mercoledì 7 settembre 2011

Il disprezzo, o sulla sopravvivenza in tempi oltraggiosi


Nei giorni scorsi, in questo spazio, ho pubblicato un post ulceroso e idiosincratico, nel quale terminavo rilanciando una delle figure più umanimamente biasimate: il disprezzo. Il discorso, volutamente, si limitava a un impeto emotivo confezionato nella trama di una esplicazione allusiva, che sarà certamente risultata indigesta a qualcuno. Un discorso "anti-patico", per così dire, e cioè tutto sbilanciato sul versante del patos, a danno della ragione. Provo dunque a precisare un poco meglio la mia idea.

Con disprezzo io intendo esprimere un atteggiamento di totale e definitiva contrapposizione (anti, appunto), che non culmina però in un congedo umano e sociale, proprio ad esempio dell’indifferenza. Attraverso il disprezzo c'è insomma ancora un certo margine di relazione, anche se non nella forma della dialettica sintetica ma della disputa frontale. E se ciò che si fronteggia sono ancora concetti ed idee (sul mondo, sulla vita), il terreno del conflitto si sposta da una razionalità dispiegata e puntuale dove abbiamo già fatto le nostre scelte a una emotività terrosa, un baricentro viscerale e reattivamente ferino.

Si usa dire che le cose vanno capite, prima che possano essere giudicate e infine condannate. Niente di più falso. Io sostengo infatti che il nostro tempo sconta un eccesso di comprensione intellettuale. Ma, a differenza di Marx, non penso che dopo essere stato compreso il mondo ora debba essere cambiato. Credo al contrario nei grandi cicli cosmici, e questo è con tutta evidenza un ciclo in cui l'onda deve ancora compiere la sua risacca. L'unica uscita è dunque quella laterale, sorta di 'arrocco scacchistico che ci porta alla rivalutazione anarchica della condanna dura e pura, senza speranza di emendare il guasto. Nel caso del tribunale psichico, ciò coincide quindi con la massima sanzione del disprezzo.

Sospetto dunque che sia proprio l'indifferenza, unita a una fredda comprensione razionale l'atteggiamento di chi si disponga a capire senza coinvolgimento emozionale, e ad assolvere nel nome della relatività delle opinioni e delle circostanze , quel che sta avviando il nostro Paese a una deriva tribale. Ma probabilmente l'analisi potrebbe essere estesa all'intera tarda modernità, che non ci vede ancora coinvolti in una guerra a tutto campo tra clan rivali (basta aspettare...), e assistiamo piuttosto un’esplosione centrifuga di schegge senza più alcun incastro. Il presente è questo puzzle di cui esistono solo i frammenti e la cornice, ma al netto del soggetto.

In quel passato prossimo che sono gli anni cinquanta, gli italiani, parlo ancora della Nazione che più conosco e massimamente patisco, sapevano invece ancora "disprezzarsi" l'uno con l'altro. Erano un paese reduce da una vera e sanguinosa guerra civile, dove si tirava da una parte o dall'altra la coperta troppo corta delle istituzioni, e di una visione generale e politica delle cose. Ma era forse proprio questa intima anti-patia civile, a renderlo il Paese vivo e forte che i nostri genitori hanno conosciuto.

Adesso, al contrario, in questo brodino conciliante ed ecumenico, è sempre più difficile recuperare qualcosa come un sentimento di comunità, non dico di identità ma perlomeno di relazione. Una relazione che, appunto, come anticipato, si dà ormai solo nella figura del disprezzo. Oltre che nella compassione umana fuori da ogni concetto e ideologia, come i contadini ucraini quando ci buttavano un cavolo o una patata lessa, prezioso tesoro per agli alpini italiani in scomposta ritirata.

Compassione e disprezzo, davvero non riesco più a vedere altro. Spazi per una complessa mediazione intellettuale non ce ne stanno più.
E allora o gli italiani recuperano il concetto alto e nobile di Nemico concetto che attiene alla dimensione spirituale pagana –, oppure riescono a rintracciare le proprie famigerate radici cristiane, che portano a realizzare nell'altro quel capolavoro di astrattezza antinaturale che è l'Altro evangelicamente inteso, umanandosi non più nel particolare ma nell'universalità di un'idea interamente esperita, più che concepita dall'intelletto. Atteggiamento che allontana però irrimediabilmente dalla cautela illuminista e laica. E ciò perché la temperatura della ragione è troppo tiepida e discriminatoria, e qui c'è bisogno di forti temperature per realizzare nuovamente la fusione.

Ma se il nostro è un Paese dove, più che in altri, ha saputo attecchire nel passato una certa disposizione compassionevole, se non proprio samaritana, siamo maldestri quando cerchiamo di crearci l'immagine fantasmatica di un nemico esterno. E questa è davvero la nostra più grande virtù. Per ravvivare l'energia polemica che rinsalda il senso di comunità (tutto viene da Polemos, sentenziava Eraclito), abbiamo dunque bisogno di recuperare la contesa locale tra i campanili, modernamente applicata alle nuove antropologie urbane.

Per questo io ho deciso che i miei nemici, che disprezzo con tutto il cuore, sono ad esempio i possessori di piccole idee, dei piccoli libri di Melissa Hill, e di piccole parole con contrappuntare vite piccine piccine ma non umili, come i pubblicitari che votano in massa il Pd. Ed è dunque anche contro i pubblicitari che io reclamo la smisuratezza, rivoglio la fantasia, quella vera, non la creatività.

In questo disprezzo e in questo livore io mi riscopro quindi e finalmente italiano, come nella compassione che è però una virtù troppo intima, troppo privata perché io riesca a scriverne mescolandola al becchime del web. E poi, comunque, la compassione è un sentimento tra uomo e uomo, mentre la grandezza e la forza del disprezzo stanno proprio nella sua urgenza categoriale: disprezzare tutti quelli con la Fred Perry con il colletto alzato, ad esempio, o tutti gli psicologi e per non dire le psicologhe, che vi assicuro sono ancora peggio. E ciò sapendo che l'andare a spanne è certamente rozzo e impreciso, quando la realtà sociale e civile è proprio questa rozza imprecisione: un fucile che spara a pallini e che produce una raggiera di significati, anche se spesso in provvisoria e vitale contraddizione.

Perciò, scrivevo, il disprezzo è la vera disposizione civile all'altezza del nostro tempo. Perché è democratico, orizzontale e sottilmente paradossale, come un film di Quentin Tarantino. Un sentimento davvero alla portata di tutti. Oltre che l'ultima chance per sentirci parte di qualcosa, ma soprattutto di qualcuno.

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