domenica 30 novembre 2025

Cavoli a merenda

 


Secondo me, la vera notizia nella pseudo notizia – pseudo perché priva di esemplarità, non perché falsa – sulla lista delle ragazze da stuprare scritta nei bagni del liceo romano Giulio Cesare, consiste proprio nel trarre una qualche indicazione di carattere generale dalla scritta in un cesso.

Ovviamente quella scritta è odiosa, ma se tutto ciò che viene scritto sulle piastrelle di un bagno dovesse possedere rilievo sociale e carattere di verità, dovremmo ricavare che anche ciò che viene dichiarato da anonimi avventori negli orinatoi degli Autogrill corrisponda a una tendenza diffusa nel Paese, affetto da macropenia. Farebbe insomma statistica lo scarabocchio di "Arturo, 27 cm di ardore, telefonami e non te ne pentirai". E invece, lo sappiamo bene, sono solamente i vaneggiamenti di qualche sciroccato, che non trova altro modo per dare forma alle proprie fantasie.

Certo, fantasticare di essere superdotati è ben diverso da una fantasia collettiva di stupro, ma l’eco giornalistica che viene data alla vanvera di uno o comunque di pochissimi – in un bagno scolastico non si entra in più di tre o quattro – in qualche modo l’alimenta. Bastava comunicare il fatto alle forze dell'ordine e chiuderla lì.

Quando un anonimo scemo viene premiato da notorietà, è invece probabile che lo rifaccia: non lo stupro, ma la sua dichiarazione d’intenti. Che con una presunta natura patriarcale della società italiana (è quanto ha affermato la dirigente dell’istituto, Paola Senesi) c’entra come i cavoli a merenda.

Cosa mi sono perso?

 


Cosa mi sono perso? si chiedeva Giorgio Gaber in un omonimo brano tratto dal Signor G., era il 1985. Per concludere che perdersi qualcosa – si riferiva a spettacoli, libri, film – non sempre è un’esperienza subita e negativa, può tradursi in una scelta: questa sera, ecco, scelgo di perdermi il concerto di Achille Lauro, oppure l’ultimo film di Paola Cortellesi.

Niente contro Achille Lauro e Paola Cortellesi, intendiamoci. Ma scelgo comunque di perdermeli per fare spazio ad altro. A ogni pieno corrisponde infatti un vuoto, una possibilità mancata, un’omissione. Ci pensavo nel continuo imbattermi in discorsi sulla famiglia nel bosco. Una colata di parole che al solito parte dai media, per saturare le pendici arroventate dei social.

Non mi interessa dire la mia al riguardo, ma mi pongo la stessa domanda di Gaber: cosa ci stiamo perdendo nel parlare della famiglia nel bosco?

Il sospetto è che sia un modo non necessariamente intenzionale (o forse sì…) per non parlare di tutte le altre famiglie che vivono nel sottobosco del precariato, della disoccupazione, la malasanità, lo sfruttamento, diciamo pure senza formule edulcorate: per non parlare delle famiglie povere.

È un fatto che la nostra attenzione somiglia alle poltroncine di velluto di una sala cinematografica, e non si può vedere due film allo stesso tempo. A un film, mettiamo, di Ken Loach sul sottoproletariato britannico, noi abbiamo preferito la commedia ecologica sulla famiglia nel bosco. All’uscita dalla sala ne discutiamo con fervore critico sul marciapiedi, dicendo cose – ammetto – anche sensate. Siamo diventati dei Mereghetti del buon senso.

Una sensatezza che difetterebbe nel commentare il film sulla povertà, forse perché, come voleva Tolstoj, le famiglie ricche (la richezza della famiglia nel bosco consiste nel poter scegliere il proprio destino alla Robinson Crusoe) si somigliano un po' tutte, mentre quelle povere riescono a trovare vie individuali e schive al proprio patire. Una varietà che rende più difficoltosa la ricerca di una soluzione.

