Provo a integrare quanto ho scritto di recente sui cantanti che pubblicano romanzi; pratica altamente diffusa e dagli esiti variabili, particolarmente sgradita agli scrittori-scrittori.
Devo dire che un po' li capisco: è come per quelli che
attendono da ore l'ingresso al Billionaire. Poi arriva Bobo Vieri, saluta
distrattamente con la mano (con l'altra cinge una ragazza a cui vorresti
misurare le gambe, mica lo immaginavi che potessero esistere gambe tanto
lunghe), e viene fatto accomodare direttamente nel privè, con la bottiglia di
champagne già stappata sul tavolino. Oppure vedi uno scavallare la fila alle
poste, quella per salire sulla nave dei pirati al luna park, qualsiasi fila,
scegliete il paragone a voi più congeniale. Ė un fatto che anche i cantanti,
quando pubblicano narrativa, saltano la fila, giovandosi di un privilegio
guadagnato altrove, o meglio ancora di uno status.
Status che però rappresenta la proverbiale arma a
doppio taglio, e prima di rosicare (anche io scrivo gratis su Facebook quando
John Elkann firma ben remunerati reportage sui lanzichenecchi, cosa che non mi
riempie certo di gioia) prima toccherebbe addentrarsi in un ragionamento più
sottile, intellettualmente onesto.
Ma per farlo immaginiamo una situazione concreta:
Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, si presenta in una famosa casa editrice
con un nuovo romanzo già bello e pronto, manca solo l'ok del direttore
editoriale. Ora se non si tratta di Adelphi che come noto soffre di
bastiancontrarismo (pubblico anch'io? No, tu no), qualsiasi altro editor
manderebbe immediatamente in stampa il romanzo di Jovanotti, senza neppure aver
letto il titolo che tanto verrà cambiato.
Da un punto di vista commerciale probabilmente avrebbe
ragione l'editor, ma solo fino a un certo punto. Continuiamo infatti a
immaginare: il romanzo di Jovanotti è un capolavoro, improbabile ma non
impossibile. Già me li vedo i redattori dei supplementi culturali, ma in fondo
anche i lettori forti, smaliziati: Jovanotti... Ma non è quello che cantava
"sei come la mia moto sei proprio come me"? Mica è uno scrittore.
Essere un cantante popolare e incorporarne lo status
in ambito letterario, corrisponde a ciò che nel linguaggio del marketing viene
chiamata estensione di brand: piazzi un coccodrillo su un paio di scarpe
sportive qualunque e, oplà, diventano delle Lacoste, per il mercato
immediatamente più appetibili. Ma non così appetibili come delle Adidas o delle
Nike, che sono nate con quella specifica caratterizzazione merceologica. Sono,
a un tempo, le Lacoste, più delle scarpe anonime ma meno di chi possiede uno
status di settore.
Questa è la ragione per cui l'eventuale capolavoro di
Jovanotti non potrebbe mai vincere il Premio Strega, anche se si presentasse
alla premiazione con il collarino fetish come fece Desiati. Autore a cui
personalmente preferisco i romanzi di Guccini, ma anche lui è un cantante, solo
un cantante, e non può essere preso sul serio dal sistema culturale.
Una condizione paradossale di accesso/limite descritta
nella psicologia del linguaggio da Paul Watzlawick, il quale ha mostrato il
funzionamento delle ingiunzioni contraddittorie, i doppi legami. Hanno
esattamente questa struttura: vieni Tiziano Ferro, dai, vieni, pubblica un
romanzo con noi... Ma poi non sperare di farti chiamare scrittore, quella sedia
già è occupata da persone più serie e corrucciate di te. I veri
scrittori.
Ritroviamo la stessa ambivalente dinamica anche nei
cosiddetti figli d'arte: facilissimo è per loro il primo passo, avere accesso
alle audizioni, ottenere particine, trovarsi al Caffè della Pace a parlare di
Brecht, Shakespeare e fica. Ma difficilissimo fare scordare a pubblico e
recensori che sei solamente il figlio di.
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