martedì 1 gennaio 2019

Silvia, rimembri ancora? Un sogno di Capodanno

Questa notte, la notte di Capodanno, il mio cinquantaduesimo, ho fatto un sogno. Tutte le notti probabilmente sogno, ma è raro che poi me ne ricordi al risveglio. Il mattino del primo gennaio 2019 mi ha invece consegnato intatto un sogno nitidissimo.
Mi trovavo in un luogo di villeggiatura, un’isola forse, anche se manteneva alcuni tratti del paese alpino in cui risiedo. In un girovagare che somigliava a una caccia al tesoro – ma mi mancava la mappa, oltre al senso della ricerca – sono finito in un appartamento dove (qualcuno mi sussurra) potevo incontrare una ragazza che non vedevo da moltissimi anni. Silvia, si chiama la ragazza del sogno.
Ricordo perfettamente anche il cognome: Galletti. I Galletti erano una famiglia conosciuta in una vacanza estiva con i miei genitori. Le piazzole in campeggio vicine, vi serve un po’ di olio, abbiamo quello buono? Mangiamo assieme, dai, si fa prima, ed è così che si diventava amici. C’è una foto scolorita in cui siamo ritratti assieme, sul retro è segnato a penna una data e un luogo, mio padre lo faceva con tutte le fotografie. Gargano, luglio 1979. 