La migliore che ho trovato è la condivisione delle ricchezze, ma se ciò non è ancora avvenuto significa che ai ricchi i soldi non escono spontaneamente dalle tasche, e i poveri preferiscono invidiarli che votare per partiti che promuovano politiche redistributive. Sarà questo o magari altro che continua a sfuggirmi, e così si parla della famiglia nel bosco. Perdendoci le centinaia di migliaia di famiglie nel sottobosco.

martedì 25 novembre 2025

Blondi (mi ricordo 67)

Mi ricordo di avere letto in un libro la storia di Blondi. Era una femmina di pastore tedesco, Martin Bormann la regalò a Hitler nel luglio del 1941, poche settimane prima i panzer tedeschi avevano oltrepassato il confine sovietico nell'operazione Barbarossa. Il regalo deve essere stato molto gradito, Hitler non si separava da Blondi nemmeno per dormire. Nell'aprile di quattro anni dopo, in pieno assedio al Führerbunker di Berlino, diede alla luce cinque cuccioli concepiti con Harass, il cane dell'architetto Gerdy Troost. Provo a immaginare il corteggiamento di Harass sotto le bombe della Royal Air Force.

Per vedere la scena, mi accorgo che devo però costruire una cornice. È composta da generali e colonnelli, vanno e vengono trafelati, non si capisce come riescano a essere sempre inappuntabili nelle loro divise grigioverdi – immagino anche chi le lava e le stira, bisogna stare attenti a non bruciare le mostrine. Portano i dispacci dal fronte che si riduce sempre più, ma la rovina viene addolcita al Führer in un birignao tecnico e procedurale. Ricorda la ricostruzione della scena del crimine nei programmi televisivi di Bruno Vespa: al posto della vita, una riproduzione della vita in scala 1\100.

Dalle cucine proviene odore di disinfettante e verdure bollite; eppure non mancano sulla tavola tenerissime fragole rosse, primizie di una primavera non diversa da tutte le altre, a cui seguirà l’estate e poi l’autunno e poi l'inverno, fino a una nuova primavera. Sono glabri i volti dei combattenti della Hitlerjugend, vengono premiati con una carezza dall’uomo con piccoli baffi. Nella distorsione di uno specchio del luna park, quello sulla Friedrichstraße era stato convertito nel 1943 per l'assemblaggio e manutenzione di armi, ne ritorna lo stesso sguardo accesso di Telemaco al sospirato ritorno di Ulisse.

Intanto, in un tiepido cantuccio, i due animali procedono nel loro rituale di accoppiamento: lei prima si nega, morde, fa la vezzosa; quindi alza piano la lunga coda sfrangiata. Quando i militari dell’Armata Rossa riuscirono a fare breccia, insieme ai resti umani (i cineoperatori sovietici vollero disporre i cadaveri dei sei figli di Magda Goebbels in ordine di altezza, forse un modo per restituire equilibrio geometrico alla follia, o magari per un'estrema e macabra burla) furono ritrovati anche i corpi di Blondi e di uno dei suoi cuccioli.

Si trattava quasi certamente del piccolo Wolfe, il preferito da Hitler che così l'aveva chiamato in un anagramma imperfetto del proprio nome, in cui si compiaceva di scorgere la sagoma fiera di un lupo. Le pillole di cianuro appartenevano a Himmler, ma gli vennero somministrate dal Dr. Stumpfegger: se funziona con gli animali – il probabile sotto testo – andrà bene anche per le persone. E poi, di Himmler, si sa, c'è poco da fidarsi... Gli assaggiatori servono a evitare che i sovrani vengano avvelenati, in questo caso Blondi e il figlio avevano la funzione opposta. Il rischio è che Hitler potesse sopravvivere al crollo del Reich.

Una diversa versione vuole l’uccisione di Wolfe successiva di un giorno, se ne sarebbe occupato il sergente Fritz Tornow, addestratore e custode dei cani. È un ordine, si sarà detto al modo impersonale di Eichmann, solamente un ordine, e gli ordini vanno eseguiti. Ma mi chiedo perché farlo quando Hitler era già morto... Sopravvive il potere perfino alla morte?

