada il 7/02/1913

Data di ammissione: 15 marzo1932

Diagnosi: Tubercolosi polmonare.

Sintomi principali:

• Tosse persistente con espettorato sanguinolento

• Febbre alta e sudorazioni notturne

• Perdita di peso significativa

• Affaticamento e debolezza generale

Esame fisico:

• Crepitii polmonari bilaterali

• Diminuzione dei suoni respiratori nei lobi superiori

• Pallore e cianosi delle labbra

Esami di laboratorio:

• Test della tubercolina: positivo

• Radiografia del torace: infiltrati nei lobi superiori

• Analisi dell’espettorato: presenza di bacilli di Koch

Trattamento:

• Riposo assoluto in sanatorio

• Dieta ipercalorica e ricca di proteine

• Somministrazione di ioduro di potassio e calcio

• Terapia del pneumotorace artificiale

Note aggiuntive:

• La paziente mostra segni di...

Niente, a questo punto smisi di leggere e riposi la cartella clinica nello schedario, come se potesse ancora essere utile a qualcuno. Ma rimaneva una sensazione fisica strana, localizzata soprattutto nella pancia. Nel fare il tragitto in senso inverso – attenzione a non pestare la merda e le siringhe, i vetri rotti erano ovunque e le suole delle scarpe restituivano un suono sinistro a ogni passo, foro nella recinzione da traversare incurvando la schiena – mi è tornata alla mente la sequenza finale di un film uscito in quei giorni. Alla morte della madre, interpretata con commossa misura da Meryl Streep, i due figli ritrovano una scatola con il diario della donna, e una lettera a loro destinata. È così che apprendono che ha avuto una relazione con un uomo diverso dal legittimo marito, si tratta di un fotografo giunto nella contea di Madison per fotografare i tipici ponti coperti del luogo. Da qui il titolo della pellicola di Clint Eastwood: I ponti di Madison County. I figli, all'inizio imbarazzati, in particolare il maschio, comprendono infine che legge e amore hanno natura diversa. Rimettono allora la lettera nella scatola, dopo aver scoperto un tratto sconosciuto della madre che ne accresce l'unicità. E ciò che è singolare diventa tanto più prezioso.

Il bene è forse fatto allo stesso modo, soffia senza apparente ragione come il male, la sventura, la malattia. Spariglia, più che uniformare i cuori alla maniera delle pubblicità natalizie. Ma si può volere bene anche a una persona mai vista, Luisa ad esempio? Di certo possiamo immaginare il suo pallore e le labbra cianotiche – le parole sono al servizio delle immagini –, i crepitii polmonari bilaterali simili alla cadenza dei miei passi nello sfacelo, le lenzuola zuppe di sudore durante notti in cui il giorno sembra non arrivare mai; speriamo almeno che la dieta ipercalorica e lo iodouro di potassio abbiano sortito qualche effetto…

Sì concludo, si può voler bene anche a una diciannovenne nata nel 1913, quando qualche elemento irrompa a distinguerla da tutte le altre diciannovenni. Come aveva intuito Tolstoj, le famiglie felici sono tutte uguali, mentre diverse sono quelle infelici. Se ne ricava che il dolore è un formidabile differenziatore, e non è solo il naso a rendere unica Cleopatra, ma anche il morso dell'aspide. Forse per questo, senza conoscere il naso di Luisa, la lettura della sua sofferenza fisica ha creato in me una familiarità da famiglia infelice, la scatola da cui ne è emerso il fantasma rende tangibile e dolente la rappresentazione. Mentre i documentari diretti da Leni Riefenstahl nello stesso periodo, con quei pezzi di fica ariana che scoppiano di salute, fanno esercizi ginnici nella spensierata incoscienza della gioventù, mi lasciano indifferente. Sono l'infinito calco delle famiglie felici. Eppure ho avvertito il desiderio di richiudere subito la scatola, seguendo l'impulso al presente dei figli di Meryl Steep. E lasciar riposare i morti.