L'immagine incornicia una caletta dall'acqua limpida, pareti di roccia bianca, spiaggia di sassi ugualmente bianchi e tondi, i bagnanti sono pochi e dispersi sullo sfondo. In primo piano, leggermente spostata sulla destra e con le braccia che, da seduta, cingono la gambe rannicchiate a terra, la sorella di Silvia. Purtroppo è l’unica Galletti di cui mi è rimasta una traccia. Una bella quattordicenne con i capelli lunghi e mossi, la salsedine li ha resi rossicci e ciò si accorda con le efelidi, a punteggiare il viso largo e stondato. Somiglia incredibilmente a una bambolina allora in voga tra i più giovani. Ma Claudia, questo il suo nome, era già molto più sviluppata della bambolina di cui erano colmi i negozi di giocattoli. Piccole donne crescono, se volessimo trovare un'analogia letteraria. 
Quello con ancora un piede nell'infanzia ero dunque io, nella fotografia sto accovacciato alla sinistra dell'inquadratura sopra a un panno da spiaggia verde; la postura è flessuosa e quasi femminile, da dipinto seicentesco. Con un costume da piscina azzurro, la carnagione abbronzata, butto l’occhio intimidito al suo bikini nero; una disposizione da cui si intravede l'ombra astratta dell'altro piede, a incamminarsi nella preadolescenza. Lei però non ricambia lo sguardo e torce il collo a cercare l’obiettivo che si trova alle nostre spalle, la bocca è socchiusa in una domanda non detta o una risposta che tarda ad arrivare. Clic. 
La madre di Claudia e Silvia portava il nome delle mie due nonne, Maria, mentre il padre, accidenti, era un nome poco comune che ho sulla punta della lingua… Di certo era originario di Arezzo, ma si era trasferito con la famiglia a Perugia (Peruscia pronunciavano i Galletti alla toscana, facendoci sorridere) dove lavorava come geometra. Il geometra Galletti: la giovialità fatta persona!
Ma ora che ci penso, tutti i Galletti possedevano un tratto caratteriale molto preciso e definito, almeno ai miei occhi, e ciò li rendeva simili a personaggi più cinematografici che letterari, in un certo senso scorciatoie alla verità condensata con pennellate rapide nella sceneggiatura; e anche la memoria è una forma particolare di sceneggiatura, di cui il presente completa la regia.
La verità umana incarnata da Maria era certamente la dolcezza; Claudia era invece portatrice di una sensualità affabile e sorniona, ben testimoniata dal mio sguardo rapito nella foto; il padre, oltre al perenne buonumore, manifestava un vitalismo pure molto toscano, ogni pozza d'acqua era buona per interminabili nuotate; ma appena riemerso la bocca si spalancava nuovamente in un sorriso, la genetica deve essersi premurata di trasferirlo alle due figlie
; infine Silvia, che è personaggio più complesso...
Se dovessi provare a riassumere anche lei, alta, fisico longilineo e snello, mi verrebbe da dire l’impazienza, la voglia di partecipare attivamente al gran carrozzone (che “va avanti da sé”) cantato da Renato Zero in quell’estate tiepida e dolce, per quanto filtrata dal velo opaco della nostalgia – era solo una manciata di mesi prima che il corpo di Aldo Moro veniva ritrovato nel baule di una R4 rossa, e l'anno successivo sarà il turno della stazione di Bologna. Piombo e cornetti Algida, insomma. Ma come in un' altra canzone del decennio, tutto questo Alice non lo sa; e nemmeno Silvia lo sapeva ancora, scalpitando per entrare anche lei mani e piedi nella vita, vedendosi però limitata a causa della sua giovane età.
Aveva infatti quattro anni meno della sorella e tre meno di me, dunque una decina. Quel poco che a noi era concesso – gitarelle serali con il rientro stabilito "al tocco", in cui Claudia mi raccontava cose che mi apparivano già da grandi, come il Ciao bianco della Piaggio che sospirava mentre io sospiravo lei – per Silvia prendeva la forma di un assoluto tabù. Sì, la più piccola dei Galletti era pura vita che reclamava altra vita, ma ogni volta rimbalzava contro i limiti del mondo travestiti da no materni.
Nel sogno di questa notte mi ritrovavo dunque di fronte a Silvia, cresciuta rispetto ad allora ma non certo la cinquantenne che deve essere oggi. Silvia, mi riconosci? le chiedevo. Ma lei non aveva nessuna idea di chi fossi, le mancava il senso stesso della domanda. Dai, ti do un aiutino, estate del 1979. Ti ricordi Silvia, rimembri ancora…?
Poi ci siamo ritrovati con le famiglie anche le due estati successive, prima a Marina di Camerota e poi al lido di Grosseto, dove, di notte, svaligiammo il frigorifero dei gelati nel bar del campeggio. Ma nemmeno quella volta eri con noi, stavi in tenda a dormire. E dormivi anche quando io e Claudia andammo per la prima volta in una discoteca, le note di Jammin’ di Bob Marley su cui avevo mosso i primi impacciati passi di ballo; con il biglietto della consumazione ordinammo Gin Fizz, ma ne rovesciai la maggior parte dietro a un pitosforo. Il giorno dopo eri incavolata nera per l'esclusione, come quando Maria non ti aveva concesso di vedere La febbre del sabato sera. Ma cerca di capirla, era vietato ai minori di quattordici anni.
Macché, più parlavo e più Silvia mi guardava con estraneità, si spazientiva. Mi dispiace signor Guido, o chi diavolo dice di essere, ma io non la conosco. E su questa sentenza priva di appello pronunciata all’alba del nuovo anno, svegliandomi, un po’ affannato, mi è sembrato non tanto di avere ritrovato l’eco perduto del mare, come quello che dicono si oda posando l’orecchio sulla conchiglia (ma io immaginavo il mare sotto il bikini attillato di Claudia), no, nessun rinvenimento proustiano scaturito da una madeleine. Una perdita, piuttosto.
Con la negazione di Silvia, io non stavo però perdendo un momento felice del mio passato – quelle estati a nuotare con il geometra Galletti da Perugia, anzi, Peruscia, bicchieri di latte e orzata al risveglio sotto la veranda, Claudia bella e impossibile, Il rock del Capitan Uncino che scattava al precipitare della moneta nel juke box, e poi la dolcissima Maria che sapeva zuccherare anche i suoi no, tutto ciò resterà per sempre in una nuvoletta, quel cloud che chiamiamo destino – ma era piuttosto il futuro del passato a venir meno, e il sogno ne registrava la sconfitta.
Silvia, proprio come la Silvia di Leopardi, ricompare così a testimonianza di un tempo irrimediabilmente trascorso, d'accordo, ma emotivamente ancora attivo; un tempo in cui il futuro era totalmente immaginabile, pensabile, perfino desiderabile. Una facoltà che la vera Silvia Galletti possedeva potentemente, ma era integra anche in quel dodicenne con il costume da piscina azzurro e lo sguardo calamitato dal corpo della sorella. Ma ormai, nel me attuale, tale fiducia incondizionata è defluita nel limbo del “già fatto”, come l’iniezione con l’ago Pic Indolor. Ed è per questo che Silvia, oh, Silvia, non mi riconosci più…

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