Non è nota la sorte degli altri tre cuccioli, ma sappiamo per certo che il rimanente fu ceduto alla sorella minore di Eva Braun, Margarete Berta detta Gretl, come la protagonista della celebre favola tedesca. La segretaria privata di Hitler, Traudl Junge, ricorda in un'intervista di quanto Eva detestasse Blondi, che in più di un'occasione aveva visto prendere a calci. Di quel libro che parlava di uomini, battaglie, onore e gloria non ricordo altro.

lunedì 17 novembre 2025

Ben (mi ricordo 66)

 

Mi ricordo che quando entrava dalla porta già spalancata del bar del campeggio si diffondeva un inconfondibile odore di pesce, andandosi a mescolare a quello delle creme solari ad alto filtraggio – talune avevano sentore di noce di cocco – ampiamente spalmate dai tedeschi in vacanza sul lago di Como, mentre la pallina da ping pong rimbalzava sul tavolo di truciolato e dal juke-box, a turno, provenivano le note di Ancora tu di Lucio Battisti, Margherita di Riccardo Cocciante e Ramaya di Afric Simone, che si disputavano il vertice dell'hit parade nell'estate del 1976. Dopo avere mostrato il contenuto del paniere, Ben tornava alla sua roulotte a riporre la canna e pulire barbi, carpe, triotti, cavedani, agoni, alborelle e persici reali. Non tutti pescati in una sola volta, come le canzoni del juke-box. Ma era comunque un pescatore esperto.

A me pescare non è mai piaciuto e ci siamo sempre e solo sfiorati, non posso dire che fossimo davvero amici; eppure avverto una familiarità affettuosa nei suoi confronti. Per qualche misteriosa ragione Ben riusciva a perforare gli invisibili recinti sociali, univa persone che non avrebbero potuto essere più diverse, in una piccola città come Sondrio lo conoscevano tutti, e tutti provavano simpatia per lui. In insiemistica l’avremmo detto un insieme intersecante, dove alla minima porzione sovrapposta si aggiungono spazi vuoti e intangibili, colmati dalla fantasia.

Nel suo caso si trattava di una narrazione diffusa, possedeva tratti quasi leggendari, di certo eccessivi. Pochi anni dopo, ad esempio, si sparse la voce che Ben era andato al cinema teatro Pedretti, i pop corn non si usavano ancora altrimenti ne avrebbe preso un contenitore bello pieno, per accompagnare la visione dei Guerrieri della notte. E fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se non ci fosse tornato anche il giorno successivo e il giorno dopo ancora, sempre pagando regolare biglietto, per cinque volte consecutive. Secondo altri le volte furono otto e, per altri ancora, addirittura dodici – in pratica tutte le due settimane di programmazione, con esclusione del lunedì di chiusura – più una tredicesima a Lecco, dove il film era ancora in cartellone.

Era lo stesso Ben ad alimentare il gusto per la sciarada e l'iperbole discorsiva, c’era un tratto debordante a partire dalla sua fisicità, il sorriso degli entusiasti perennemente stampato sulle labbra – bastava davvero un pescetto appeso all’amo per farlo contento –, e le labbra ad allargarsi sul faccione tondo.

Lo intuì un dj di nome Norberto, che lo volle accanto in una trasmissione musicale su Tele Sondrio. Norberto parlava parlava non smetteva mai, se non gli veniva una parola utilizzava l’espressione a ogni buon conto, e poi ripartiva. Pare che i disc jockey debbano saturare ogni spazio sonoro con la malta di una loquela decerebrata, attività che a Norberto non poteva venire meglio. Ben gli sedeva accanto in abiti tirolesi, muto come uno di quei pesci che era tanto abile a pescare: era sufficiente il sorriso rivolto in camera, forse avevano pensato al precedente di Andy Luotto in L'altra domenica. Uno alto, snello, capellone e ciarliero; l’altro silenzioso, buffamente rivestito e sovrappeso. Un gioco delle parti che avrebbe voluto essere divertente, ma a me metteva solamente tristezza.

Un po’ era lo stesso Ben a cercarsi questo ruolo, va detto. Nelle pellicole cinematografiche personaggi come lui hanno funzione di contorno, servono a stemperare la tensione, creare siparietti comici; poi l'eroe rientra in scena. Ma a volte sono proprio i personaggi secondari a prendere la parola e raccontare una storia, serve a illuminare la vicenda principale di una luce diversa, spesso ambigua – cosa ci avrà voluto comunicare il regista?