lunedì 2 dicembre 2024

I passi di Claudia

Non conoscevo personalmente Claudia Tarolo, anche se, una quindicina di anni fa, ci scambiammo alcuni messaggi privati che avevano quale oggetto la città in cui abbiamo vissuto entrambi, e dove io sono rimasto incastrato. Lei abitava con la famiglia di origine sulla salita di via Alpini, porta a Montagna in Valtellina ma è ancora in comune di Sondrio, negli anni Venti veniva percorsa tutti i giorni da mia nonna diretta al mercato, dove sperava di vendere il latte appena munto dal padre. Oltre mezzo secolo dopo, all'inizio degli anni Ottanta, Claudia arrancava sullo stesso ripido tratto di strada in senso inverso, un passo dopo l'altro calzando scarpe che immagino da pallacanestro; con il borsone in spalla, nel tornare dal Liceo Scientifico Carlo Donegani, si doveva sbuffare non meno che con la brenta di alluminio. Se non altro le cuffiette del walkman potevano restituirti un brano dei Police, Message in a bottle ad esempio, sono molti i mari che la bottiglia deve attraversare prima approdare nelle mani giuste, come le pagine di un libro. Le ragazze che scendevano a vendere il latte alleviavano la fatica cantando, ma sono certo che mia nonna non si univa al coro, neppure in chiesa intonava le canzoni della liturgia. Questa sovrapposizione di passi mi rende ancora più concreta e dolorosa la scomparsa della brava editor di Marcos y Marcos, a un'età che non mi è nota e dunque associo a quei rientri da scuola. La casa editrice, in qualche modo, andrà avanti anche senza il suo prezioso contributo. Ma i passi di mia nonna e Claudia saranno definitivamente sostituiti da altri passi, in un ricambio naturale di suole di cui continuo a non farmene ragione.

Bilancio di fine d'anno

Scocca gelido, almeno qui al confine con la Svizzera, dicembre, tempo di bilanci annuali. Ciò vale anche per la presenza sui social, una parte residuale – ma in fondo nemmeno troppo residuale – della mia vita.

Per una curiosa coincidenza, questo mese ho pubblicato il post con cui ho ottenuto il maggior numero di consensi dell’intero anno (122 tra like, cuoricini ed emoticon vari) e quello con il numero minore (10; comunque dieci persone che si sono prese qualche minuto da dedicarmi, cosa non così scontata e per cui li ringrazio).

Ciò che mi fa riflettere è la diversa natura dei due post. Nel vincitore, chiamiamolo così, è presente una sorta di nemico, anzi due nemici: Chiara Ferragni e Giovanni Tronchetti Provera, neo fidanzati su cui faccio un po’ di ironia, scivolando a tratti nel sarcasmo. La cornice sociologica, il riferimento a Kafka e Pasolini, il tono burlesco in cui inquadro il tutto non bastano a cancellare questa punta di livore. Diciamo che non sono particolarmente orgoglioso di quel testo.

Nell’altro post l'atteggiamento è ribaltato: non l'antipatia verso due vincenti, ma la simpatia verso un perdente assoluto, di cui assumo indirettamente la prospettiva; con le debite sproporzioni, è quanto fa Nick Carraway con Jay Gastby. A differenza del capolavoro di Fitzgerald, non si tratta però della perdita dell’amata, ma è la radicale sconfitta nel perdere la dignità. Ciò avviene attraverso il più sciagurato evento simbolico: cagarsi addosso in pubblico. È quanto capita a Giovanni, un mio compagno di classe in seconda elementare.

Ma proviamo a individuare altre differenze, la lunghezza è più o meno simile e ridotta, non si tratta dunque di quello ad aver sperequato il consenso. Giovanni è piccolo, inerme, taciturno e con gli occhiali da vista; tutti ridono di lui, compreso il me di allora. Ferragni e Tronchetti Provera non sono invece piccoli e piuttosto giovani, più giovani della maggior parte delle persone che hanno lasciato un like, oltre che più belli, ricchi, famosi. Gettargli addosso un po’ della merda di Giovanni potrebbe essere un gesto di compensazione, alla maniera della pernacchia di Eduardo in ‘L'Oro di Napoli’. E sono pure più paraculetti, per usare il nuovo aggettivo salito alle cronache; ma così riacciuffo il registro del rancore da cui sto provando a staccarmi.