Nel mio caso è avvenuto una decina di anni fa, insieme ad Alberto e al mio cane Peppa ero andato a pranzo in una trattoria a Ligari, una minuscola frazione di Sondrio. Lì troviamo Ben. È da solo. Da lontano non l'avevamo riconosciuto, neppure sorride come suo solito se non al momento in cui ci vede e saluta, e così lo invitiamo a unirsi a noi per il pranzo. Dopo i soliti convenevoli ci racconta che è in partenza per il Brasile. Nei mesi precedenti aveva conosciuto una donna brasiliana, era arrivata in Italia con l'intento di fare chiarezza sulle sue radici. Dell'incerta origine conosceva solo il fatto che gli antenati provenivano dalla Lombardia, quasi al confine con la Svizzera, e il cognome della linea paterna, ovvero il proprio, era Benini. Ma anche Ben si chiama Benini e vive a mezz’ora dalla dogana di Campocologno, la faccenda comincia a farsi interessante…

La donna aveva preso una guida del telefono e si era messa a telefonare a tutti i Benini a nord di Milano, e quando aveva contattato Ben si erano parlati, poi incontrati per abbozzare un albero genealogico, quindi innamorati. Benini ama Benini, sarebbe bello da scrivere con una bomboletta spray sopra a un cavalcavia. Altro che I guerrieri della notte, qui siamo in un film di Frank Capra. Ma, dopo un fremito da spettatori appagati dalle sequenze iniziali, Alberto si fa serio, e gli chiede a bruciapelo:

– Ben, cosa vai a fare in Brasile? Come campi, intendo. Sei sicuro?

– Ho più di cinquant’anni – risponde Ben con altrettanta serietà. – È la donna che avrei voluto da sempre, ho finalmente trovato la mia donna. Qualcosa farò…

Da quel giorno non ho più avuto sue notizie, cosa in fondo normale. Ieri mi è però arrivato un messaggio WhatsApp, in cui un amico mi comunica che Ben è morto, all'improvviso, in Brasile. È in quel momento che ho realizzato che non esistono personaggi minori: anche se in abiti tirolesi e privati della parola, anche se l'odore di pesce si diffonde quando entri dalla porta, anche se seduti su una poltroncina di velluto a guardare e riguardare la vita degli altri sullo schermo. Dietro c'è sempre una storia. E le storie sono storie d'amore o di morte o di ricerca o di un doppio. Ben, non se ne è fatta mancare nessuna.

domenica 2 novembre 2025

Dio è una persona difficile (mi ricordo 65)

 


Mi ricordo dei giorni del lockdown pensando a Michele; mi ricordo di Michele pensando che magari oggi mi ha chiamato e io non ho sentito, non ho potuto sentirlo, perché l’ho bannato.

Michele è un po' tocco, diciamolo subito senza tanti giri di parole. Ma Michele è mio amico. Non mi era mai capitato di bannare il numero di telefono di un amico, ho però dovuto farlo con Michele. Il fatto è che chiamava nel cuore della notte. Mi sento sooolo diceva con accento siciliano, la penultima vocale strascicata. E io l'ho bannato.

Continua comunque a essere mio amico, ci siamo conosciuti una decina di anni fa al Bar Piero. Nei giorni del lockdown il Bar Piero era chiuso, e così ogni tanto ero io a chiamarlo. Non in piena notte come fa lui, ma verso le sette di sera quando ha finito di cenare all'ora in cui cenano i vecchi e gli svizzeri; intanto, guarda il quiz di Amadeus:

– Conosci le risposte? – mi chiedeva.

– Alcune sì e alcune no, Michele.

– Io nessuna, conosco solo i santi.

Ed è vero: non gliene sfugge uno. Se invece di Amadeus ci fosse ancora Mike Bongiorno con le sue domande a tema, sono certo che potrebbe sbancare Rischiatutto. Argomento a scelta vita dei santi, ovviamente.

La conversazione telefonica procedeva con l’enumerazione di ciò che ha appena mangiato. Carne Simmenthal, pomodori, pane, olio, sale, salame piccante, sottilette Kraft, tre uova, acqua frizzante, una mela, due noci e un dattero. A Michele piace fare lunghi elenchi. Ma gli piace soprattutto mangiare, ha sempre fame, una fame come si dice atavica, simile a quella di Totò in Miseria e nobiltà.

L'unica cosa che non può mangiare sono i dolci. Sono morti di diabete la madre, il padre e soffrono della stessa malattia tre degli otto fratelli, tutti rimasti in Sicilia. Non si capisce bene perché lui invece stia qui, a Sondrio. Se glielo chiedi ti risponde io sono nordiiista, termine con cui qualifica le persone del nord Italia.

Un'altra cosa che piace fare a Michele è andare in chiesa. È capace di seguire anche due messe al giorno, oltre a numerosi rosari. Non che comprenda tutto ciò che viene detto, specie nell'omelia. Dio è una persona difficile mi ha confidato una volta. Però intanto prega: per avere una casa, o più precisamente una fattoria con vitelli, conigli, capretti, galline, maiali; poi una Harley-Davidson, un Maggiolone Volkswagen, una fidanzata nordista e così via, anche qui parte l'elenco.

Ma non prega solo per sé e la realizzazione dei suoi desideri; sui quali, va detto, ogni tanto comincia a dubitare. E non fa nieeente... dice, in cui il soggetto implicito è con tutta evidenza Dio. Ho pregato per te e Fata Morgaaana, dice ancora. Fata Morgana sarebbe mia madre. Io invece sono Volpe, si diverte a dare soprannomi. Ivan, un altro amico comune, è il Generale, mentre il terzo della combriccola è semplicemente zio Luigi.

– E tu come ti chiami – gli ho chiesto un giorno , qual è il tuo soprannome?

Si è grattato il grosso capoccione per qualche secondo, poi, d'impulso, ha risposto: – Io sono il Bambino.

Il venerdì andavamo a mangiare tutti assieme in pizzeria. Il Generale, zio Luigi e io ordinavamo una pizza, mentre il Bambino due cotolette alla milanese e un uovo al burro. Lui ormai si sente nordista anche a tavola, la pasta alle sarde è memoria sbiadita e non rimpianta, roba da sudisti. Ha anche acquistato un cappellino da baseball con sopra scritto I ❤️ Milano. Se lo toglie solo quando va in chiesa.

Oltre ad andare in chiesa e mangiare come un porco, Michele passa il suo tempo in piazza, seduto su una panchina che sta tra la chiesa e il Bar Piero. Lì fuma e conversa un po' con tutti. È gentile e benvoluto, somiglia a un enorme cucciolo di koala. Un orsacchiotto che parla, parla, non smette mai; anche di fumare. Forse perché si sente solo, come mi ripeteva nelle telefonate notturne prima che lo bannassi. Ogni tanto ho i sensi di colpa e lo sbanno, ma giro una settimana e riecco comparire il suo nome sul display: 

– Pronto, cosa c'è? 

– Mi sento sooolo.

– Ok Michele, ma sono le tre e mezza di notte...

Lui continua imperterrito come se fosse un trascurabile dettaglio: – Ieri, al Centro, una mi ha fatto una sega. 

– Una sega! Ma il direttore non aveva detto che se ti scopre ancora a farti fare le seghe dalle pazienti sono guai?

– Sì, ma mi so fatto fuuurbo.

– Furbo?

– In ascensore. Abbiamo preso l'ascensooore. Poi ho schiacciato il tasto, quello rosso, l'ascensore si è bloccaaata. E me l'ha fatta lì.

– Mmm...

– ...

– Quante gliene hai date?

– Le ho daaato un pacco di Camel.

– Michele, quante volte te lo devo dire che un pacchetto è troppo! La prossima volta dalle solo cinque sigarette: per una sega è fino a mai.

Conversazioni così, mentre i panettieri discutono dell'impasto e tutti gli altri dormono. D'altronde il Centro sarebbe il Centro diurno di sostegno psicologico e sociale, altrimenti detto CPS. Prima lo chiamavano manicomio, il manicomio di Sondrio, conficcato tra le vigne dove fanno un ottimo Valtellina superiore. Tra i matti ho scoperto che vige ancora il baratto, e le merci di scambio più pregiate non sono oro, incenso e mirra, ma sesso e sigarette.

Nei giorni del lockdown però era chiuso anche il Centro diurno. Niente seghe, niente Bar Piero, niente messe. A Michele rimanevano solo le domande di Amadeus – di cui però non conosce le risposte –, oltre alle sigarette e alle Simmenthal, con cui non riesce a colmare il suo disperato bisogno di compagnia. Di affetto, meglio. Che è forse amore a misura di bambino. Un sentimento semplice, tattile, non si è ancora complicato e divenuto enigmistico. 

“Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone (…) a cercare fratelli che non sono più”, lo scriveva Pasolini in una poesia del 1964. Allo stesso modo, nel marzo e nell'aprile del 2020, Michele girava come il pazzo che è tra i piccioni posati sul sagrato della chiesa e la saracinesca sbarrata del Bar Piero, prima di sedersi sulla sua solita panchina. Da solo. Anzi, sooolo.

Quando Dean Martin attacca la prima strofa di Volare, la suoneria che ho impostato sullo smartphone, dopo le dieci di sera penso sempre sia Michele, anche se magari è una badante ucraina che ha sbagliato numero: Ciao Olga carissima, sono Myroslava. Non sono Olga. Poi mi ricordo che il suo numero è fuori gioco, e tiro un sospiro. Non ho ancora capito se sia di sollievo o di rimpianto.

Durante il lockdown ci si telefonava più spesso, non c'erano molte alternative. Per paradosso, è stata un'occasione per rinsaldare rapporti che si stavano sfilacciando. Ad esempio con un mio conoscente che non sentivo da anni, non che avessimo chissà cosa da dirci, alla fine lo scambio si è limitato alla cronaca rarefatta di quel giorno. Era appena passato in piazza Campello per andare in farmacia, uno dei pochi spostamenti concessi. 

– Oh, non puoi crederci – mi ha detto col tono di chi è appena uscito dalla grotta della paura –, mai vista la città così deserta. Alle sei di pomeriggio non c'era anima viva.

– Eh già, non si può andare in giro  ho ribattuto tanto per dire qualcosa.

–  L'unico era un tipo grasso. Stava seduto su una panchina, tutto da una parte, come se aspettasse qualcuno. Intanto si accendeva una sigaretta con il mozzicone della precedente.

– Per caso indossava un cappellino da baseball?

– Sì, un cappellino blu con la scritta I ❤️ Milano. Come fai a saperlo?

– È il Bambino.

– Chi?

– Non importa.

Al termine della telefonata ho pensato che il Covid non è stato solo grafici, plateau del contagio, pallottoliere dei morti, medici e infermieri esausti ed economia, bisogna far ripartire l’economia tuonava la Confindustria. È stato anche Michele e la panchina di piazza Campello. Su cui forse pregava alla sua maniera, quando parla con Dio non ha nemmeno più le vocali strascicate:

– Ti supplico, fammi tornare a mangiare cotolette assieme a zio Luigi, la Volpe e il Generale. Ti do una sigaretta. Anzi di più, quante ne vuoi? Facciamo una stecca, basta che fai sparire questo stupido virus. Ma nel conto mettici pure tre seghe in ascensore senza che il direttore mi scopre.

Non so cosa abbia risposto l'interlocutore. In fondo aveva ragione Michele, Dio è una persona difficile.

Maggiolini (mi ricordo 64)

Mi ricordo i maggiolini comparire in massa al sole generoso di maggio, chi ne ha scelto il nome non deve essersi sforzato troppo. D'altronde l'esistenza di quell'insetto innocuo e tozzo si consumava quasi interamente nella tarda primavera: ad aprile non si vedevano ancora in giro e, a fine giugno, si ritirava con apprensione la pagella scolastica, senza che il viaggio in bicicletta verso la Scuola elementare di via Vanoni fosse tempestato dai maggiolini.

In alcuni anni erano presenti più che in altri, la maestra ci aveva detto che seguivano uno schema ciclico, ogni quattro giri di calendario si presentava un'annata copiosa; non seppe dirci la ragione ma in fondo interessava poco, più che altro era una prassi a legare i bambini degli anni Settanta ai maggiolini.

Alcuni li infilzavano con la punta del compasso, altri gli strappavano le ali e poi organizzavano delle gare (con gambette sproporzionate al corpo arrancavano senza una direzione precisa, per mantenerli nei margini della pista, tracciata a pennarello sul cemento del cortile, gli si dava dei colpetti con le dita), altri ancora li bruciavano vivi per mezzo dell’accendino Dupont del padre. C'era solo l'imbarazzo della scelta, a qualsiasi tortura non si sarebbero ribellati.