Stiamo allora ai numeri. Lo scherno è più remunerativo della compassione nella misura del 1200%, almeno sui social; ricordiamoci sempre del contesto di lettura. Un dato che dovrebbe portare a meditare, o perlomeno io ci sto provando. E la prima domanda che mi faccio è: per chi scrivo quando scrivo? Non una pagina di diario, intendo, ma un testo destinato a un pubblico, a dei lettori. Se la destinazione agisse retrospettivamente, come in fondo è normale nella maggior parte delle attività – il panettiere che non vende prova a mutare i tempi di cottura, il lievito, le farine; o quale estrema disperata mossa, assume una commessa più procace –, dovrei guardare al post vincente come modello, e cercare di ripetermi per accrescere le manifestazioni di gradimento, da cui l'algoritmo di Facebook pesca per determinare la diffusione dei contenuti. È il cosiddetto effetto valanga, a trasformare le persone in influencer. Ora che ho capito il meccanismo mi si spalancano i cancelli della notorietà…

Però non è ciò che ho fatto, e potrei allora concludere dicendo che scrivo per me. Ma non è nemmeno questo, già che il passo conseguente – non compiuto – avrebbe dovuto essere cancellarmi l'istante dopo dai social. In via provvisoria mi sembra così di poter collocare la mia risposta in un punto intermedio; non so bene dove indentificarlo, ma mi è chiara almeno una cosa: mi piace quando gli altri mi dicono bravo, sono rallegrato nel ricevere il loro plauso, tanti like tanto amore. Ma il godimento da consenso non può mai dissociarsi dall’identificazione che ho con il testo, e deve riflettere una parte significativa di me, un mio modo di essere e sentire.

Il sarcasmo con cui ho scritto di Chiara Ferragni e Tronchetti Provera mi riflette pochissimo, mentre c’è molto di me nello sguardo affettuoso verso Giovanni e la sua sconfitta. Quindi sono molto più orgoglioso di quei 10 like che degli altri 122. Di cui comunque, anche in questo caso, ringrazio. Non si sputa nel piatto dove si mangia pappa di sogno.

(Per chi non li avesse letti e volesse farlo ora, copio di seguito i due testi.)

Post perdente:

Mi ricordo del busto esile e ritto di Giovanni, spunta appena dallo schienale della sedia, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano il loro posto e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni o della gonna e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto che ricorda i giudizi scolastici, un voto in pagella tra gli altri. Promosso! La maestra Maccarone, alito di caffè, ha sempre avuto uno spiccato senso del teatro, eredità forse della sua regione di provenienza.

Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il proscenio, e da ciò intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi nell'aula, sempre più intenso e penetrante. Farsi la cacca addosso è una brutta grana, anche se frequenti la seconda elementare.

Dall’altro versante della rappresentazione, la gioia feroce nell'essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli, le braccia alzate del pugile proclamato vincitore. Rido insieme agli altri, puzzone, puzzone smerdolone diciamo rivolti al colpevole, finalmente smascherato. La legge del branco non è meno implacabile per i cuccioli. Intanto, gli occhietti azzurri di Giovanni cominciano a inumidirsi, la massiccia montatura in celluloide degli occhiali è l’unico argine a sua difesa. E così continua a rimanere immobile, più simile alla fotografia che non al teatro o al cinematografo, in effetti. È un totem.

Una lava marroncina intacca la fissità dello scatto, la vediamo tutti e le risate si fanno ancora più forti, cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia, si diffonde sulle piastrelle sintetiche del pavimento. E insieme a quella cominciano a sgorgare dalle palpebre i primi goccioloni.

Ora il totem si è trasformato in vulcano, ma senza sonoro. Questo è Giovanni. Il suo talento è il disegno, è l'unico della classe che sa già disegnare un cavallo, all'intervallo mangia il panino col salame preparato dalla mamma, parla poco, sorride molto. Un vulcano da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

Post vincente:

La neo coppia composta da Chiara Ferragni e Giovanni Tronchetti Provera rappresenta una sintesi mirabile di ciò che Pasolini chiamava mutazione antropologica. Il problema non sono dunque loro, ma il fatto che simili facce da cui trasuda il fatturato (vero o presunto) le si incontrino ovunque, basta farsi un giro in un centro commerciale il sabato pomeriggio: quei nasini, quei sorrisini, quegli occhiettini azzurrini e vacui sono diventati la norma, non più l'eccezione. E anche quell'indicibile desiderio di prenderli a calci in culo. È però una tentazione a cui bisogna resistere, non solo per le conseguenze a cui andremmo incontro – lasciamo provvisoriamente tra parentesi la morale, anche avere una faccia del genere è infatti immorale –, ma perché non possiamo escludere di svegliarci una mattina e vedere le medesime insulse fattezze riflesse nello specchio del bagno. Se Kafka riscrivesse oggi il suo racconto, non in scarafaggio, ma in Tronchetti Provera Junior trasformerebbe Gregor Samsa.