Io mi limitavo a spappolarli con una ciabatta se entravano in casa dalle finestre spalancate – che schifo! – e a dargli degli schiaffoni se si fissavano agli abiti o ai capelli – ancora più schifo –, cosa che avveniva con uguale frequenza; è come se cercassero il contatto, l'amicizia. O magari era pura vocazione al martirio: non solo non possedevano la rapidità di fuga della mosca e il pungiglione della vespa, ma ti venivano incontro fiduciosi, con tutto ciò che gliene veniva.

Fammi pure ciò che vuoi, parevano comunicare con l'aspetto repellente, basta che mi aiuti ad andarmene da qui il prima possibile, dopo un paio di settimane già non ne potevano più di stare al mondo. Per questo non ci intendevamo. Tanto a noi piaceva il Cornetto Algida, eccitava l’autopista Policar, sorprendeva la bolla soffiata con le labbra nella pasta morbida ed elastica delle Big Babol, quanto a loro avresti attribuito il pensiero schifato di antichi gnostici, detestando ogni cosa a partire da loro stessi. Ma era un detestare gentile.

Si dice che la natura proceda seguendo la legge darwiniana di selezione del più adatto, e mi chiedo a quale funzione il maggiolino corrispondesse con tanta accuratezza, a giustificare la diffusione infestante. Forse proprio ad allenare gli uomini alla crudeltà, già a partire dagli esordi infantili. Se ne ricava che l'umanità ora non abbia più bisogno di tale apprendistato, con i maggiolini a condividere la sorte di lucciole, mammut, uri e foche monache dei Caraibi, oltre a Cino Tortorella nel ruolo del Mago Zurlì. Anche lui scomparso senza lasciare eredi in abiti da paggetto.

Una spiegazione che mi convince poco, e preferisco pensare ai maggiolini come a uno dei tanti errori nel procedere per tentativi della vita: try and fail, prima si fa e poi eventualmente si aggiusta il tiro. Quando hanno finalmente inteso di non essere benvoluti, i maggiolini hanno smesso di farci visita, senza alcuna polemica, revocando il dono della loro gentilezza. Un'acquisizione che tutt'ora difetta alla specie a cui appartengo, non meno superflua ma incapace di fare tesoro dall'esperienza. Del mite e sfortunato insetto resterà così solo un omonimo modello della Volkswagen.

sabato 1 novembre 2025

Grattacieli (mi ricordo 63)

Mi ricordo dei grattacieli milanesi all’ora del tramonto, specie in inverno quando il sole cala presto e le polveri sottili saturano l'aria, conferendo un che di seppiato alla visione, da presente remoto. Mi piaceva osservarli in questo lieve scarto, andate pure a bere l’aperitivo dicevo, io vi raggiungo dopo. E mi sedevo su una panchina a fissare un grattacielo, uno a caso purché ospitasse solamente uffici.

Intorno alle diciassette, con il cielo che sta imbrunendo ma non è ancora nero, iniziano a spegnersi le prime luci. Dalle pareti specchiate lo si vede bene. Poi è tutto un incalzare di interruttori: clic, clic, clic… La sagoma di vetro, acciaio e cemento armato si rabbuia, seguendo lo stesso destino di un albero di Natale arrivata l'Epifania.

Ci sono però tre o quattro luci che perseverano nel rimanere accese; sono già le otto di sera, le nove perfino e qualcuno ancora abita quelle stanze. Alla fine il freddo ha sempre prevalso e non so come vada a finire, ma nell’alzarmi mi chiedevo ogni volta: chi sono?

Degli stakanovisti, o meglio ancora degli amanti clandestini, il direttore e la segretaria che scopano sulla scrivania… Più facile e meno letteraria la presenza del personale delle pulizie. Ma nell'immagine permane un elemento che resiste alla logica, a farsi metafora di un tramonto più esteso. Invecchiare, penso, deve essere la stessa cosa. La medesima ostinazione.

Il mondo che conoscevi si spegne un po' alla volta. Prima viene il fratello di una compagna: bussa il bidello e comunica che è annegato al fiume; è solo una lampadina rotta ti dici, basta sostituirla. Poi la corrente elettrica comincia ad arrivare a sprazzi, qualcuno riprende a fare uso di candele, l'oscurità diventa regola. L’orario di ufficio in fondo è terminato, che c’è di strano? Ma tu non vuoi pigiare quello stramaledetto interruttore, chiudere tutto e tornare a casa.